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La Green Economy e l’Italia in uno studio dell’Istituto Bruno Leoni

Appena un anno fa Claudio Gravina ha affrontato su queste pagine il tema delle cosiddette “job opportunities” collegate all’implementazione della green economy, mettendo in risalto come con conti alla mano e scarsa attenzione alla propaganda, il potenziale dell’economia verde di generare occupazione, specie con riferimento allo sviluppo di fonti rinnovabili, sia parecchio più basso di quanto viene normalmente prospettato o, in molti casi, addirittura promesso in sede politica.

All’epoca Claudio ha riportato quanto scaturiva da uno studio condotto sull’economia spagnola, proiettandone seppur marginalmente i risultati anche su quella americana. Oggi, con la presentazione di uno studio prodotto da Luciano Lavecchia e Carlo Stagnaro per l’Istituto Bruno Leoni, disponiamo di un’analisi anche per il nostro paese, i cui risultati, senza fare alcun riferimento all’opportunità  o meno di sviluppare le fonti rinnovabili, non si possono certamente definire incoraggianti. In generale, ma a maggior ragione considerata l’attuale contingenza economica, nessuna strategia può essere implementata tout court senza delle analisi approfondite che ne mettano in risalto difetti ed opportunità , in special modo su argomenti che si prestano ad interpretazioni spesso molto contrastanti. Personalmente non ho certamente lo skill per dire la mia sull’argomento, ben vengano quindi queste ed altre opportunità  di informazione magari anche di segno differente.

Il lavoro ha il titolo “Are Green Jobs Real Jobs? The Case of Italy” e quanto segue è un breve riassunto delle conclusioni cui giungono i due autori. Per affrontare con completezza l’argomento e, perché no, anche per rilevarvi eventuali punti di criticità, potete leggerlo per intero a questo link.

Le fonti rinnovabili non sono uno strumento efficiente per la creazione di posti di lavoro. Infatti, in media, ogni “green job” assorbe un quantità  di risorse che, se investita in altri settori dell’economia, potrebbe generare in media 4,8 posti.

Da qui al 2020, a seconda degli scenari, potrebbero essere creati tra circa 55 mila e circa 112 mila posti di lavoro grazie allo sviluppo delle fonti eolica e solare fotovoltaica, se nel 2020 fosse raggiunto il “potenziale massimo teorico” stimato dal governo italiano nel 2007. Tuttavia, per ottenere tale risultato dovrebbe essere mobilitata una massa enorme di finanziamenti, pari a circa 6 miliardi di euro all’anno nel 2020. Se le stesse risorse fossero lasciate al mercato, per ogni posto di lavoro “verde” potrebbero esserne creati mediamente 4,8 nell’economia in generale, o 6,9 nell’industria. Questo non significa necessariamente che per ogni nuovo posto di lavoro ne sarebbero distrutti 6,9, ma suggerisce ciò che è evidente: l’industria verde è ad alta intensità  di capitale, non ad alta intensità  di lavoro. Non sorprende, dunque, che gli investimenti verdi generino meno occupazione degli investimenti in altri settori dell’economia, e in particolare nell’industria. In breve, il risultato è che gli investimenti verdi possono avere conseguenze positive di natura ambientale, ma il ‘green deal’, nella misura in cui ha lo scopo di creare occupazione o agire come stimolo anticrisi, è uno strumento inefficiente.

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Published inAttualitàEconomiaNews

11 Comments

  1. duepassi

    Scusate se mi azzardo a dire la mia, dopo così autorevoli interventi, ma spero che perdonerete la mia modesta posizione di semplice uomo della strada, senza pretesa di detenere alcuna verità.
    A mio parere, meno interviene lo Stato e meglio è. Quello di cui ho più paura è una economia burocratizzata, lontana dalla logica costi/benefici, e lontana dalle persone.
    Certo, questo non è un must inderogabile, e ci sono pure zone in cui l’intervento correttivo dello Stato è auspicabile, come può essere il preparare il terreno per l’avvento di energie rinnovabili,
    ma
    il problema è la misura di questa correzione.
    Diffido sempre delle capacità imprenditoriali di oscuri funzionari nascosti in qualche ufficio, ad improvvisarsi Napoleoni dell’economia e del mercato.
    Ho maggiore speranza che i nostri investimenti possano dar buon frutto rispettando maggiormente (non dico “del tutto”, ma “maggiormente”) le regole e le indicazioni del mercato.
    Una economia ultra-florida può permettersi tutti gli sbagli che vuole. Una economia zoppicante ed affannosa, come quella attuale, ha invece più necessità di contare bene i soldini che spende, e guardare dove li investe.
    A me hanno insegnato che non si deve fare il passo più lungo della gamba, e questo, egregio Marco Gisotti (che ringrazio per il suo intervento e colgo l’occasione per salutare), non vuol dire che se uno non si vuole sbilanciare, non voglia camminare,
    ma
    solo che voglia guardare bene dove mette i piedi.
    Secondo me.

  2. […] siamo monotematici, ci occupiamo solo di lavori verdi. Questa mattina abbiamo pubblicato un post su uno studio che cerca di far chiarezza sul rapporto costo-beneficio dello sviluppo della green […]

  3. @Guido: Grazie davvero di aver ripreso il nostro lavoro.

    @Marco Gisotti: Non sono sicuro di poterle rispondere in maniera convincente, perché almeno parte delle osservazioni che svolge non trovano alcun riscontro nello studio di cui stiamo parlando (in altre mie pubblicazioni sì, ma quello è un discorso molto più ampio). In questo studio ci siamo posti una domanda molto semplice: quale ripercussione occupazionale possono avere gli investimenti verdi, rispetto ad altri investimenti? La risposta a questa domanda – qualunque essa sia – di per sé non nega l’utilità delle rinnovabili, né nega l’esistenza di sussidi a favore di altri settori industriali. Porre una domanda del genere, inoltre, risponde ad almeno due esigenze diverse: la prima è capire se l’investimento verde sia utile anche sotto il profilo economico/occupazionale, oltre che sotto quello ambientale; la seconda è fornire le basi per sviluppare politiche appropriate. Per quel che riguarda il primo punto, vale la pena notare che, se l’obiettivo primario dell’investimento verde è (almeno ufficialmente) la riduzione delle emissioni, un obiettivo secondario – esplicitamente richiamato da Ue e Usa, oltre che dalle organizzazioni ambientaliste – è il rilancio dell’economia. Senza andare troppo lontano, un rapporto dell’anno scorso di Greenpeace dice: “i leader mondiali hanno l’opportunità di stimolare la ripresa economica e nello stesso tempo di tagliare le emissioni di anidride carbonica, attraverso l’investimento in posti di lavoro verdi nel settore delle energie rinnovabili” (http://www.greenpeace.org/raw/content/italy/ufficiostampa/file/sintesi-green-jobs). Dichiarazioni analoghe si trovano in migliaia di documenti, ufficiali e no. Quello che noi abbiamo trovato è, in un certo senso, una banalità, che qualunque operatore dell’industria rinnovabile può confermare: quali che siano i suoi meriti, l’investimento verde ha (rispetto ad altri investimenti in settori labor-intensive, come l’industria manifatturiera) minori ricadute occupazionali. Poiché l’investimento verde va a scapito soprattutto dell’industria manifatturiera (che risente maggiormente del delta sulla bolletta elettrica), se ne deduce che il saldo netto tra posti di lavoro creati nel settore verde e posti di lavoro, o opportunità di lavoro, nel manifatturiero è probabilmente negativo, e nella migliore delle ipotesi a somma zero. Se ne deduce, cioè, che la “green economy” non ha un doppio dividendo (economico e ambientale), ma che i suoi presunti benefici ambientali hanno un costo economico e occupazionale. In parole povere, gli investimenti verdi sono un sacrificio, non un’occasione. Dopo di che, si può tranquillamente sostenere che sono un sacrificio necessario. Ma negare che la società sarà chiamata a mettere mano al portafoglio va contro la logica e contro l’evidenza.

    • gbettanini

      Mi scusi dott.Stagnaro,
      ho dato una breve occhiata al vostro documento e francamnete la prima impressione non è ottima.
      Sono partito dal paragrafo dove si parla del “Conto Energia” (3.2.4.)dove regna una discreta confusione. Non mi pare si spieghi che oltre alla tariffa incentivante (che non è una vera e propria “feed-in tariff”) il produttore ha diritto alla valorizzazione dell’energia che può essere autoconsumata (Scambio Sul Posto) o venduta alla rete (Mercato o Ritiro Dedicato). Tanto per capirsi un impianto fotovoltaico di medie dimensioni ha diritto a circa 0,40 €/kWh + 0,10 €/kWh (tariffa incentivante + vendita energia alla rete). Un impianto domestico che accede allo Scambio Sul Posto invece vede valorizzata l’energia in circa 0,40 €/kWh + 0,20 €/kWh (tariffa incentivante + risparmio bolletta elettrica)…. e a differenza di quanto riportato nel documento con lo S.S.P. non è possibile vendere alla rete l’energia prodotta.
      Poi sono passato ai certificati verdi la cui taglia viene definita essere pari ad 1 MW (anzichè 1 MWh) rendendo incomprensibile il testo per un lettore straniero.
      Non sono andato oltre ma penso che sia il caso di fare una revisione del documento.

      Ma a parte queste piccole imprecisioni mi sembra che nella valutazione dei “green jobs” relativi al fotovoltaico non si tenga conto del fattore ‘tecnologico’. Mi spiego meglio…. per abbassare il costo di produzione dell’energia eolica l’unica strada che pare percorribile è costruire turbine più grandi e posizionarle dove c’è più vento (off-shore) ma comunque la tecnologia eolica è ormai piuttosto matura.
      Per abbassare il costo di produzione dell’energia da fotovoltaico dai circa 20 c€/kWh attuali ai 5 c€/kWh che si prevedono tra una ventina/trentina d’anni ci sarà una radicale trasformazione del prodotto che a mio parere potrà consistere (tra 20-30 anni) in pannelli flessibili a basso costo applicabili in maniera molto semplice sulle superfici esterne di un edificio e collegabili alla rete elettrica di casa attraverso un semplice inverter/accumulatore. La comparsa di un prodotto simile spazzerebbe via il 90% di chi viene (e verrà) impiegato nell’installazione, nella costruzione dei supporti e delle strutture degli attuali pannelli.

      Cordiali saluti.

    • Gentile dott. Bettanini, grazie della segnalazione dei refusi. Un paio di precisazioni: operativamente non abbiamo considerato il valore dell’energia prodotta (e venduta o consumata) in quanto il mostro obiettivo era valutare l’efficienza della spesa “pubblica” (tecnicamente i sussidi non lo sono, ma di fatto sì) nella creazione di posti di lavoro. Per questa ragione abbiamo fatto una serie di ipotesi o semplificazioni allo scopo di sovrastimare il numero di green jobs (compresa l’ipotesi di assenza di progresso tecnologico, che in ogni caso darà probabilmente risultati in un orizzonte temporale più lungo di quello da noi considerato, che arriva fino alla capacità installata nel 2020). Di conseguenza, noi consideriamo le stime, sia ottimistica che pessimistica, sul numero di lavori delle sovrastime; e la stima sullo stock di capitale medio per lavoratore una sottostima. Per farla breve: le cose nel mondo reale saranno peggiori di come sembrano nel nostro paper.

  4. Marco Gisotti

    Caro Guido,
    come sai ho speso 400 pagine (insieme a Tessa Gelisio) e anni di lavoro nell’occuparmi dell’argomento. Il frutto di tutto questo è ogni mese su Ecolavoro (www.modusvivendi.it) e nel libro Guida ai Green Jobs (http://www.edizioniambiente.it/eda/catalogo/libri/364). Lo studio dell’Istituto Leoni è a dir poco sconcertate e fuorviante.
    Il problema non è il dato in sé, ma il modo in cui viene decontestualizzato e usato come arma contro gli “ambientalisti”. Praticamente non c’è settore industriale che nel nostro Paese non goda, in forme dirette o indirette, di contributi pubblici. Ed è ovvio che qualunque tecnologia innovativa il cui uso sia considerato necessario dallo Stato ha bisogno di essere aiutata. Lo hanno capito i tedeschi, gli spagnoli, i francesi. Lo ha capito il presidente Obama. Lo ha capito l’Unione europea con il suo piano per raggiungere una quota di 20% di rinnovabili, di 20% di risparmio energetico e di 20% di riduzione degli inquinanti entro il 2020.
    Ed è altrettanto ovvio che la crisi richieda aiuti pubblici, ancora di più se in settori strategici.
    D’altronde per anni, con l’uso distorto del CIP6, invece di finanziare le fonti rinnovabili si sono dati soldi a fonti obsolete e inquinanti.
    L’errore – o la mistificazione – è nel fatto di presentare l’occasione dei lavori verdi come una “corsa”. I lavori verdi non sono l’obiettivo, ma l’effetto collaterale di una conversione ecologica dell’industrie e dell’economia. Conversione necessaria, come spiega per esempio il Rapporto Stern sull’economia dei cambiamenti climatici, e non ideologica.
    Il costo che paghiamo, dunque, non è per dare lavoro, altrimenti tanto varrebbe lasciare le persone a casa e dargli uno stipendio per non fare nulla o, al massimo, coltivare il proprio giardino (attività “verde” per definizione!). Ma si tratta di soldi che lo Stato investe per indurre una straformazione, per realizzare delle condizioni di vita, di società e di ambiente più durevoli.
    Quando, per esempio, si fa benzina chiediamoci se la facciamo per dissetare l’auto o per andare a trovare gli amici lontani. Ecco, all’Istituto Bruno Leoni, per fare politica e dimenticando la propria vocazione d’istituto di ricerca economica, guardano l’auto e dimenticano gli amici.
    Grazie per l’ospitaliutà e un caro saluto,
    marco gisotti

    • gbettanini

      Lei ha ragione, ma lei dà per scontato che i cambiamenti climatici siano correlati alle attività umane ed in particolare alle emissioni di CO2, cosa di cui allo stato attuale manca evidenza scientifica.
      Comunque dal punto di vista tecnico-economico il problema fondamentale è che in Italia il ‘lavoro verde’ consiste per lo più nell’installare turbine eoliche e pannelli fotovoltaici di fabbricazione estera… e quando va bene pannelli fotovoltaici assemblati in Italia ma con celle di provenienza estera. Aggiungo che spesso gli stessi capitali che finanziano impianti rinnovabili in Italia provengono dall’estero. Se si rivedessero le politiche incentivanti in modo da dare un forte impulso alla ricerca ed all’innovazione in modo che in Italia si possano produrre nuove tecnologie e brevetti da poter esportare le cose sarebbero molto differenti.
      Adesso come adesso l’installazione sul territorio di impianti a fonti rinnovabili è uno spreco immane di denaro pubblico, socializzato attraverso oneri aggiuntivi che tutti paghiamo nella bolletta elettrica.

    • Salve Marco,
      speravo sinceramente che si aprisse un confronto sull’argomento, perché penso che, come accade sempre più spesso sugli argomenti legati alla sostenibilità, al clima, e ora anche alle opportunità di sviluppo di queasti nuovi settori produttivi si faccia spesso molta confusione. Non so se questo dipenda dalla scarsità di informazioni disponibili o dalla tendenza di ognuno a tirare acqua al proprio mulino. Tra poche ore, ad esempio, uscirà su CM un altro breve post dedicato a questo argomento, nel quale sottolineo proprio lo strano modo di fare informazione in questo settore. Ti anticipo una domanda: sappiamo oggi quante persone sono direttamente o indirettamente impiegate nei cosiddetti green jobs? Qualcuno li ha contati secondo un procedimento scientifico? Sono certo che con la tua esperienza potrai rispondermi al netto di fasi progettuali o speranze, che sono pur benvenute, ma che tali restano finché non diventano realtà.
      Nello studio, si legge piuttosto chiaramente che l’opportunità di sviluppare un’economia “verde” non è in discussione, non perché la si ritiene indispensabile (per alcuni è scontato, per altri no) ma perché non è oggetto dello studio stesso. Non so perché si debba interpretare questo atteggiamento come una mossa contro “gli ambientalisti”, come spieghi nel tuo commento. E poi, ma chi sono gli ambientalisti e chi sono gli altri? Se escludi le organizzazioni che fanno attivismo (su cui ci sarebbe da discutere per mesi ma non è il momento), pensi che si possa essere o non essere a favore dell’ambiente? Io non credo, né credo lo pensino gli autori di questo studio, cui comunque chiederò di intervenire in questa discussione.
      Circa quello che hanno capito i nostri amici europei, non sono così sicuro che convenga seguirli su una strada che essi stessi stanno abbandonando, dopo averne sperimentato le difficoltà ed i controsensi. In Spagna le voci di rischio bolla speculativa proprio nel settore “verde” sono sempre più frequenti, in Germania, dopo sforzi pubblici enormi nel settore eolico, si stanno tristemente rendendo conto che, almeno ora, da queste tecnologie non è possibile tirar fuori più di tanto, e in Francia (dove la voce grossa la fa l’energia nucleare) è di ieri la notizia di un drastico dietrofront sulle politiche ambientali, che avrà pure molto significato politico, ma poggia evidentemente anche sulla presa di coscienza che non sia necessariamente tutt’oro ciò che è verde.
      Il discorso sulle politiche UE è poi ancora più lungo, ma penso che sarebbe bene svilupparlo in un altro momento, magari con riferimento al fatto che molta parte del raggiungimento dei target è legato all’impiego di biocombustibili, che, ancora ad oggi, di verde hanno solo le campagne pubblicitarie che li sostengono.
      Se vogliamo poi affrontare schiettamente questo argomento, cosa che ritengo sia doverosa e sono certo che tu condivida questa opinione, dobbiamo sgombrare il campo dall’ideologia, di cui, purtroppo, il rapporto Stern che tu citi è stracolmo, tra valutazioni che poggiano su rapporti di organizzazioni ambientaliste ovvero non scientifiche (stile alcune importanti parti del 4AR) e generose sopravvalutazioni dei benefici accompagnate da chiare sottovalutazioni dei costi. Tecniche queste che certamente confezionano il lavoro, ma che non possono proprio definirsi utili alla bisogna.
      Personalmente, siccome mi occupo d’altro, posso dare un’interpretazione solo da cittadino: la conversione più che essere necessaria è inevitabile, ma credo debba avvenire con gradualità e con le dinamiche di mercato, piuttosto che con eccessive forzature che alla fine il mercato lo inquinano, rallentando lo stesso processo di trasformazione o portandolo nella direzione sbagliata.
      Una ultima considerazione. In una discussione su un argomento che si presta ad essere scrutato con lenti molto diverse, l’errore è possibile e anche accettabile, perché si spera di risolverlo proprio discutendo, in un contesto dove nessuno è sicuro di non farne. La mistificazione è un’altra cosa e non credo che nessun confronto possa essere poggiato sul presupposto che il proprio interlocutore faccia deliberatamente uso di tecniche mistificatorie. Di atteggiamenti del genere ne facciamo già quotidianamente indigestione con riferimento al clima, e non sentiamo il bisogno di averne ancora.
      gg

    • Marco Gisotti

      Caro Guido e caro Bettanini,
      purtroppo oggi il tempo mi difetta e posso rispondere solo telegraficamente a un paio di sollecitazioni.

      Voglio aggiungere che il settore delle rinnovabili in Italia non è il settore al quale è attribuibile il maggior numero di lavoratori verdi. Per esempio, nel solo settore delle foreste – che comprende professionalità molto diverse e a volte distanti fra loro – la stima di Federforeste è di 410.000 addetti (500.000 considerando l’indotto). E non è l’unico. I numeri sui green worker ci sono e, per quel che appunto sappiamo, sono per difetto.

      Hai ragione a chiedere e a chiederti chi sono gli ambientalisti. Mi sembra che il tema oggi sia abbastaza depoliticizzato e deoideologizzato se persino il Presidente del Consiglio, accettando di intervenire nelle pagine proprio del libro dedicato ai Green Jobs, ritiene che la green economy possa essere volano di nuovo sviluppo.
      Temo invece la mistificazione e l’uso improprio di argomenti, secondo quanto sosteneva Shopenauer sull’uso di strumenti per sceditare l’avversario, siano sempre dietro l’angolo, specie quando si portano avanti tesi, come ha fatto l’Istituto Leoni, forzandone le conclusioni in chiave politica.

      Infine, posso testimoniare che la trasformazione, certo inevitabile, è già in atto e in maniera molto più avanzata di quanto non appaia o venga raccontata. Da un po’ sto girando l’Italia, incontrando imprese, parlando con associazioni di categorie. Raccogliendo dati e storie grandi e piccole. Scoprendo che il mercato è molto più avanti della politica (e degli ambientalisti).
      E anche dei giornalisti.

      Ci sarebbe ancora molto da discutere e da aggiungere e non inendo eludere le altre questioni sollevate, ma meriterebbero più tempo e più spazio. Ma sono certo che non mancherà occasio, qui o altrove. E magari un giorno, riusciremo anche ad incontrarci.
      cari saluti

      mg

    • Fabio

      Caro Gisotti,
      la ringrazio per i suoi stimolanti interventi. Mi scuso se per sinteticità potrò sembrare provocatorio.
      Alcuni anni fa il ruolo attuale della “green economy” fu svolto dalla “new economy”, la produzione perdeva la necessità dell’uso di risorse naturali, l’uomo più ricco del mondo vendeva bit senza depredare l’ambiente, etc. Dopo pochi anni ci si è accorti che la “new economy” non rappresenta la “Terra promessa” ma solo un modo diverso di fare business (cosa che non critico), sicuramente il Mondo è cambiato (è stato stravolto il modo di comunicare) ma non è migliorato dal punto di vista delle problematiche reali (giustizia sociale, ambiente, etc). Poi la bolla della “new economy” esplose, dopo l’11/9 ci fu la guerra in Iraq che credo sia ancora il modo tradizionale e più efficace di muovere l’economia. Spesso quando si parlava di “green economy” in tempi di vacche grasse ci si dimenticava che deve rispettare le leggi dell’economy, ora invece molti cercano di convincere mostrando che ciò che conta è la parte economica, per questo si mette in mostra la produzione di un milione di posti http://www.greencity.it/news/2146/earth-day-realacci-pd-la-green-economy-per-il-rilancio-economico.html o per altri sono sufficienti 70000 http://notizie.virgilio.it/notizie/economia/2010/5_maggio/05/crisi_epifani_subito_piano_straordinario_triennale_per_2,24168228.html (la differenza di numeri nelle previsioni già dovrebbe far riflettere).
      Ripulire il mondo dall’amianto, dalla diossina, dal piombo, etc. non ha rappresentato un nuovo modello di sviluppo, perché dovrebbe esserlo ripulirlo dalla CO2 (che non è neanche un inquinante)? Mi sembra invece che si sta cercando di trovare e/o imporre nuove fonti energetiche, passandole per un nuovo Mondo. In passato transizioni di questo tipo sono già state vissute senza produrre stravolgimenti epocali, anche allora ci si preoccupava di cosa sarebbe successo una volta finita la legna o il carbone. Per il momento niente è conveniente e comodo come il petrolio, si stanno solo “buttando” grandi cifre di denaro pubblico per sovvenzionare sistemi che producono percentuali ridicole dell’energia che serve alla nazione; in futuro sicuramente si andrà verso nuovi sistemi energetici, se si tratterà di una “tecnologia” migliore, più efficiente, innovativa, questa si diffonderà da sola senza incentivi, come successo per la TV, i PC, internet, l’elettricità, la lampadina, etc.. Per il momento mi sembra invece che si sta vendendo la benzina passandola come il modo per andare a trovare gli amici, ben sapendo che non è così perché servirebbe oltre la benzina la strada, l’auto, il telefono per chiamarli, etc., sicché per convincerci si è deciso che il costo della benzina in gran parte è a carico dello Stato. Per rispondere ai quesiti del famoso discorso di Robert Kennedy http://caltanissetta.bloggalo.it/2010/01/04/il-famoso-discorso-di-robert-kennedy-sul-pil/ servirebbe eventualmente una rivoluzione culturale globale, non energetica nazionale che segue gli stessi criteri economici di sempre (francamente non vedo alcuna conversione). La vecchia Europa (dal punto di vista della popolazione e delle idee) con la sua politica unilaterale sull’ambiente (analoga a quella di Bush sull’Iraq) cerca di risolvere i propri problemi con l’illusione della “green economy”. Può essere come una frustata su un cavallo stanco(come accade per gli incentivi per le auto), per pochi metri accelera, ma poi andrà più piano di prima comportando costi dell’energia che renderanno conveniente produrre altrove. La tutela dell’ambiente avviene solo dove il benessere sono alti, il vero rischio è intraprendere strategie che portano per lo Stato spese e non investimenti, diminuzioni di benessere e quindi successivamente del rispetto dell’ambiente.
      Saluti

    • Fabio

      Per quanto riguarda la “new economy” all’epoca il guru Rifkin sul libro “L’Era Dell’Accesso, La rivoluzione della new economy ” scriveva che stavamo entrando in un nuova fase del capitalismo legato al concetto di accesso. L’era dell’accesso è appunto questo cambiamento che prevede il passaggio da un’economia dominata dal mercato e dai concetti di bene e proprietà, verso un’economia dominata da valori come la cultura, l’informazione e le relazioni.
      Nella New Economy il tempo tende a dominare sullo spazio, l’unità di misura della vita diventa il secondo, e lo spazio geografico diventa irrilevante. Proprio per questo motivo è importante riorganizzare la scuola riservando particolare attenzione alla civil education e all’etica del gioco, per non creare in futuro una società virtuale fantasma incapace di comunicare emozioni e provare empatia.
      La rivoluzione c’è stata, il rischio era la società virtuale senza empatia mentre dopo 10 anni dice “Rifkin: la civiltà dell’empatia è alle porte”. Ha scritto il suo nuovo libro dal titolo “‘La civilta’ dell’empatia’”. Quindi i rischi paventati successivi alla new economy non ci sono stati e purtroppo neanche il nuovo mondo. A chi dobbiamo dire grazie per questa nuova Terra promessa:”per ironia della sorte”, scrive Rifkin, ”il cambiamento climatico ci sta costringendo a riconoscere la nostra umanita’ condivisa e la nostra comune sofferenza come mai prima d’ora”. Saluti

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