Salta al contenuto

Ma quanto è sicuro il nucleare? – Parte II, Three Mile Island e Chernobyl

Nel proseguire il nostro cammino sul tema della sicurezza delle centrali nucleari, sarà a questo proposito utile tornare sui due celebri incidenti di Three Mile Island e Chernobyl, per una breve descrizione ed un confronto del modus operandi tra alcune nazioni fino al 1986.

L’incidente americano di Three Mile Island, ad uno dei due reattori ivi operativi (il TMI-2), occorso nel 1979, fu dovuto ad una sfortunata catena di eventi: la mancata chiusura di una valvola di sicurezza, non rilevata dal personale umano perché non indicata dagli strumenti di controllo, provocò uno svuotamento del circuito in pressione, che a sua volta non venne ritenuto pericoloso finché non si raggiunse il punto critico, arrivando quindi al mancato raffreddamento del nocciolo ed alla sua conseguente fusione per eccesso di calore non smaltito. Il reattore fu chiuso ed isolato, ma dimostrò che le 3 strutture di contenimento del nocciolo (obbligatorie nelle centrali occidentali) fossero sufficienti ad impedire ogni perdita radioattiva pericolosa per l’ambiente circostante: misure ufficiali, come quelle del vicino Dickinson College, attrezzato per rilevare gli effetti dei test nucleari cinesi, non rilevarono dosi anomalmente elevate di radioattività; la Kemeny Commission, poco dopo l’incidente, dichiarò che solo circa un millesimo del potenziale radioattivo della centrale fu rilasciato nell’atmosfera (13*106 Ci contro 1010 Ci), solo nella forma di gas nobili ed altri elementi molto volatili, e di questi solo circa un milionesimo erano isotopi altamente pericolosi come lo iodio131 (13-17 Ci), tutti valori che andranno poi dispersi (e dunque proporzionalmente diluiti) su di una vasta area. Non vi fu dunque nube tossica né permanente evacuazione della popolazione civile; anzi, il reattore TMI-1 è in funzione ancora oggi, mentre il TMI-2 è stato smantellato (incluso il nocciolo fuso) con successo, e ne rimangono solo gli edifici. Tale incidente portò all’ulteriore revisione dei sistemi di sicurezza e di allarme delle centrali nucleari, sia al fine di garantire una superiore sicurezza, sia al fine di permettere una gestione umana maggiormente semplificata ed efficiente dei comandi: ad esempio la posizione della valvola mal funzionante non era proprio mostrata nel pannello di controllo, mentre la grande quantità di segnali e dati non sempre fondamentali aveva ingenerato confusione nel personale.

L’incidente sovietico di Chernobyl, al reattore n°4 della centrale Lenin (composta da 4 reattori operativi e 2 in costruzione), affonda invece le sue radici nel progetto di un impianto nucleare che non sarebbe mai stato approvato in altre nazioni per la sua “intrinseca insicurezza”, nonché alle scellerate decisioni umane che portarono al disastro. Partiamo dunque dal reattore RBMK in uso: pur essendo un impianto di grande potenza (circa 1GWe per reattore) esso si basava su di un progetto antiquato, per cui tale reattore non si limitava alla produzione d’energia elettrica ma era anche “plutonigeno” (cioè produceva, per trasmutazione, una significativa quantità di Pu239 a partire dall’U238 presente nel nocciolo, che sarebbe poi stata estratta per fini militari). La sicurezza intrinseca veniva a mancare in tale reattore dato che esso utilizzava, al suo interno, sia grafite che acqua: anche se la prima era usata per le barre di controllo e la seconda come fluido termovettore, il primo elemento è un moderatore del flusso neutronico, ed il secondo un assorbitore di neutroni, avendo quindi un effetto concorrente nella fissione; inoltre l’elevato coefficiente di vuoto, dovuto alle bolle di vapore nel flusso d’acqua, accresceva l’attività del reattore; che poteva dunque entrare in condizioni di grave instabilità, cosa sconosciuta alla gran parte del personale della centrale, e condizione che avrà tragiche conseguenze. Infine, non erano mai state previste multiple strutture di contenimento come nelle centrali occidentali, e l’edificio della centrale non era stato progettato secondo i necessari criteri di sicurezza, né costruito con la necessaria rigorosità. In sostanza, tale tipo di centrale era un perenne rischio (si hanno sospetti su di un incidente simile, in precedenza, non dichiarato) pur essendo tale tipo di reattore in funzione presso alcune delle principali città sovietiche; tanto che i Paesi dell’Europa Orientale non ne avevano installato nemmeno uno, preferendo i più sicuri (pur se non al livello occidentale) VVER. Si arrivò dunque all’incidente del 26 aprile 1986 a causa di uno sciagurato esperimento: testare se la quantità di moto residua nella turbina (che avrebbe continuato a girare a vuoto per inerzia) sarebbe stata sufficiente ad alimentare elettricamente i sistemi di sicurezza e del reattore, nel caso dell’interruzione dell’alimentazione elettrica esterna, fino all’avvio dei generatori diesel d’emergenza. Le barre di controllo furono introdotte troppo in profondità, provocando un crollo dell’attività del nocciolo e quindi della sua potenza termica, ben sotto le necessità dell’esperimento. Quindi, anche motivati dalla mancanza di tempo (si era in ritardo sulla tabella di marcia) e per via di una scarsa preparazione (ad esempio il direttore non aveva alcuna esperienza precedente in campo nucleare), furono alzate quasi tutte le barre di controllo ed esclusi tutti i sistemi di sicurezza. Il risultato fu un rapido aumento dell’attività del reattore. Per contrastarlo, fu ordinato lo SCRAM (inserimento immediato di tutte le barre), ma i pochi secondi necessari a ciò permisero alla grafite di fungere da moderatore della reazione, incrementandola: il riscaldamento, oltre la capacità del fluido termovettore di smaltirne la potenza, fu repentino, ed il nocciolo cominciò a fondere. Il tentativo di reinserire le barre di controllo portò dunque al disastro finale: a causa delle elevatissime temperature ormai raggiunte, con la fusione anche delle guaine di protezione del combustibile nucleare e dei setti di separazione dei vari canali di fluido, lo zirconio reagì a contatto con l’acqua, con la produzione d’idrogeno in forma gassosa per reazione chimica (dovuta all’alta temperatura). L’idrogeno prodotto si accumulò fino all’esplosione, con le conseguenze del crollo di una grossa parte dell’edificio del reattore e della fuga di una nube radioattiva potenzialmente letale per gli esseri viventi, assieme all’incendio della grafite all’interno del reattore. Il disastro, come ben conosciuto, fu immane, ed influenzò tutta Europa: anche se, bisogna ricordare, le misure di sicurezza messe in atto al di fuori dell’URSS furono maggiormente precauzionali, mentre anche all’interno dell’Unione Sovietica le vittime furono largamente inferiori a quanto ancora oggi dichiarino alcune associazioni (morti dirette nei giorni del disastro, 65; morti supposte negli anni successivi e da collegare al disastro, 4mila, tra il 1986 ed il 2066; dati ufficiali delle agenzie ONU, nel rapporto del Chernobyl Forum); bisogna anche dire che, dei 4mila giovani tra 0 e 18 anni colpiti da tumore alla tiroide per esposizione allo iodio131 tra il 1986 ed il 2002, il 99% è guarito mentre 15 di essi sono morti; il terreno rimane ancora oggi fortemente contaminato, ma con dosi di radiazione che permettono lo sviluppo della vita selvaggia, ed anche l’accesso dei tecnici (la centrale fu chiusa solo nel 2000), benché la popolazione civile dell’intera zona (circa 336mila persone) sia stata permanentemente evacuata. Una cosa da sottolineare è che il disastro non fu un’esplosione nucleare, ma come detto l’esplosione di una concentrazione d’idrogeno che portò ad una gravissima fuga radioattiva: la reazione esplosiva fu chimica e non atomica. L’esplosione nucleare è impossibile in qualunque centrale, dato che la percentuale d’arricchimento dovrebbe essere superiore al 90% (ad oggi si usa o uranio naturale, con lo 0.7% di U235, o uranio arricchito al 3-4% di U235, nei reattori in commercio).

E’ quindi evidente come tali gravi incidenti fossero gravemente affetti dal fattore umano, vuoi per via di insufficiente semplicità e precisione degli strumenti di controllo (TMI), vuoi per inefficienza e scarsa preparazione (Chernobyl). Tuttavia, il tempo trascorso e gli avanzamenti tecnologici hanno permesso di esaminare anche tale fattore di rischio e di ridurlo fortemente.

Va anche rimarcato il fatto che un incidente del tipo di Chernobyl, cioè il rilascio di grandi quantità di isotopi radioattivi in atmosfera, è assolutamente impossibile nelle centrali occidentali già da diversi decenni, come dimostrato appunto a Three Mile Island, grazie alle diverse strutture di contenimento sovrapposte, nel caso in cui tutti i sistemi di sicurezza fallissero.

Ovviamente non sono stati questi due gli unici incidenti conosciuti in ambito nucleare civile, né gli unici da cui si siano imparate utili lezioni, ma sono sicuramente i più gravi e famosi1(continua)

Leggi anche

NB: per le sigle e gli acronimi impiegati vi rimandiamo a questa tabella esplicativa

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...Facebooktwitterlinkedinmail
  1. Si ringrazia il prof. Carlo Lombardi, consigliere scientifico dell’ENEA, già docente di Impianti nucleari presso il Politecnico di Milano e responsabile italiano del programma IRIS, il cui libro “Impianti nucleari” è stato una preziosa fonte di informazioni per alcune parti di questo articolo. []
Published inAttualitàEnergiaNewsVoce dei lettori

6 Comments

  1. ugo

    Bel sito sicuramente e conoscenze tecniche di alto livello mi avete dato un buon quadro delle situazione anche se gli eventi a volte superano qualsiasi immaginazione fukushima insegna.
    Se qualcosa puo adar male lo farà

  2. Riporto dei dati, mai contestati, del Prof. LB Cohen uno dei più grandi esperti della calcolo del rischio.

    “Secondo le stime degli scienziati americani della Nuclear Regulatory Commission (NRC), realizzare un pieno programma elettronucleare, per cui la produzione di energia elettrica negli USA avverrebbe totalmente per via nucleare, comporterebbe per il cittadino medio americano:
    1) lo stesso rischio che assumerebbe un fumatore che fumasse una sigaretta in più ogni 15 anni
    2) lo stesso rischio che sarebbe assunto da una persona in sovrappeso che aumentasse il suo peso di 0,012 once = 0,34 grammi
    3) lo stesso rischio dovuto all’aumento dei limiti di velocità sulle autostrade da 55 a 55,06 miglia/h
    4) tale rischio è 2000 volte minore di quello che assumerebbe un individuo che passasse dall’utilizzo di un’auto media ad una piccola
    Se non ci si fida degli scienziati e i tecnici dell’NRC e si preferisce l’opinione di quelli aderenti all’Union of Concerned Scientists (UCS), il gruppo antinucleare più importante negli USA, consigliere di Ralph Nader, allora la realizzazione di un pieno programma nucleare negli USA comporterebbe un rischio:
    1) uguale a quello assunto da un fumatore che fumasse una sigaretta extra ogni 3 mesi
    2) uguale a quello assunto da una persona sovrappeso che aumentasse di 0.8 once = 22,7 grammi il suo peso
    3) uguale a quello che si avrebbe portando i limiti di velocità delle autostrade USA da 55 a 55,4 miglia/h
    4) un rischio 30 volte minore di quello che assumerebbe un individuo che passasse dall’utilizzo di un’auto media ad una piccola”

    Non è un semplice annuncio, come ogni cosa anche il rischio ha una sua unità di misura e può essere misurato. E’ possibile verificare le modalità di calcolo seguendo l’articolo riportato nel link
    http://www.fusione.altervista.org/calcolo_rischio_nucleare.htm

    • Guido Botteri

      Ci sono delle persone, che non qualifico per non incorrere nei rimproveri della gestione del sito, che pretenderebbero un impossibile e inconcepibile “rischio zero”, come se esistesse tale livello di rischio da qualche parte, e in qualsiasi attività.
      La Terra è un pianeta dove comunque c’è un livello di radiazioni, ovunque, maggiore di zero, e quindi il livello di radiazioni dovrebbe essere confrontato NON con lo zero, ma colla radiazione di fondo che comunque esiste.
      Si diceva, a proposito di quella cosa antiscientifica che va sotto il nome di “principio di precauzione”, che ad applicarlo alla lettera non potremmo nemmeno uscire da casa, perché “c’è sempre pericolo”, e nemmeno stare in casa, perché “anche” in casa c’è comunque pericolo, come dimostra la lunga casistica di incidenti in casa.
      E allora, questa storia del “rischio zero” è una pura invenzione arbitraria degli ambientalisti, senza alcun valore scientifico.
      Secondo me.

  3. Filippo Turturici

    Mi scuso per la formattazione del testo, che avevo lasciato con gli apici di Word; per cui alcune quantità vanno ovviamente lette come “10^6” e “10^10” e non 106 e 1010.

    • Filippo sono io a dovermi scusare, stiamo ancora combattendo con la formattazione del testo. Questa migrazione è più difficoltosa di quella delle rondini!
      gg

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Categorie

Termini di utilizzo

Licenza Creative Commons
Climatemonitor di Guido Guidi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 4.0 Internazionale.
Permessi ulteriori rispetto alle finalità della presente licenza possono essere disponibili presso info@climatemonitor.it.
scrivi a info@climatemonitor.it
Translate »