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Un clima secondo Natura

Roy Spencer, scienziato della NASA nonché scettico impenitente, ha prodotto un altro pezzettino di conoscenza, proseguendo sul terreno dove ultimamente si stanno muovendo parecchi ricercatori, soprattutto tra quanti non sono affatto convinti che la causa principale del riscaldamento occorso nelle ultime decadi del secolo scorso sia pressoché interamente attribuibile alle attività umane. Quel che si cerca di capire è quale ruolo possano aver giocato in questa fase di aumento delle temperature delle dinamiche di sicura origine naturale. Trovato e sottratto quello dalla somma totale del riscaldamento, dovrebbe emergere chiaramente il famoso segnale antropogenico.

Il metodo d’indagine usato da Spencer è per molti aspetti simile a quello con cui molti altri scienziati sono arrivati a definire il peso delle attività umane come molto importante, generando quello che nel settore della scienza del clima rappresenta oggi il mainstream. Studiare il passato remoto e testare i propri metodi di ricostruzione della temperatura con il passato prossimo. Nel caso di quanti sostengono la teoria dell’AGW, per ottenere un soddisfacente grado di affidabilità delle ricostruzioni di temperatura ottenute con questi test, è necessario aggiungere il rateo di riscaldamento che si pensa possa essere originato dall’aumento della concentrazione di gas serra in atmosfera (soprattutto CO2) secondo dei canoni di sensubilità del sistema a questo aumento definiti a tavolino. Tolta la CO2, le temperature non aumentano più, perciò il fattore di forcing non può che essere antropico. Proiettando questo forcing nel futuro (tenendo sempre fissa la sensibilità del sistema) si ottengono le previsioni di accentuazione del riscaldamento e conseguente disastro climatico che tutti conosciamo. A questo punto però si pone un duplice problema. Da un lato con questo sistema d’indagine e proiezione si sostituisce il fattore di forcing (la CO2) con la sensibilità del sistema, e mentre la prima è quantificabile, la secondo non lo è, perché mancano molti pezzi del puzzle. Dall’altro sembra che seguendo questo schema le temperature dovrebbero essere aumentate più di quanto in effetti abbiano fatto e di certo non dovrebbero essersi arrestate, come invece è accaduto nel recente passato. Evidentemente i pezzi mancanti del puzzle sono importanti, probabilmente più di quelli che abbiamo.

Di qui il test eseguito da Spencer. Si sa che nel sistema clima ci sono alcune modalità ricorrenti, alcuni pattern climatici soggetti ad una accertata ciclicità. Si tratta delle oscillazioni di lungo periodo delle temperature di superficie degli oceani -rappresentate dagli indici PDO per il Pacifico e AMO per l’Atlantico- e dell’andamento della pressione atmosferica nell’area del Pacifico equatoriale -rappresentata dall’indice ENSO-. L’andamento di questi indici, che ha fatto segnare un cambiamento di fase comune a tutti e tre quando mancavano circa tre decadi alla fine del secolo, è in qualche modo confrontabile con l’andamento delle temperature, ma, come si è detto molte volte in relazione al rapporto tra CO2 e temperature, una correlazione, pur elevata, non è necessariamente una relazione di causa effetto, per cui occorre approfondire il discorso. Come? Studiando il passato remoto e testando i propri risultati con il passato prossimo.

Nel primo step si confrontano le serie di temperatura nel passato remoto dell’emisfero settentrionale (dove si è avuta la maggior parte del riscaldamento) con l’andamento degli indici al fine di stabilire una relazione statistica tra queste grandezze. Da notare che la temperatura non è impiegata in valore assoluto, ma si usano oscillazioni del suo rateo di variazione, nel tentativo di inglobare in questo parametro i fattori di feedback che necessariamente hanno bisogno di tempo per produrre i loro effetti. Stabilita la relazione statistica la si usa per simulare l’andamento delle temperature nel passato prossimo, producendo una curva che può essere confrontata con le osservazioni di cui si dispone. Bene, quella curva riproduce fedelmente l’aumento occorso alla fine del secolo senza l’innesto di alcun forcing antropico. Questo significa che ci sono probabilità molto elevate che una gran parte del riscaldamento del pianeta abbia origini naturali e sia essenzialmente pilotato dal comportamento degli oceani, ovvero dal calore da essi rilasciato e/o trattenuto secondo le fasi delle oscillazioni, che a sua volta innesca dei feedback.

Fonte http://www.drroyspencer.com/

Secondo Spencer, se questo fosse vero vorrebbe dire soprattutto due cose, 1) il sistema è molto meno sensibile alle variazioni della concentrazione di CO2 di quanto si creda (e si dispone nelle simulazioni) e, 2) un futuro ulteriore aumento di questa concentrazione non porterà le temperature ad aumentare quanto è invece previsto che facciano, ovvero non siamo sull’orlo del baratro climatico.

Due le considerazioni che ho recuperato tra i commenti a questo lavoro di Spencer. La prima fa notare che questa ricostruzione non presenta alcun problema di “divergenza” , cioè allontanamento tra le curve, cui sono invece soggette le ricostruzioni con i dati proxy (soprattutto anelli di accrescimento degli alberi), problema di cui si è discusso parecchio in ordine alle determinazioni dell’IPCC. La seconda è più che altro un invito a guardare i numeri per quello che sono, al netto di amplificazioni molto più mediatiche che scientifiche. Quando si parla di aumento della concentrazione di CO2 si ragiona in termini di milionesimi, infatti i numeri 290 e 380, rispettivamente le concentrazioni di CO2 pre e post industriali, devono essere seguite dall’acronimo ppmv (parti per milione di volume). Una variazione di circa 100 ppmv corrisponde allo 0,01%. Se un centinaio di anni fa si fosse stabilito di far di tutto per tenere stabile la concentrazione di CO2, una variazione come questa sarebbe stata giudicata un successo. Oggi invece è considerata una tragedia, e volendo correre ai ripari si punta ad ottenere prima una assoluta stabilità e poi addirittura un regresso di questa concentrazione, nonostante sia sempre più probabile (ma i numeri lo suggerivano già) che dal punto di vista climatico non ce ne sia alcun bisogno.

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Published inAttualitàClimatologiaNews

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