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A proposito di standard

Gli eventi atmosferici estremi sono una delle maggiori fonti di preoccupazione nella simbiosi uomo-natura, e questo accade sin dalla notte dei tempi. Il progresso tecnologico ha permesso di imparare in molti casi a prevederli, quanto meno con una discreta affidabilità spazio-temporale, ma di certo non ne può impedire l’occorrenza, né quella buona attendibilità è traducibile nella certezza che essi possano avvenire in un luogo specifico in un lasso di tempo noto, sicché, quando questi si verificano, i danni sono sempre molto ingenti.

La ragione di questa incertezza risiede in parte nella endemica impossibilità di riprodurre con esattezza le dinamiche del tempo atmosferico e in parte -purtroppo molto spesso- nella inadeguatezza delle infrastrutture, troppo deboli per resistere alla furia degli elementi, quando non addirittura talmente mal fatte da risultare peggiorative, capaci cioè di accrescerne la pericolosità.

Ad esempio, è noto che pur non essendo aumentate la frequenza di occorrenza e l’intensità dei cicloni tropicali, sono certamente aumentati i danni che questi creano, e questo aumento è totalmente imputabile all’accresciuta urbanizzazione delle zone costiere dove fatalmente questi eventi finiscono per “atterrare”. Lo stesso vale per le piogge monsoniche, delle quali non si conosce forse il trend nel lungo periodo, ma si sa che una città che prima aveva qualche centinaio di migliaia di abitanti, ora che ne ha svariati milioni quando viene colpita da un’inondazione subisce colpi terribili, specie se molti di quei milioni di persone vivono in strutture che definire fatiscenti è un eufemismo.

Noi non abbiamo né gli uragani né i monsoni, ma abbiamo i nostri bei temporali, a volte in grado, nel breve periodo, di portare quantità di precipitazioni molto ingenti; in grado cioè di dar luogo a quelle che tecnicamente sono definite “Flash floods” (inondazioni improvvise). E’ successo nel novembre scorso in Sicilia, per esempio, ma gli episodi sono in effetti molto numerosi.

Non è affatto mia intenzione entrare in questa sede nel merito dell’aumento o meno della frequenza di occorrenza di questi fenomeni, anche perché i dataset disponibili non permettono di far molta luce sull’argomento, vorrei piuttosto portare alla vostra attenzione un lavoro molto interessante pubblicato dalla WMO, in cui il ruolo del nostro paese è stato predominante, anzi è proprio il caso di dire, determinante.

Volendo fare della facile polemica con quanto circolato sui giornali nei giorni scorsi in tema di previsioni più o meno attendibili e più o meno autoctone, si potrebbe dire che è sempre molto facile battere le ortiche con le mani altrui, ma siccome non credo sia il caso di dare più di tanto rilievo a questa querelle, dirò semplicemente che ci sono delle importanti attenuanti in materia di informazione. Cioè, se si sapesse le cose come stanno, magari a volte si eviterebbe di sollevare problemi inesistenti, concentrando l’attenzione su quelli che invece esistono.

Uno di questi è quello di riuscire a sviluppare dei sistemi di misura delle precipitazioni che assicurino il controllo del territorio, che permettano di costruire dei dataset storici con i quali individuare le aree che corrono rischi maggiori di altre e che forniscano dei corretti input osservativi ai modelli di simulazione numerica ad area limitata impiegati per la prognosi del tempo. In poche parole si deve poter disporre di una strumentazione adeguata e il più possibile standardizzata, altrimenti le informazioni di cui si finisce per disporre riempiranno pure le pagine dei record meteorologici, ma difficilmente possono avere altra utilità.

La Campagna di Intercalibrazione dei Pluviometri di cui si relaziona nel documento di cui sopra, aveva esattamente questo scopo, “comparare le performance sulle intensità di precipitazioni in-situ di diversi tipi di strumenti di misura, con particolare attenzione alle precipitazioni molto intense”.

Un bel lavoro che trovate qui, ma che potete leggere anche di seguito.

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Published inAttualitàMeteorologiaNews

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