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Nature Climate Change, codici e trasparenza

La materia è troppo vasta, i lettori troppo affamati di notizie, l’occasione troppo ghiotta. La rivista scientifica più famosa e prestigiosa di tutte -tanto per capirci credo che pubblicare su Nature dia diritto al punteggio più elevato possibile di impact factor- avrà dalla prossima primavera uno spin-off interamente dedicato ai cambiamenti climatici. Si chiamerà Nature Climate Change.

Già ora la rivista è disponibile on-line e questo è il sito web.

Tra i molteplici aspetti positivi dell’iniziativa, direi che meriti attenzione quanto dichiarato dalla direttrice Olive Heffernan circa la policy della nascitura rivista in materia di dati e codici impiegati nelle ricerche che saranno pubblicate:

Assicurandosi che i nostri autori rendano disponibili su richiesta i loro dati ai lettori, il team editoriale di Nature Climate Change, si impegnerà totalmente a promuovere la trasparenza nella ricerca sul clima.

By ensuring that our authors make their data available to readers on request, the editorial team at Nature Climate Change will commit itself wholeheartedly to promoting transparency in climate research.

Dove ho trovato questa notizia c’è un po’ di scetticismo circa il fatto che possano essere resi disponibili anche i codici insieme ai dati, o che possano essere ritirate delle ricerche i cui autori non dovessero consentire alla cessione dei dati e dei codici. Direi che non sia il caso di fare processi alle intenzioni. Certo è strano che la direttrice di un giornale che nasce già famoso e eredita di fatto tutta l’autorevolezza delle sue origini, senta la necessità di specificare quello che in realtà dovrebbe essere assolutamente ovvio e irrinunciabile.

L’argomento è certamente topico, infatti  non volendo, mi sono imbattuto in una serie di articoli interessanti sui diversi punti di vista su questa materia. Tra tutti, proprio su Nature, c’è un pezzo in cui in pratica si solleva il problema e si propongono anche soluzioni, focalizzando l’attenzione proprio sulla scarsa disponibilità mentale degli scienziati del clima a rendere disponibili tutte le informazioni in loro possesso.

Questo pezzo di Nature è stato commentato anche su Real Climate, che, piaccia o no, è la roccaforte della scienza del clima, ovvero il luogo dal quale il gruppo di ricercatori più concentrato sulle origini antropiche del riscaldamento globale, spara le sue bordate informali a supporto di quanto formalmente divulgato proprio a mezzo delle riviste scientifiche. Un po’ come facciamo su CM, con la differenza che noi -salvo alcune molto autorevoli firme che ci pregiamo di ospitare- un posto dove discutere formalmente non lo abbiamo perché non ce lo meritiamo davvero. Da Real Climate ci spiegano che le ragioni di questa sorta di reticenza, risiedono in una specie di gelosia delle proprie scoperte, con la quale ci si vorrebbe proteggere dal fatto che altri ne possano trarre beneficio limitando la possibilità di ottenere nuove risorse per approfondire la ricerca.

Nella discussione è intervenuta anche l’ACM, che scopro ora essere l’Associazione di Computer Machinery, una compagine che credo di codici e della loro gestione ne sappia qualcosa. Secondo loro, rilasciare un codice impiegato per conseguire dei risultati di ricerca, espone al rischio di essere colti in fallo, specie se più che di programmazione si è esperti d’altro, nella fattispecie di clima e affini. E inoltre, qualcuno più sveglio o dotato di migliori risorse potrebbe finire per prendersi il merito di scoperte non proprie duplicandone la metodologia.

Ci riassume il tutto un blogger anch’egli dotato di artiglieria pesante. Il problema, è probabilmente connesso al tragico conflitto tra scienza e carriere scientifiche. Se la prima richiede totale trasparenza e condivisione delle informazioni e delle metodologie, dato che progredire si fonda sulla ripetibilità degli esperimenti, le seconde, può capitare che cessino di progredire se qualcuno prova che quello che ha fatto qualcun altro è fondamentalmente errato (così non è stato per Mann e per il suo Hockey Stick ad esempio, ma forse è proprio per questo che Mann ha combattuto fino all’ultimo uomo pur di non rendere disponibile il codice che aveva impiegato).

Se ne deduce che alla fine, anche se il problema può apparire complesso, non c’è da fare molta filosofia, la ragione per cui alcuni scienziati del clima sono spesso poco disponibili alle richieste di informazioni, è fondamentalmente duplice: la gestione delle carriere scientifiche e il timore di passare per incompetenti.

Umano, ma molto poco scientifico.

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Published inAttualitàNews

2 Comments

  1. Mah, io sono sempre troppo sospettoso (forse…). Non vorrei mai che lo spin off sia stato deciso per permettere qualche controllo più rilassato rispetto allo standard di Nature… Intanto, ogni cosa pubblicata su Nature Climate Change per la stampa generalista erediterà la rispettabilità di Nature, anche se quella della nuova rivista è ancora tutta da valutare.

  2. Rimango letteralmente sbalordito dalla lettura dell’articolo di ACM (che, beninteso, è un buon articolo – ACM è un’organizzazione reputabile – per il fatto che espone i vari punti di vista). Le argomentazioni dei contrari all’apertura sono capziose:

    1. Che senso ha citare la bomba atomica o il DNA? La prima è ricerca militare ed è ovvio che sia segreta. La seconda ha a che fare con la segretezza dei dati, non necessariamente dei codici, dati che ricadono sotto la tutela della privacy.

    2. Come è stato detto, il codice “da ricerca” spesso è di pessima qualità ingegneristica. Questo non vuol dire che non funzioni per il proprio scopo; ma vuol dire che nessuna azienda sarebbe interessata a copiarlo. Certo, potrebbero esserlo altri scienziati: ma qui nessuno sta dicendo che bisogna essere così ingenui da rendere le cose pubbliche sin dall’inizio. Trovo ipocrita la domanda retorica “dopo quanto tempo bisognerebbe renderlo pubblico”… è ovvio: dopo che uno ha pubblicato in un paio di posti importanti e ha chiaramente associato il proprio nome con la ricerca. A questo punto non può esserci buona fede nel non rilasciare il codice: se pubblico una ricerca, è ovvio che accetto che altri possano basare il proprio lavoro da quel punto in poi.

    3. Forse ACM è stata un po’ frettolosa quando ha parlato di licenze, valeva la pena di approfondire: nel momento in cui il codice è rilasciato, ci sono dozzine di modi diversi di farlo, che permettono di mantenere il copyright, addirittura obbligando legalmente terzi a rendere pubbliche le modifiche che apportano.

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