Salta al contenuto

Il gigante gentile

Così ha definito la stagione degli uragani appena conclusasi (1° luglio – 30 novembre secondo la convenzione) Jack Hayes direttore del National Weather service della NOAA. In un interessante documento esplicativo, il National Hurricane Center descrive i tratti caratteristici di questa ultima stagione.

Un’attività intensa nel bacino Atlantico, la seconda in termini numerici per tempeste cui sia stato assegnato un nome che poi siano evolute nella forma di uragano, a parimerito con il 1969, cioè quando impazzava il global cooling. Tutte insieme, invece, le tempeste atlantiche di quest’anno hanno fatto registrare la terza posizione di sempre, al pari con il 1889 (in pieno global warming naturalmente) e con il 1995.

Fonte NOAA

Per contro, nel bacino del Pacifico nord-orientale, questa è stata la stagione in assoluto più tranquilla, con il minor numero di tifoni mai registrato. Il record precedente apparteneva al 1977 (al termine del periodo di raffreddamento generale) per il numero totale di tempeste e agli anni 1969, 1970, 1977 e 2007 per il totale di queste che ha assunto la forma di Ciclone Tropicale.

Fonte NOAA

Uno degli aspetti più singolari di questa stagione, che in termini numerici le previsioni avevano comunque ben inquadrato, è stata l’assenza totale di eventi che siano arrivati ad interessare le coste degli Stati Uniti. Non così per l’area dei Caraibi, che invece anche quest’anno ha pagato dazio ai capricci del tempo. Non mi risulta tuttavia che nessuno si fosse azzardato a stimare quante tempeste tropicali o cliclini tropicali sarebbero arrivati sulle coste americane, perché questi sin qui sono aspetti del tutto impredicibili e per i quali funziona molto meglio la statistica di qualunque modello di previsione, sia esso numerico, concettuale o fenomenologico.

Già, perché leggiamo dal documento diffuso dalla NOAA, che sarebbero state una serie di combinazioni atmosferiche tipicamente ascrivibili al tempo meteorologico a tener lontani gli uragani dalle loro coste, più precisamente la presenza della corrente a getto che avrebbe mantenuto aria calda e secca sull’entroterra americano, agendo da barriera per l’incedere dei cicloni tropicali. Allo stesso tempo, molti di questi si sono formati parecchio a est, appena fuori dalle coste africane, e sono stati dunque catturati dalle correnti occidentali prima di arrivare sull’altra sponda dell’Atlantico.

Il carburante per questa stagione così movimentata ma a conti fatti fortunatamente poco incisiva, è arrivato dalla presenza della Niña, ovvero dall’insorgere di un significativo raffredamento delle acque di superficie del Pacifico orientale, propagatosi poi insieme agli Alisei verso le coste dell’Indonesia, e da un persistente anomalo riscaldamento delle acque dell’Atlantico, retaggio invece forse della presenza di El Niño nei mesi invernali dell’anno scorso. Questo pattern è piuttosto noto agli esperti del settore, di qui la previsione ben centrata emessa a suo tempo dalla NOAA.

Ora ragioniamoci su, ma prima di farlo usciamo un attimo dall’acqua e andiamo in montagna, quel tanto che basta per ricordare che in termini di innevamento invernale gli anni più recenti ricordano quelli degli anni ’70, quando la PDO (Pacific Decadal Oscillation) era in territorio negativo.

Bene, una delle cose che ci vengono raccontate più spesso con riferimento all’evoluzione del clima forzata dalle attività umane, è che con la continua tendenza delle temperature ad aumentare dovremmo attenderci una sempre maggiore preponderanza di eventi di El Niño piuttosto che della sua sorellina la Niña. Questo è in effetti accaduto nell’ultimo trentennio del secolo scorso. Quello che però qualcuno si dimentica di dire è che anche l’indice PDO ha la sua influenza sull’arrivo dei due bambinelli, semplicemente (si fa per dire) spostando verso l’alto l’asticella attorno alla quale avvengono le oscillazioni caldo/freddo con PDO positiva e riportandola verso il basso con PDO negativa.

Date le considerazioni fatte dagli esperti della NOAA sull’influenza che queste oscillazioni hanno sulle stagioni degli uragani, mi sembra abbastanza doveroso provare a fare due più due, cioè notare che dal secondo dopoguerra alla metà degli anni ’70, la PDO negativa ha generato un raffreddamento climatico generale (accertato nelle serie), ha tenuto giù l’asticella delle oscillazioni caldo/freddo nel Pacifico, e ci siamo (si sono per la verità) beccati delle stagioni di intensa attività dei cicloni tropicali (rileggete le date di poche righe più su) in Atlantico e bassa attività nel Pacifico. Viceversa, con la PDO in territorio positivo, cioè fino ai primi anni di questo secolo, è accaduto esattamente il contrario. Quando la PDO ha iniziato a virare nuovamente verso il basso (pur consentendo eventi importanti di El Niño come nel del 1998), le stagioni sono tornate ad essere intense, proprio come ci fanno notare gli esperti della NOAA identificando un trend positivo a partire dal 1995.

Aggiungerei anche che, in tutto questo, il concetto di accrescimento dell’intensità dei fenomeni più intensi (perdonate l’allitterazione ma è proprio così che ce la raccontano –wet gets wetter, hot gets hotter– è affogato da qualche parte tra l’Atlantico e il Pacifico, perché delle 12 tempeste che quest’anno sono divenute uragani, cinque di esse hanno raggiunto l’intensità uguale o superiore alla categoria 3, come da previsione e come da media, in termini di rapporto tra quante tempeste si sono formate e quante hanno degenerato assumendo intensità di Major Hurricanes. Nel Pacifico invece, questo concetto è quantomeno risibile, visto che la stagione è stata la più tranquilla di sempre.

Quale lezione? La storia insegna, basta studiarla e leggerla con umiltà.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...Facebooktwitterlinkedinmail
Published inAttualità

Un commento

  1. Guido Botteri

    dall’articolo
    [ il concetto di accrescimento dell’intensità dei fenomeni più intensi (…) -wet gets wetter, hot gets hotter- è affogato da qualche parte tra l’Atlantico e il Pacifico, ]
    poverino, bisognerebbe mandare delle squadre di volontari da quelle parti a cercare di recuperarne il corpo, almeno quello, da riportare alla famiglia perché lo possa piangere.
    Ma mi sembra che la famiglia faccia finta di niente o non si sia accorta di aver perso un figlio in queste dolorose circostanze.
    Non vedo, infatti, comunicati a lutto di chi sosteneva che avremmo avuto eventi sempre più estremi, e i parenti tutti, quelli che andavano coi megafoni per i media a vantarne le gesta (non proprio esaltanti a dir la verità), tacciono, non saprei se per il dolore o per un’ostinata incredulità…
    🙂

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Categorie

Termini di utilizzo

Licenza Creative Commons
Climatemonitor di Guido Guidi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 4.0 Internazionale.
Permessi ulteriori rispetto alle finalità della presente licenza possono essere disponibili presso info@climatemonitor.it.
scrivi a info@climatemonitor.it
Translate »