Salta al contenuto

Fukushima: La storia e un punto di situazione

La mente è fredda ora, il nocciolo della centrale di Fukushima ancora no. Nella ridda di notizie più o meno gravi, è forse ora di cominciare a tirare le somme di un evento grave che deve comunque essere inquadrato per poter essere compreso. Vi lascio alle parole di Filippo Turturici, un amico che già in altre occasioni ha dato a queste pagine contributi decisivi. Dal momento che credo che questo documento meriti più della semplice pubblicazione in forma di post, se volete salvarlo potete farlo qui, in formato pdf.

gg

Fukushima

Alle 14:46, ora locale, dell’11 marzo 2011, una scossa tellurica di magnitudo 9.0 della scala Richter fu registrata circa 70km al largo della costa orientale dell’isola di Honshu, la principale dell’arcipelago giapponese, ed a 32km di profondità. Probabilmente fu uno dei cinque terremoti più potenti registrati dal 1900 in poi, e verrà chiamato il Terremoto del Tohoku. A seguito di tale evento sismico, si sviluppò un’onda di maremoto (tsunami) che, nei punti di peggior impatto, era alta fino ad un massimo di 128ft (38.9m) e penetrò nell’interno fino a 6 miglia (10km). La catastrofe che ne seguì, ebbe dimensioni apocalittiche per le coste colpite, con oltre 23mila persone morte o disperse, 125mila edifici danneggiati o distrutti, e gravissimi danni alle reti locali (trasporti, industria, comunicazioni, elettricità, acqua potabile, sanità, assistenza). Intere zone rimasero dunque isolate sotto ogni punto di vista, nonché pressoché prive di assistenza, per giorni.

Figura 1. La devastazione dello tsunami presso Sendai

Cinque centrali nucleari furono coinvolte nell’evento. La centrale di Higashidori era già spenta per ispezione periodica; mentre le centrali di Fukushima I, Fukushima II, Onagawa e Tokai, per un totale di 11 reattori operativi in quel momento, furono tutte spente automaticamente, senza presentare apparenti problemi a causa del sisma. A questo punto, entrarono in funzione i sistemi di raffreddamento d’emergenza, alimentati da gruppi diesel. 41 minuti dopo la scossa, però, l’onda di tsunami in arrivo, alta 14-15m, si abbatté sulle centrali di Fukushima I e II, che erano protette da dighe di rispettivamente 5.7m e 5.2m di altezza: entrambe le centrali ne furono dunque sommerse.

Figura 2. Intensità del sisma sulla terraferma

Fukushima I (Dai-Ichi)

La centrale di Fukushima Dai-Ichi è composta da 6 reattori ad acqua bollente (BWR), tutti entrati in funzione tra il 1971 ed il 1979, della potenza di 460MWe (reattore 1), 784MWe (reattori 2, 3, 4 e 5) e 1100MWe (reattore 6). Al momento del sisma, essi erano dunque ormai datati e prossimi allo spegnimento definitivo (programmato tra il 2011 ed il 2019 a seconda delle unità) per essere sostituiti da 2 nuovi reattori ABWR da 1380MW ciascuno (progetto cancellato in seguito agli eventi). Questa centrale era spesso stata, inoltre, al centro delle polemiche: sia per lo scandalo che scoppiò quando si scoprì che il personale del la società che ha in gestione l’impianto, la TEPCO (Tokio Electric Power Company) aveva in più occasioni falsificato numerosi dati relativi a questioni di sicurezza, tra il 1977 ed il 2002; sia perché, come già detto, il progetto dei reattori era obsoleto, e mancava di adeguati criteri di sicurezza secondo gli standard attuali.

Figura 3. Fukushima Dai-Ichi, gli edifici contenenti i reattori dall’1 al 4 distinguibili sulla sinistra

In realtà, la centrale resse bene alla scossa sismica, benché essa fosse più forte di quella di progetto per i reattori 2, 3 e 5 (rispettivamente, 0.56, 0.52 e 0.56g contro 0.45, 0.45 e 0.46g). Inoltre, solo i reattori 1, 2 e 3 erano in quel momento operativi; mentre i reattori 4, 5 e 6 erano spenti per operazioni periodiche d’ispezione e manutenzione. Le unità operative subirono dunque, automaticamente, uno spegnimento immediato, detto in gergo tecnico SCRAM, mediante l’inserimento delle barre di controllo ed eventualmente di “veleni” (che deprimono la reazione di fissione) disciolti nell’acqua del circuito primario, come l’acido borico. L’onda di maremoto fu invece nettamente superiore a quella di progetto, 46ft contro i 19ft di altezza della diga di protezione, per cui l’impianto venne allagato, portando allo spegnimento dei gruppi diesel che alimentavano i sistemi di raffreddamento di emergenza.

Il maggiore problema a seguito dello spegnimento di un reattore nucleare, infatti, è lo smaltimento del calore residuo, che decade rapidamente nei primi istanti, ma presenta in seguito un residuo di potenza termica che va dissipato per evitarne il surriscaldamento: tale residuo, piccolo relativamente alla potenza a pieno regime, è però comunque nell’ordine di diversi MW.

Figura 4. Decadimento della potenza termica di un reattore nucleare, secondo due diverse modalità di calcolo

Notiamo dal grafico come ci sia una subitanea perdita di potenza dell’unità, nell’ordine di circa il 93% in maniera quasi istantanea, e del 99% entro poco più di un’ora; con però una potenza termica residua dello 0.2% anche a distanza di diversi giorni, che per i reattori 1, 2 e 3 di Fukushima I sarebbe a dire circa 3-5MW (considerando un rendimento del 30%). Si rende dunque necessario il raffreddamento del reattore, per evitarne un surriscaldamento che porterebbe al meltdown, cioè alla fusione degli elementi di combustibile e delle loro guaine (barre); tale raffreddamento va effettuato anche per le barre di combustibile esausto presenti nelle apposite piscine. Viene generalmente utilizzata, a questo scopo, acqua, che ricircola in un sistema chiuso alimentato da pompe (questi sistemi di raffreddamento vengono brevemente descritti più avanti).

Per avere una sommaria panoramica costruttiva dei reattori 1, 2 e 3, guardiamo la figura sottostante:

Figura 5. Reattore BWR tipo Mark I (unità dall’1 al 5 di Fukushima I)

Dove:

  • DW: dry well contenente il contenitore in pressione del reattore;
  • WW: wetwell, toroide che corre intorno alla base dell’unità, al cui interno è presente la piscina di soppressione del vapore; il vapore in eccesso nel DW entra nel WW attraverso i tubi disposti radialmente, per condensarsi;
  • SFP: spent fuel pool contenente gli elementi di combustibile esausti, sommersi in acqua;
  • RVP: reactor pressure vessel, recipiente in pressione contenente il reattore vero e proprio;
  • SCSW: secondary concrete shield wall, muro in calcestruzzo fungente da contenimento secondario in caso d’incidente.
Figura 6. Rappresentazione dell'edificio-reattore di un BWR Mark I

Le strutture principali della centrale dunque ressero la fortissima scossa sismica, che però “staccò” l’impianto dalla griglia elettrica giapponese: automaticamente, i gruppi diesel di emergenza si accesero per alimentare il raffreddamento dei reattori dopo il loro spegnimento. Questa fase, benché breve, è molto importante, dato che segna subito la differenza tra ciò che avverrà nella centrale e ciò che avvenne al reattore 4 di Chernobyl: infatti, in quest’ultimo l’incidente avvenne a reattore funzionante; cui si sommarono l’incendio della grafite ivi presente (inesistente a Fukushima) che causò la nube tossica radioattiva, e l’assenza di reali contenimenti del reattore come nelle unità occidentali.

La prima onda di maremoto colpì l’impianto 41’ dopo il sisma, apparentemente senza causare gravi danni. A 60’ dal terremoto la seconda onda, alta 14m, invece allagò la centrale, causando lo spegnimento dei generatori diesel, non protetti contro un evento simile. Avrebbero dunque dovuto intervenire le batterie d’emergenza, in grado di fornire elettricità ai sistemi di raffreddamento per le successive otto ore: ma già da questo momento gli eventi si fanno confusi. E senza la possibilità di riallacciare la centrale alla rete elettrica, data la completa devastazione del territorio circostante, si dovette comunque procedere a trasportare in loco dei generatori mobili, con tutte le difficoltà del caso, perdendo quindi tempo prezioso. Vanno anche ricordati gli unici, finora, decessi avvenuti nella centrale: a causa dello tsunami, persero infatti la vita due tecnici, di 21 e 24 anni, i cui corpi saranno ritrovati solo diversi giorni più tardi.

Già dalle primissime ore, abbiamo detto, gli eventi si fanno confusi, e solo un’approfondita inchiesta potrà definitivamente farvi luce. Appaiono infatti possibili, alla luce degli eventi successivi, due cose. La prima, è l’errore umano nella gestione delle prime ore dell’emergenza (come suggerito dal New York Times) che portò i responsabili della centrale a sottovalutare la situazione dei reattori, forse concentrando in un primo momento i propri sforzi a tenere sotto controllo la piscina del combustibile esausto annessa al reattore 2, che aveva subito un lieve danneggiamento in seguito al sisma. Il secondo, è che già nelle prime ore i sistemi di raffreddamento di emergenza, perché mal gestiti o perché mal funzionanti in seguito allo tsunami, non hanno adeguatamente smaltito il calore in eccesso, essendo ormai certo che già tra l’11 ed il 12 marzo le barre di combustibile dei reattori 1 e 2 furono “esposte”, cioè non sufficientemente coperte dall’acqua di raffreddamento. Al reattore 3, in data 13 marzo, il sistema di raffreddamento d’emergenza si guastò, rendendo critica la situazione anche di quell’unità, ed anche qui le barre del reattore risultarono in breve tempo esposte.

Nei reattori il combustibile nucleare, in forma di pellets (praticamente piccoli dischi) viene impilato ed inguainato entro barre in lega di zirconio, materiale di ottime qualità meccaniche e particolarmente resistente alla corrosione. Tuttavia, quando la temperatura delle barre supera i 1200°C, l’acqua reagisce con esse, formando ossido di zirconio, ed idrogeno allo stato gassoso. Un ulteriore surriscaldamento porta alla fusione, totale o parziale, delle barre e del combustibile nucleare ivi contenuto, determinando il possibile rilascio nell’ambiente degli elementi radioattivi contenuti in tali barre: è il meltdown.

Questo fu ciò che dunque si verificò nei primissimi giorni dell’incidente all’interno di tali reattori, anche se è stato possibile determinare ciò solo a posteriori, sia perché non vi fu immediato rilascio di radioattività nell’ambiente, sia per le difficilissime condizioni nelle quali dovevano lavorare i tecnici della centrale dopo il maremoto, quasi isolati dal mondo esterno e con una terribile responsabilità sulle proprie spalle. Nei giorni e nelle settimane seguenti, il carico di lavoro sostenuto e le dosi di radioattività ricevute li avrebbero fatti chiamare gli “eroi di Fukushima”. Accanto ad essi, però, dobbiamo ricordare l’aiuto, spesso determinante, portato dalla Marina Militare americana, dalle Forze di Autodifesa giapponesi e dai vigili del fuoco di diverse prefetture vicine.

Abbiamo parlato del meltdown in atto nei primi tre reattori, ma entro il 16 marzo fu chiaro che anche le piscine contenenti il combustibile esausto presso i reattori 3 e 4 erano in una situazione pericolosa: in particolare, l’acqua della piscina annessa a quest’ultimo reattore, senza un adeguato sistema di raffreddamento attivo, stava bollendo, e vaporizzandosi andava scoprendo le barre di combustibile, con il rischio di rilasciare direttamente nell’atmosfera elementi ad alta radioattività nel caso in cui le barre si fossero fuse. Per tutti questi casi, si scelse di immettere direttamente acqua di mare, per raffreddare il combustibile, essendo l’unica disponibile sul posto in quantità sufficienti, con l’aggiunta di acido borico per inibire la reazione di fissione; l’acqua marina però, alla lunga, espone l’acciaio del recipiente in pressione del reattore, nonché delle tubazioni, alla corrosione.

Fu a causa di questi avvenimenti che si cominciò a rilasciare vapore dal circuito primario (normalmente isolato dall’esterno) nell’atmosfera in maniera controllata, nonché dalla piscina del reattore 4, per evitare che la pressione indotta dalla vaporizzazione dell’acqua di raffreddamento salisse oltre i limiti massimi di resistenza dei contenimenti. Insieme al vapore, come intuibile, venivano rilasciati nell’ambiente anche elementi radioattivi, e l’idrogeno generato nella reazione chimica accennata poco fa. Fu questo gas la causa delle esplosioni che, nel giro di pochi giorni, scossero tutte le prime quattro unità, spesso determinando il parziale crollo delle strutture più esterne, ed il ferimento di diversi tecnici; e probabilmente determinando anche il danneggiamento dei toroidi di soppressione del vapore nei reattori 2 e 3. Va notato come, in queste unità costruite tra la seconda metà degli anni ’60 e la fine degli anni ’70, mancasse un vero ultimo contenimento esterno (come ad esempio nelle equivalenti centrali europee) ma bensì le strutture più esterne avessero la semplice funzione di proteggere i contenimenti interni dagli agenti atmosferici, senza dover ad esempio resistere agli eventi di un possibile incidente nucleare; ciò è vero in particolare per la parte superiore di questi edifici. Ed anche le piscine di combustibile non erano adeguatamente protette, in questi vecchi reattori.

I quali, entrando ancora un po’ nei particolari tecnici, sono dotati di due sistemi principali per il raffreddamento d’emergenza:

  • Reactor Core Isolation Cooling (RCIC): sistema di raffreddamento a reattore isolato (turbina e condensatore non più disponibili) controlla i livello del refrigerante nel reattore, in tutte le condizioni anormali ed incidentali nelle quali il circuito primario rimane isolato ed in pressione; nel reattore 1 era implementato un sistema Isolation Condenser, con identiche funzioni;
  • Emergency Core Cooling System (ECCS): sistema di raffreddamento d’emergenza del nocciolo, costituito da un sistema di iniezione ad alta pressione per compensare piccole fuoriuscite del refrigerante primario nel caso di piccole rotture (HPCI), un sistema di spruzza mento del nocciolo che vi pompa l’acqua dalla camera di soppressione (CSS) ed un sistema che provvede al controllo del livello del refrigerante in condizioni di bassa pressione del circuito primario ed alla rimozione del calore di decadimento mediante gli scambiatori del ciclo ausiliario ad acqua (LPCI/RHR).

Ogni reattore è inoltre equipaggiato di valvole di sfogo e sicurezza (SRVs) che controllano la pressione del circuito primario, al fine di prevenire sovrappressioni pericolose. Esse possono essere attivate sia tramite sistemi elettromeccanici, che manualmente.

Dalla breve descrizione qui effettuata, si può individuare quanto l’iniziale mancanza di corrente elettrica (sia perché isolati dall’esterno a causa del maremoto, sia per la perdita dei gruppi diesel di emergenza) nonché il successivo possibile danneggiamento dei sistemi ausiliari abbiano negativamente influito sugli eventi. Inoltre, la gestione delle SRVs è fortemente condizionate dalla capacità di attivarle: è vero che possono essere manovrate manualmente, ma trovandosi sul circuito primario, in caso di gravi incidenti ciò pone un serio problema di esposizione alle radiazioni dei tecnici incaricati; inoltre, il protocollo di sicurezza prevede normalmente che si eviti quanto più possibile il rilascio nell’ambiente di radioattività, portando quindi ad aprire le valvole solo in casi estremi, mettendo così il sistema a rischio di raggiungere pressioni superiori a quelle sopportabili. In ogni caso, la ventilazione del sistema, come visto, s’è resa necessaria anche per la presenza di idrogeno gassoso, ed il conseguente (e poi verificato) rischio di esplosioni.

Un altro elemento di preoccupazione fu, anche se in linea molto teorica, la possibilità di un reinnesco della reazione di fissione. Tale evento è, appunto in teoria, possibile: tuttavia, grazie ad appositi e semplici accorgimenti tecnici, ed a causa della fisica stessa che governa i reattori, la reazione di fissione non si è reinnescata autonomamente, né c’è mai realmente stato questo pericolo nella “piscina” del reattore 4.

In tutta questa serie di eventi, ipotesi e pericoli, possiamo distinguere sei possibili cause degli eventuali danni ai circuiti primari ed ai recipienti in pressione dei reattori:

  1. vibrazioni sismiche;
  2. pressione interna oltre i limiti operativi;
  3. transitori termici (repentino spegnimento del reattore, seguito dal surriscaldamento interno, raffreddamento con acqua ecc.);
  4. fusione dei noccioli;
  5. utilizzo di acqua di mare;
  6. esplosioni di idrogeno.

In attesa dei risultati di un’approfondita indagine, compiuta anche dall’IAEA, e che sarà disponibile solo tra diversi mesi, possiamo però fare qualche ipotesi. Il punto 1, infatti, appare non aver avuto conseguenze significative, nonostante il terremoto sia stato superiore ai limiti di progetto di alcuni reattori; anche i punti 2 e 3 non sembrano aver avuto conseguenze decisive, quantomeno non nel senso di indurre danni tali da rendere la situazione tecnica ed ambientale critica. Il punto 6, per quanto spettacolare nei suoi effetti, non dovrebbe aver danneggiato così gravemente le parti più delicate della centrale, essendo le esplosioni avvenute esternamente ai pressure vessels, salvo per quanto riguarda il reattore 2: l’esplosione presso tale unità infatti ha danneggiato il toroide alla base (vedere sopra) mentre l’esplosione presso il reattore 3 ha interrotto temporaneamente il flusso di acqua per raffreddare il 2. Infine, i punti 4 e 5 sono quelli più critici, dato il materiale fuso ad altissima temperatura che può depositarsi sul fondo del recipiente in pressione, nel peggiore dei casi bucandolo e colando entro il contenimento; e data l’azione corrosiva esercitata dall’acqua di mare sull’acciaio.

Oltre ai reattori 1, 2 e 3, anche la piscina del combustibile esausto annessa al reattore 4 cominciò a dare gravi problemi tra il 15 ed il 16 marzo, quando prima vi si sviluppò un incendio, ed in seguito l’acqua ivi presente iniziò a bollire, scoprendo parzialmente le barre e causando un’importante incremento di radiazioni in loco, tale da forzare una breve evacuazione dell’unità.

Infine, a parte qualche preoccupazione iniziale per l’aumento della temperatura dell’acqua, i reattori 5 e 6, con le annesse piscine di combustibile esausto, sono stati presto riportati sotto controllo e non hanno più rappresentato una seria minaccia, pur venendo costantemente monitorati; il nocciolo del reattore 4 era invece stato completamente rimosso, e dunque non c’era alcun problema (mentre, come detto, era l’annessa “piscina” ad essere fonte di grosse preoccupazioni); così come le “piscine” ai reattori 1, 2 e 3 hanno dato fortunatamente scarsi problemi.

A questo punto, si è trattato di riportare sotto controllo le unità danneggiate, ed al contempo monitorare la diffusione di elementi radioattivi nell’aria e nell’acqua, dove arrivano sia perché precipitati dall’atmosfera (es. tramite la pioggia) sia a causa delle perdite idrauliche nei reattori danneggiati.

L’intervento sui reattori si può schematicamente riassumere come:

  • continua immissione di acqua (anche di mare se necessario) per il raffreddamento;
  • riparazione e riattivazione delle connessioni elettriche, nonché dei sistemi di raffreddamento;
  • rimozione dell’acqua altamente contaminata, stagnante in varie parti dei circuiti o degli edifici di contenimento, e di detriti contaminati;
  • individuazione e riparazione delle perdite idrauliche;
  • controllo dei gas interni ai reattori, sia mediante l’immissione di azoto (gas inerte per prevenire possibili esplosioni) sia attraverso periodici sfiati qualora la pressione interna superi il livello di guardia.

Si può dire che la situazione vada gradualmente e lentamente migliorando, pur se tra mille difficoltà, con piccoli incidenti ed in ambienti altamente contaminati che impongono turni di lavoro limitati ai tecnici impiegati all’interno di tali unità. Ad esempio, solo ad oltre un mese dall’incidente, dei PackBot (robot militari controllati a distanza) sono potuti entrare dentro i contenimenti dei reattori, fornendo preziosi dati sullo stato dei noccioli fusi, nonché sui livelli effettivi di temperatura, pressione e radioattività. Non è comunque nostra intenzione fornire un elenco completo della miriade di eventi minori accaduti alla centrale, come il guasto alla pompa di raffreddamento della “piscina” del reattore 5 al 28 maggio (riparato in tempo per evitare l’ebollizione dell’acqua di raffreddamento) oppure la descrizione delle perdite di acqua del reattore 1 nel corso delle settimane. L’unica certezza che possiamo dare, è che ci vorrà ancora molto tempo per riportare totalmente sotto controllo la situazione dell’impianto, ed iniziare dunque le opere di dismissione e bonifica.

Quanto ai livelli di radioattività, essi hanno raggiunto, e raggiungono, livelli molto elevati, ma con perdite umane paradossalmente nulle. Si ha infatti notizia di due tecnici fortemente irraggiati nelle prime ore dell’incidente, subendo dosi di 678mSv e 643mSv; altri tre tecnici subirono un’esposizione di 170-180mSv il 24 marzo, e due di essi furono trasportati in ospedale a causa di ustioni da radiazione, dovute al mancato uso di stivali protettivi nell’acqua altamente contaminata, con una dose locale di 2-6Sv alle caviglie; infine, diciannove tecnici hanno finora subito un’esposizione a più di 100mSv. Il limite massimo di esposizione dei lavoratori, portato inizialmente a 100mSv/anno (incidente), fu successivamente innalzato a 250mSv/anno (emergenza); ma ancora inferiore al massimo di 500mSv, ammesso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in casi simili. Le dosi ricevute da questi lavoratori, maggiormente colpiti, li espongono in futuro al rischio di contrarre forme tumorali, ma senza al momento aver notizia di casi di avvelenamento da radiazioni. Negli ambienti della centrale permangono, specie negli edifici più colpiti, livelli di radioattività fortemente variabili, anche in funzione delle operazioni di “pulizia” da acqua o detriti contaminati; nei punti e nei momenti di massima radioattività, le dosi sono arrivate a valori anche di 0.5-1Sv/ora esternamente ai reattori, ma sempre internamente agli edifici, ovvero all’acqua contaminata; mentre l’aria, in prossimità delle unità danneggiate, ha raggiunto picchi massimi di 130mSv/ora. Invece, internamente ai contenimenti dei reattori danneggiati, tali valori hanno raggiunto nei primi giorni i 48Sv/ora (reattore 1), 84Sv/ora (reattore 2) e 105Sv/ora (reattore 3) per poi ridursi. La presenza di plutonio nei pressi della centrale, fonte di grande preoccupazione a causa dell’utilizzo di tale elemento nel combustibile del reattore 3 (MOX), si confonde con quella residua frutto della ricaduta dei test atomici effettuati dalle potenze nucleari nei primi decenni della Guerra Fredda, e non è dunque allarmante per ora.

La contaminazione dell’ambiente circostante è stata valutata in circa un decimo, finora, del materiale radioattivo fuoriuscito da Chernobyl, pur avendone otto volte il potenziale (ed essendovi coinvolti tre reattori ed una piscina di combustibile esausto, contro un reattore nella centrale ex-sovietica). L’evacuazione della popolazione civile ha avuto un raggio di 20km dall’impianto, di fatto esteso a 30km dato il consiglio ai residenti di non uscire di casa se non assolutamente necessario. La contaminazione del mare, del terreno e delle acque nei pressi della centrale di Fukushima I è stata molto più elevata dei limiti di legge, soprattutto per quanto riguarda elementi quali lo iodio-131 ed il cesio-134 e 137: tuttavia i valori sono in costante decremento; in mare, da picchi di 100-200MBq/litro, a ?20kBq/litro (praticamente entro i limiti ambientali) talvolta anche sotto il limite di rilevamento di 10Bq/litro; nei terreni, lo iodio-131, con una contaminazione iniziale fino a 2kBq/m2, è praticamente scomparso (data l’emivita di appena 8 giorni) mentre il cesio-137 è passato da 3.6-505Bq/m2 a 2.2-91Bq/m2. L’emissione di raggi gamma, sempre stata nell’ordine dei microsievert o decimi di microsievert per ora, è anch’essa scesa. Le dosi di radioattività nell’aria entro 30km dalla centrale, invece, sono state inizialmente misurate tra 0.001mSv/ora e 0.170mSv/ora per poi decrescere gradualmente; la dose naturale equivalente è di 2.4mSv/anno. Tutto questo ha ovviamente portato restrizioni sanitarie (acqua, latte, prodotti agricoli ed ittici) nonché la comprensibile paura delle radiazioni; tuttavia sono stati rari i casi di reale rischio, e numerosi sono stati gli allarmi poi rivelatisi infondati. Va infine ricordato che la gran parte di queste misure, evacuazione della popolazione civile inclusa, sono precauzionali: cioè vengono messe in atto prima dell’effettivo superamento dei limiti di legge, e non vanno dunque confuse con la reale presenza di elevati livelli di radioattività; inoltre, i limiti di legge sono spesso nettamente inferiori ai limiti medici, per cui sono infondate le paure legate a minime contaminazioni; pur se esistono categorie, in particolare i bambini, maggiormente vulnerabili.

Sulla scala INES l’incidente è stato ufficialmente classificato di livello 7 (il più elevato) dal 12 aprile, considerando gli eventi alle singole unità come un unico disastro; precedentemente, erano stati classificati come livello 5 gli incidenti ai reattori 1, 2 e 3, e come livello 3 l’incidente alla piscina del combustibile esausto dell’unità 4.

Figura 7. Gli edifici esterni ai reattori dall'1 al 4, come apparivano dopo le esplosioni

Fukushima II (Dai-Ni)

La centrale nucleare di Fukushima Dai-Ni è costituita da 4 reattori BWR-5 da 1100MWe, entrati in funzione tra il 1981 ed il 1986, ed è gestita sempre dalla TEPCO. Le unità sono evidentemente più potenti e moderne rispetto a quelle di Fukushima Dai-Ichi, ma destarono all’inizio anch’esse qualche preoccupazione: pur venendo spenti i reattori in maniera automatica al momento del terremoto, la centrale fu infatti investita anch’essa dallo tsunami (con un’onda alta 14 metri, oltre il doppio della diga di protezione) e fu dunque stabilita una zona d’evacuazione di 3km nel pomeriggio del 12 marzo, portata a 10km in serata. Il reattore 3 appariva senza danni, mentre alle unità 1, 2 e 4 fu allagato il pozzo freddo (heat sink) del circuito di raffreddamento, con una perdita di acqua dal circuito, che causò un surriscaldamento fin verso i 100°C, pur essendo il circuito in sé ancora operativo. Tuttavia già entro il 15 tutte le unità raggiunsero il cold shutdown (“spegnimento freddo”) per cui l’allarme da questa centrale cessò in brevissimo tempo. In sostanza, pur venendo la centrale anch’essa allagata, non risentì dei danni subiti dalla sua “gemella”, grazie ad una migliore disposizione e protezione dei sistemi di raffreddamento d’emergenza; vi fu in ogni caso una vittima, un operaio travolto da una gru; e la zone rientra comunque entro l’area di evacuazione della popolazione civile a causa degli eventi di Fukushima I. L’incidente ai reattori 1, 2 e 4 è stato classificato di livello 3 sulla scala INES.

Figura 8. Fukushima Dai-Ni

Altri incidenti

La centrale di Onagawa fu teatro di un incendio all’edificio turbine, in seguito al terremoto, ma l’allarme per eventuali fughe radioattive rientrò definitivamente entro il 13 marzo. Tra il 7 e l’8 aprile, ulteriori scosse causarono la perdita temporanea di 3 delle 4 linee elettriche che riforniscono la centrale, ma quella rimasta fu sufficiente a garantire il mantenimento del cold shutdown dei 3 reattori; vi fu inoltre una piccola perdita di acqua dalle piscine del combustibile esausto.

Presso la centrale di Tokai, una pompa che alimentava il circuito di raffreddamento del reattore 2 (l’unico operativo, e spento in seguito al sisma) si guastò il 14 marzo, ma la pompa di backup entrò in funzione senza problemi.

Figura 9. Onagawa

Conseguenze

Le conseguenze “politiche” del sisma e del maremoto giapponesi sul mondo nucleari sono state quanto mai diverse. Lo stesso Giappone, infatti, pur interessato da alcune piccole manifestazioni antinucleari, e con i dubbi dello stesso primo ministro, ha al momento confermato il proprio programma nucleare, non avendo alternative valide con le quali soddisfare la grande domanda interna di energia. La stessa strada è stata seguita da paesi come Cina, India, USA, Russia, Francia e Regno Unito, al massimo prevedendo una campagna di controlli straordinari alle centrali in funzione (come chiesto dall’Unione Europea) ma senza bloccare i progetti futuri. Al contrario, la Germania ha deciso inizialmente di spegnere definitivamente i due reattori più vecchi e temporaneamente i sette meno moderni; decisione recentemente modificata nel senso di spegnere definitivamente anche questi ultimi, e rinunciare ad avere centrali nucleari operative dal 2022. In Svizzera il dibattito sembra ancora aperto, tra un governo federale che vorrebbe seguire l’esempio tedesco, ed i governi dei cantoni dove sono presenti le centrali che invece sono contrari a tale linea; in Italia, come noto, il governo ha istituito una moratoria temporanea sui progetti nucleari (che erano già in ritardo) poi sorpassata dal referendum che ha istituito una moratoria più lunga e stringente, i cui effetti potrebbero portare alla rinuncia definitiva alla produzione di energia nucleare.

Le conseguenze “tecniche” verranno invece valutate nel corso dei prossimi mesi, ma possiamo già tirare alcune somme. La politica di mantenere in servizio vecchi reattori, con life extension di 20 anni per unità progettate per durarne inizialmente 20-30 con una tecnologia risalente agli anni ‘60, come a Fukushima-I, si è rivelata evidentemente rischiosa e dopo tutto nemmeno tanto economica. Ad essa però ha concorso anche la moratoria de facto alla costruzione di nuovi reattori, iniziata all’incirca tra gli incidenti di Three Mile Island e Chernobyl, e durata un ventennio, che ha impedito di sostituire le vecchie unità con nuovi reattori più potenti, meglio costruiti e più sicuri. I reattori hanno comunque retto bene l’impatto del terremoto, smentendo le voci in tal senso, ma si sono trovati completamente indifesi contro la totale mancanza di energia elettrica, sia dalla rete esterna che dai generatori interni. Questo probabilmente influenzerà il futuro mercato dei reattori nucleari, spingendo per avere sempre più sistemi di sicurezza passivi (cioè funzionanti in base a forze di gravità, pressione ecc.) invece che attivi (cioè attuati elettromeccanicamente, es. tramite pompe) di modo che venga assicurato il raffreddamento del nocciolo anche in condizioni di totale isolamento e perdita di elettricità; già da qualche anno l’americana Westinghouse, con i reattori AP600 ed AP1000, ha intrapreso la strada verso sistemi di sicurezza totalmente passivi. Il progetto degli edifici esterni di Fukushima Dai-Ichi si è rivelato evidentemente datato e poco sicuro, ma già nelle centrali europee ed americane di quell’epoca la sicurezza era maggiore; in ogni caso dovrà essere dedicata una maggiore attenzione alla progettazione delle piscine del combustibile esausto. In generale, già i più recenti progetti di reattori (AP1000, EPR, ABWR ecc.) hanno standard di qualità e sicurezza molto superiori a quelli interessati dal disastro, per stessa richiesta del mondo nucleare, per cui probabilmente non si avrà nessuno sconvolgimento in queste opere: sarà comunque opportuno analizzare, imparare e soprattutto ricordare ciò che è successo in Giappone, per migliorare la sicurezza intrinseca delle centrali, anche in caso di eventi apocalittici.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...Facebooktwitterlinkedinmail
Published inAttualitàEnergiaNews

9 Comments

  1. Maurizio Rovati

    Grazie Filippo. Se ci saranno aggiornamenti o link li seguirò con attenzione. Se avrò novità avrò cura di segnalarle, nel mio piccolo.

  2. Alvaro de Orleans-B.

    Grazie a questo articolo sono finalmente riuscito a sapere cos’è realmente successo e come stanno le cose alla centrale di Fukushima I, un tema che mi sta molto a cuore.

    Anche da parte mia gratitudine e complimenti all’autore per una spiegazione esemplare!

  3. FrancescoW

    Ottimo articolo, anche per un profano come me. Complimenti a Filippo!

  4. fabrizio

    Caro Filippo,
    complimenti per il resoconto che hai fatto dell’incidente.

    Ad un certo punto scrivi giustamente :
    “Le dosi ricevute da questi lavoratori, maggiormente colpiti, li espongono in futuro al rischio di contrarre forme tumorali, ma senza al momento aver notizia di casi di avvelenamento da radiazioni.”

    Manca a mio modo di vedere la quantizzazione del rischio,
    che e’ nota a tutti gli addetti ai lavori, dalle diverse misure effettuate nel passato. Ma non viene mai detta ne diffusa dai media.

    L’essere umano ha una probabilità di contrarre un tumore del 20% nel corso della sua vita.
    Anche se vive in una teca di vetro incontaminata.
    Non si conosce ancora bene il motivo. E’ un problema del nostro sistema di riporduzione cellulare.

    Una radioattività assorbita pari a 1 Sv in un tempo prolungato su tutto il corpo aumenta questa probabilità dal 20% al 24%.

    Bene: questo e’ quello che rischiano i 20 eroi di Fukushima.
    Di meno … tenuto conto delle cifre da te riportate.

    Penso che la popolazione attorno alla centrale rischi molto,
    ma molto di meno.

    • gbettanini

      Se si considerano le stime del BEIR VII chi nel primo anno dopo l’incidente di Fukushima assorbirà una dose di radiazioni pari a 20 mSv vedrà aumentare dello 0,2% la probabilità di contrarre un tumore nell’arco della propria vita, questa probabilità si aggiunge alla probabilità del 42% che mediamente ognuno di noi ha di contrarre un tumore nell’arco della vita.
      Le zone nei dintorni della centrale in cui verrebbe assorbita in un anno una dose >20 mSv sono evacuate od in via di evacuazione. Le migliaia di persone che assorbiranno nel primo anno una dose minore od uguale a 20 mSv avranno quindi una bassa (ma non nulla) probabilità aggiuntiva di ammalarsi nell’arco della vita. Situazione grave che richiede scelte pragmatiche e difficili, la popolazione deve essere informata in modo da poter decidere se accettare un maggior rischio per la salute o se allontanarsi per qualche anno dalle proprie case.

    • fabrizio

      Ciò che viene scritto nella prima parte del commento è vero.
      (in alcuni libri si legge 20% in altri 42%
      … non capisco bene chi dei due abbia ragione)
      Diamo per scontato che sia il 42%. Bene.

      A questo punto non capisco perchè si definisca
      “una situazione grave che richiede scelte pragmatiche e difficili”.

      Perchè migialia di persone devono abbandonare la loro casa, il loro lavoro, il loro stile di vita, gli affetti, semplicemente perchè la loro probabilità di avere un tumore passa dal 42% al 42.2% ?

      La probabilità di morte per stress accumulato a causa dell’evaquazione sarà molto, ma molto piu alta.

    • gbettanini

      Credo che i due valori (20% e 42%) non si escludano a vicenda, io il 42% l’ho ricavato da questo dossier del MIT.

      http://mitnse.files.wordpress.com/2011/06/fukushima-lessons-learned-mit-nsp-025.pdf

      Mi sembra comunque plausibile che se ad un 20% in condizioni ‘teca di vetro’ aggiungi tutte le cause ambientali, alimentari, fumo, alcol etc la percentuale di rischio possa raddoppiare.
      Sono d’accordo che lo 0,2% non è un grande aumento, potrei dire anche che smettendo di fumare e controllando meglio ciò che si mangia e si beve si potrebbe abbassare di molto quel 42% bilanciando quindi il maggior rischio dovuto alle radiazioni.
      Ma sono anche convinto che da qui sia più semplice dare un’ opinione razionale e non emotiva. Se si vive a 25 km dalla centrale di Fukushima e se si hanno bambini piccoli credo che la prospettiva cambi di parecchio.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Categorie

Termini di utilizzo

Licenza Creative Commons
Climatemonitor di Guido Guidi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 4.0 Internazionale.
Permessi ulteriori rispetto alle finalità della presente licenza possono essere disponibili presso info@climatemonitor.it.
scrivi a info@climatemonitor.it
Translate »