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Un clima insensibile e ingrato

In che modo un sistema così attentamente studiato potrebbe dare soddisfazione a chi fa tanti lodevoli sforzi per comprenderlo? Una sola risposta: restituendo un’immagine di se che si accordi con quella che chi sta provando a interpretarla si e’ fatto sin qui a furia di simulazioni.

Un’immagine cioe’ che dipinga un sistema altamente sensibile ad ogni genere di effetto perturbante esterno. Eliminate per forza di cose tutte le casualità che davvero sfuggono al nostro controllo come gli sconvolgimenti di natura geologica e astronomica, resta dunque un solo fattore esterno: l’attività umana.

Bruciare combustibili fossili soprattutto, ma anche cambiare la destinazione d’uso del suolo, di questo si compone in gran parte l’ipotetico fattore perturbante.

Eppure, per quanti sforzi si facciano per piegarlo alle risultanze delle simulazioni, il sistema appare molto più ‘imperturbabile’ e molto più insensibile.

Due sono le questioni principali inerenti la comprensione del sistema clima:

1) quanto calore può essere trattenuto dal sistema al raddoppio della CO2;
2) come questo calore può essere tracciato.

Al primo punto c’è la sensibilità climatica, il risultato della composizione di più fattori, in cui, secondo il mainstream scientifico, prevalgono quelli capaci di amplificare il riscaldamento, i cosiddetti feedback positivi.

Al secondo punto dovrebbero esserci le temperature medie superficiali globali, la cui rappresentazione grafica che tende incessantemente a crescere e’ nota praticamente a tutti. Ma e’ anche altrettanto noto che il parametro temperatura superficiale non rappresenta affatto l’integrale del sistema, un compito svolto molto più efficacemente dal contenuto di calore degli oceani, non solo perché questi ricoprono i 3/4 della superficie del Pianeta, ma soprattutto perché la loro massa e capacita’ di ‘trattare’ il calore, e’ di gran lunga più efficiente della libera atmosfera nel suo strato più prossimo al suolo. Se qualcuno avesse dubbi consiglierei di dare un’occhiata all’immagine sotto, che mette in relazione il contenuto di energia dell’atmosfera con quello degli oceani.


Accade così, che analizzando i dati più affidabili e aggiornati dell’OHC (Ocean Heat Content), si scopre che questi si accordano con un sistema tutt’altro che altamente sensibile alle perturbazioni esterne di origine antropica, restituendo un’immagine della sensibilità climatica almeno tre volte inferiore a quella stimata dal mainstream scientifico.

L’ultima di queste analisi, condotta attraverso l’uso di un modello semplificato e di osservazioni consolidate, l’ha condotta Roy Spencer sul suo blog:

Oh the Insensitivity! More on Ocean Warming 1955-2010

La sua conclusione e’ la seguente:

Il relativamente debole riscaldamento dell’oceano dagli anni ’50 e’ consistente con feedback negativi (bassa sensibilità climatica), non feedback positivi. Lo strato di rimescolamento dell’oceano e l’atmosfera ad esso associata attraverso la convezione, perdono il calore in eccesso verso lo spazio prima che possa essere immagazzinato nelle profondità oceaniche.

Questo, come sottolinea Spencer, risponde alla domanda che si poneva Trentberth: dov’è il calore che mancherebbe all’appello (perché le temperature non sono aumentate quanto dicono che avrebbero dovuto fare i modelli ad alta sensibilità climatica) se la C02 avesse in effetti un ruolo così importante?

Non nell’oceano, evidentemente.

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Published inAttualitàNews

4 Comments

  1. stai tranquillo donato che se Argo indicasse l’esistenza del “calore mancante” ne sentiremmo parlare a piu’ non posso

    • donato

      Su questo puoi metterci la mano sul fuoco.
      Ciao, Donato.

  2. donato

    Qualche tempo fa su “Le Scienze” fu pubblicato un articolo in cui si parlava di boe marine robotizzate (Argo) che erano in grado di misurare le temperature oceaniche su una colonna d’acqua ben determinata. Periodicamente esse emergono dagli abissi e scaricano, via satellite, i risultati delle misurazioni effettuate. Il loro numero, cito a memoria, dovrebbe aggirarsi intorno alle diverse centinaia per cui i dati raccolti ed elaborati dovrebbero essere capaci di fornirci delle immagini attendibili delle temperature a varie profondità degli oceani. Nel Mediterraneo, per esempio, ne troviamo una ventina. Anche quì su CM, nel passato, si è discusso dell’argomento.
    Se il “calore mancante” di cui si parla nell’articolo è andato a finire in fondo agli oceani (come sostengono in molti), con questo sistema di misura, ne dovremmo trovare delle tracce molto evidenti.
    Nel mio piccolo sono andato a curiosare nel sito dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale ed ho trovato traccia di qualche lavoro che fa capo alla flotta Argo (progetto SIRE). Ho scaricato anche il pdf del lavoro ed ho dato un’occhiata ai grafici della salinità e della temperatura misurate da una di queste boe nel suo peregrinare nel Golfo della Sirte. Il lavoro è estremamente specialistico per cui, non avendo expertice in materia, giudizi e considerazioni sono fuori luogo, comunque mi sembra ben fatto. Domanda: perché non si utilizzano questi sofisticatissimi strumenti per indagare il problema del “calore mancante” piuttosto che inventarsi modelli e modellini da far girare nei computer? Visto che gli strumenti esistono, perché non focalizziamo la nostra attenzione su un problema specifico e cerchiamo di risolverlo? Se, attraverso queste campagne di misura riuscissimo a stabilire, per esempio, che le temperature nella profondità dell’Oceano sono rimaste immutate nel corso dell’ultimo decennio significherebbe che calore nella profondità oceanica non ne è arrivato. Il risultato sarebbe univoco: il modello che ha previsto calore in eccesso in atmosfera non va bene, bisogna buttarlo o correggerlo (metodo scientifico-sperimentale, se non erro). Da non addetto ai lavori potrei aver detto delle castronerie, ma il concetto che ho voluto esprimere mi sembra chiaro.
    Infine un’ultima considerazione, un po’ OT. Non essendo tutti oceanografi sarebbe necessario che qualcuno mediasse tra il semplice appassionato desideroso di sapere e lo studioso. Questo qualcuno è il divulgatore scientifico. Una corretta divulgazione scientifica, secondo me, dovrebbe rendere conto al grande pubblico (che finanzia questi esperimenti) dei risultati raggiunti o non raggiunti. Come c’è qualcuno che informa l’opinione pubblica dei risultati positivi o negativi di questo o quel governo, allo stesso modo i divulgatori scientifici dovrebbero informarci sui risultati positivi o negativi di questo o quel centro di ricerca. Leggo “Le Scienze” (se non erro è una delle migliori riviste divulgative) da anni, ma di resoconti e bilanci, ne incontro raramente.
    Ciao, Donato.

    Reply
    Donato, è proprio dall’inserimento dei dati Argo che è scaturita la stasi dell’OHC per gli ultimi anni, così come è dall’analisi di quei dati che non si trova traccia del “passaggio” del calore dalla superficie agli abissi, perché nello strato sottoposto a misura dalle boe questo calore non si è visto. Qualunque cosa dicano i modelli, la realtà delle osservazioni mostra questo, punto. Di qui la costernazione di Trentberth nel constatare che del calore in eccesso che dovrebbe risultare con i valori stimati di forcing da un lato e sensibilità climatica dall’altro non si trova traccia. Ammettere questo però vuol dire anche ammettere di aver sbagliato, non una cosa semplice. Meglio considerare questi dati come preliminari e dunque non attendibili e continuare a coltivare la realtà virtuale, visto che ormai sembra che non presenti alcuna differenza con quella reale.
    gg

  3. Alciator

    Per quel che mi risulta, dell’oceano sappiamo pochissimo. Troppo pochi i studi sulle temperature a diverse profondità, e la loro evoluzione. Rarissimi gli studi sui scambi termici a loro interno. Dunque non mi andrebbe neanche di scartare l’ipotesi che hanno “bevuto” calore.

    Più si gratta, e più sembra chiara una conclusione: non sappiamo quasi niente del nostro clima.

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