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Riscaldamento degli oceani e pesche miracolose

La produttività primaria di un ecosistema terrestre o acquatico è data dalla quantità di biomassa prodotta dagli organismi autotrofi (batteri, alghe, piante) con la fotosintesi. Tale biomassa, che va poi ad alimentare le catene alimentari degli organismi eterotrofi, dipende dalla radiazione solare che fornisce l’energia per il processo di fotosintesi.

Figura 2 – Produttività primaria netta degli ecosistemi terrestri e marini, espressa come mg/m3 di clorofilla a per gli oceani e come normalized difference land vegetation index per le terre emerse (immagine di fonte NASA riportata in http://it.wikipedia.org/wiki/File:Seawifs_global_biosphere.jpg)

Pertanto conoscendo l’energia solare è possibile giungere ad una stima di produttività primaria lorda (Gross Primary Production – GPP) che in genere ci porta a valori molto elevati. In tal senso ad esempio 1 MegaJoule di radiazione solare intercettata dalle foglie di una pianta superiore si traduce in 2-4 g di glucosio assimilato (valore questo indicato come Radiation Use Efficiency – RUE) , il che ipotizzando che in un anno su 1 m2 pervengano 6000 MJ e che di questi il 50% sia intercettato da vegetali con una RUE di 3 ci porta a 3x6000x0.50=9000 g. Se riferita ad 1 ettaro (10.000 m2) tale quantità dà luogo a 9000×10000=90 tonnellate, molto più della produzione primaria netta (Net Primary Production – NPP) che un ettaro di piante è realmente in grado di esprimere in un anno. Per intenderci una delle piante coltivate più produttive in assoluto (il mais) posto nelle condizioni colturali più favorevoli può raggiungere le 36 tonnellate di biomassa, di cui 18 sono di prodotto utile (granella).

La consistente decurtazione che si registra nel passaggio da GPP a NPP si deve al fatto che la produttività dei vegetali è soggetta ad una vasta serie di limitazioni, rappresentate in particolare da:

  • temperatura; le biosintesi dei vegetali sono possibili solo fra una temperatura minima e massima prestabilite – le temperature cardinali minime e massime – e si svolgono in condizioni ottimali in un intervallo più ristretto. Per fare un esempio un bosco di faggio produce fra 5 e 35°C ma la produzione si rivela massima fra 18 e 24°C;
  • disponibilità idrica; se manca l’acqua la produzione si interrompe e limitazioni sempre più stringenti si osservano per contenuti idrici via via decrescenti rispetto a quelli ottimali;
  • disponibilità di ossigeno (le piante – radici incluse – devono respirare, per cui se manca ossigeno la crescita si arresta; è questo il caso di vegetali non adattati alla sommersione e le cui radici si trovano in ambienti saturi d’acqua;
  • disponibilità di nutrienti; per fare fotosintesi e dunque per produrre glucosio (uno zucchero) sono sufficienti CO2 e acqua; tuttavia gli organismi viventi sono composti non solo di glucosio ma anche di altre sostanze (proteine strutturali, lipidi, enzimi, cellulosa, lignina, ecc.), per produrre le quali occorrono nutrienti (azoto, fosforo, potassio, calcio, ferro, magnesio, ecc.) la cui carenza si traduce in limitazioni alla crescita;
  • effetti negativi da parassiti, batteri, virus, ecc., in grado di deprimere anche in modo considerevole la produzione dei vegetali.

In sintesi dunque se l’ecosistema è soggetto ad una limitazione termica dovuta a temperature sub ottimali, un aumento della temperatura farà avvicinare il sistema alle condizioni di ottimalità, producendo un aumento di produttività primaria che tuttavia per verificarsi necessita che non si accresca oltremodo il peso delle succitate limitazioni.

Si osservi inoltre che le limitazioni sopraelencate valgono anche per gli organismi eterotrofi che compongono le catene alimentari. Ad esempio nel caso specifico dei pesci le limitazioni termiche influenzano non solo le comunità di autotrofi planctonici e bentonici alla base della catena alimentare di cui i pesci fanno parte (batteri capaci di fotosintesi, alghe mono e pluricellulari, piante acquatiche superiori come ad esempio le posidonie) ma anche i tassi di maturazione delle uova e la crescita e la sopravvivenza degli avannotti. Quel che ne deriva è un sistema complesso in cui i legami fra cause (es: aumento della temperatura) ed effetti (abbondanza di una certa specie di pesci) sono tutt’altro che banali e soggetti a fenomeni di non-linearità e di feed-back.

A ciò si aggiunga che gli ecosistemi marini sono i più antichi presenti nel nostro pianeta e come tali hanno vissuto nel corso delle ere geologiche sconvolgimenti enormi con periodi torridi (es: il Messiniano in cui si verificò il prosciugamento dell’intero Mediterraneo) e periodi gelidi (es: glaciazione carbonifera, glaciazioni pleistoceniche) per cui le catene alimentari hanno avuto modo di plasmasi su intervalli estremamente ampi di temperatura.

Tutto ciò si traduce nella difficoltà di eseguire stime di produttività primaria degli oceani e di prevederne il comportamento futuro al variare delle forzanti termiche, radiative, di nutrienti, ecc..

Nelle stime di produttività oceanica può venirci in aiuto un importante indicatore costituito dalla quantità di pesci presenti in una certa area, rilevata attraverso specifiche attività osservative ovvero a partire dalle statistiche del pescato. Su tale indicatore si basa ad esempio il lavoro di ricerca del professor Simpson dell’Università di Briston dal titolo “Continental Shelf-Wide Response of a Fish Assemblage to Rapid Warming of the Sea” (Risposta a livello di zoccolo continentale di un gruppo di pesci al rapido riscaldamento marino), pubblicato sul numero del 15 settembre di Current Biology.

Lo studio si riferisce a quella parte dello zoccolo continentale europeo che ricade nel Mare celtico e di Biscaglia (Celtic-Biscay shelf) e nel Mare del Nord (North sea shelf) (figura 1). Per tale area e con riferimento alle 50 specie di pesci più abbondanti e commercialmente più rilevanti, si sono valutati i livelli di presenza frutto di 11 campagne di monitoraggio indipendenti svolte negli ultimi tre decenni su un milione di chilometri quadrati del Mar del Nord e aree limitrofe per il periodo 1982-2006.

Figura 1 – Le aree 18 (Mare del Nord) e 19 (Mar celtico e di Biscaglia) rappresentano le aree di riferimento delle studio qui commentato. (fonte:http://www.unep.org/dewa/giwa/areas/giwamap.asp).

Il principale risultato riportato dagli autori è quello secondo cui delle 50 specie indagate ben 27 (il 54%) sono in significativo aumento, 14 (il 28%) sono stazionarie e solo 9 (il 18%) sono in significativo regresso. Le 27 specie in crescita risultano mediamente più termofile e di taglia minore rispetto alle 9 specie in regresso. Ciò secondo gli autori costituisce una prova indiretta dell’aumento di produttività degli ecosistemi marini dell’area in risposta all’aumento della temperatura della superficie dell’acqua che nel periodo 1982-2006 è stato di +1.4°C per il mare del Nord e di +0.7°C per l’area nel Mare celtico e di Biscaglia contro un aumento globale della temperatura di superficie degli oceani di +0.7°C negli ultimi 100 anni.

Gli autori osservano inoltre che:

  1. Per la prima volta gli effetti della variabilità termica sull’ecosistema marino sono stati studiati misurando l’abbondanza assoluta e non solo la presenza/assenza delle specie;
  2. l’abbondanza di individui stimata nelle 11 campagne di monitoraggio si correla positivamente con i quantitativi annui di pescato, il che depone per l’applicabilità di ambedue i metodi;
  3. nelle aree in esame le variazioni nell’abbondanza di individui non si sono fin qui tradotte in variazioni nell’abbondanza delle specie;
  4. i risultati conseguiti sono importanti in quanto i cambiamenti di abbondanza hanno indiscutibili riflessi sugli ecosistemi interessati e sulla sicurezza alimentare delle popolazioni rivierasche che vivono di pesca.

I dati che emergono dal lavoro di Simpson et al. sono un segnale non trascurabile della capacità di adattamento degli ecosistemi marini alla variabilità termica, segnale che probabilmente è frutto di una aumentata produttività primaria. In sostanza il riscaldamento delle acque oceaniche avrebbe consentito un incremento della biomassa e dunque della quantità di pesce presente. Ciò significherebbe che i mari Europei possiedono ancora il potenziale per supportare una pesca produttiva e sostenibile e che in futuro nuove specie potrebbero soppiantare quelle tradizionali sulle tavole di molti consumatori.

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Published inAmbienteAttualitàNews

4 Comments

    • Luigi Mariani

      Sull’argomento ho mie idee ben precise e di tutt’altro genere rispetto a quelle espresse da Petrini e da Citati. L’argomento è comunque decisamente OT per cui qui mi fermo.

      LM

    • Luigi Mariani

      L’articolo originale è uscito sul numero di Nature del 29/9 (oggi) come Letter a firma Welp et al e con titolo “Interannual variability in the oxygen isotopes of atmospheric CO2 driven by El Nino”. L’articolo è accompagnato da un commento di Matthias Cuntz a titolo “A dent in carbon’s gold standard”.

      Per ora anticipo che potrebbe in effetti trattarsi di qualcosa di importante. Ad esempio tutti i ragionamenti che abiamo condotto in questi anni si sono basati su un assorbimento annuo da parte degli ecosistemi terrestri di circa 120 Petagrammi di Carbonio, per cui il nuovo valore di 150-175 Petagrammi, qualora confermato, potrebbe ad esempio ampliare le prospettive di sfruttamento delle vegetazione in chiave di fissatore del carbonio atmosferico.

      Tuttavia preferirei non sbilanciarmi prima di aver letto letter e commento per intero.

      Concludo segnalando che Guido Guidi mi ha or ora segnalato che quanto prima uscirà un commento su CM.

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