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Climategate 2.0: con una informazione così, dove sarebbe lo scandalo?

Alcuni giorni fa, con l’appoggio del solito server russo irrintracciabile, è comparsa la seconda tranche delle mail trafugate nel novembre del 2009 dai computer della Climatic Reserch Unit (CRU), l’unità di ricerca della Università della East Anglia sede tra l’altro del Working Group II dell’IPCC.

E’ una notizia che ormai dovrebbe essere di dominio pubblico, e invece da noi ne hanno parlato solo l’Ansa, Il Foglio e, naturalmente i blog di settore, tra cui ovviamente anche CM. I media generalisti nostrani non hanno ritenuto opportuno soffermarsi sull’argomento, tutti presi come sono ad accendere i riflettori sulla conferenza di Durban (qui e qui per esempio).

Spirito pratico? Attenzione alle cose serie e disprezzo del pettegolezzo? Può darsi, ma non credo, per molte ragioni. La prima è che se i media avessero spirito pratico vivremmo in un altro mondo. La seconda è che, normalmente, la massa critica dell’informazione agisce compatta e fatte salve le situazioni dove la libera informazione è un pio desiderio, quando c’è una notizia del genere vi si gettano sopra a capofitto. Specialmente se i colleghi della stampa occidentale fanno altrettanto.

Di questa storia ne hanno parlato il Wall Street Journal, l’Economist e il Financial Times, non proprio dei giornaletti. C’è chi ha sposato in pieno la causa del complotto, chi si è limitato alla cronaca e chi ha tentato di analizzare il significato della questione. Insomma, c’è quello che ci dovrebbe essere in termini di commento quando succede qualcosa. Il comune denominatore è semplice e fa stridere ancora di più il fatto che da noi non se ne parli: quello che si legge in quei messaggi mina la credibilità della scienza e se proprio ci vogliamo preoccupare di quello che succederà a Durban in questa settimana, visto che tutta la questione si fonda su questa credibilità, direi che sarebbe il caso di parlarne.

E infatti questo fa per esempio proprio il FT, non senza tirare un colpo ben assestato proprio al nostro Paese. Una ragione in più per parlarne, direi, magari anche per rispondere al fuoco. L’articolo del FT finisce così:

[blockquote]Fino alla sostituzione del governo italiano all’inizio del mese, l’apparto del climate change era probabilmente la più solida tecnocrazia dell’occidente. […] Le Tecnocrazie sono intrinsecamente fragili perché la loro leggittimazione si fonda sulla negazione di una verità universale: tutti commettono errori. [/blockquote]

E il punto è proprio questo. Tutto il castello della catastrofe climatica si fonda sulle simulazioni, sulle quali non esiste alcun consenso scientifico, per la semplice ragione che esse sono uno specifico settore di applicazione su cui lavora una piccolissima parte delle presunte migliaia di scienziati che aderirebbero al consenso. Tutti gli altri, impegnati a studiare la questione da altro punti di vista come raccolta di dati paleoclimatici, dinamiche atmosferiche e oceaniche etc etc, si fidano semplicemente di loro. E così, confidando in un approccio che meriti questa fiducia, fa anche l’opinione pubblica, policy makers compresi.

Ora è noto che i sistemi di simulazione climatica siano uno strumento meraviglioso, ma è anche noto che sono ben lungi dall’essere perfetti. Quella che rappresentano è una situazione monca, spesso prossima alla realtà per alcune parti, ma molto lontana da essa per altre. Non a caso si utilizzano diversi modelli i cui output vengono poi mediati. Alcuni riproducono bene il comportamento del mare, altri quello della bassa atmosfera etc etc. Tutti, per esempio, hanno un problema in comune: prevedono in funzione di uno sbilanciamento positivo del bilancio radiativo, cioè in ragione di una maggiore quantità di calore che resta intrappolata in atmosfera, un riscaldamento della media troposfera più o meno triplo di quello che avviene alla superficie. E questo i dati osservati non lo confermano. Ancora. Quasi tutti i modelli prevedono sempre in funzione di questo eccesso di calore un riscaldamento alla superficie maggiore di quello effettivamente avvenuto. Questo significa che nel sistema operano delle dinamiche naturali che i modelli non riescono a riprodurre. Questo significa che c’è grande incertezza. Proprio quella incertezza che non si voleva comunicare, lo abbiamo capito dalle mail che i protagonisti del climategate si scambiavano.

Perché? Perché avevano un’agenda? Perché avevano degli interessi? Perché si sarebbe indebolito il messaggio? Leggiamo qualche altra riga dal FT:

[blockquote]Leggere la corrispondenza altrui – peggio ancora rubarla e pubblicarla – è disonorevole in ogni circostanza. Mentre alcuni dei messaggi erano di parte, diverse commissioni hanno escluso pratiche di cattiva scienza. Tutto quello che le mail hanno dimostrato è che gli scienziati non sono meno inclini alla vanità, alla rivalità e alle scorciatoie di quanto lo siano tutti gli altri in altri aspetti della vita.

Ma questo è tutto. Coloro che votano in democrazia non discutono di scienza. Discutono dell’autorevolezza degli scienziati. E le dichiarazioni di autorevolezza scientifica vengono dalla percezione che, infatti, gli scienziati non si lasciano influenzare dalle loro vanità e rivalità. Dove altri perseguono i loro piccoli sporchi interessi personali, gli scienziati perseguono soltanto la verità. Le email del 2009, tuttavia, hanno mostrato che alcuni preminenti membri dell’apparato del climate change non operavano con spirito di trasparenza. Difendere l’atteggiamento furtivo di uno scienziato sul terreno del “la scienza è buona” è come difendere un politico sul terreno del “non ha fatto nulla di illegale”. Le email sono state dannose perché hanno minato l’affermazione degli scienziati di agire come tali piuttosto che come soggetti di parte.

Se si dimostra che essi si organizzano per raggiungere uno scopo, allora si dissipa l’alone attorno alla scienza. Ogni votante che non voglia essere ingannato deve sospendere il suo scetticismo. Deve ascoltare gli scienziati con non maggiore deferenza di quanta ne riservi ad ogni altro gruppo interessato.[/blockquote]

Qualcuno sa quanti tra i soggetti coinvolti nel climategate sono a Durban? Molti, quasi tutti. E qualcuno sa quanto ci sia del loro lavoro negli allarmi che vengono lanciati da anni? Molto, quasi tutto.

Sarebbe il caso di parlarne che ne dite? Ma, se il problema viene ignorato lo scandalo non c’è. Peccato che non ci sia neanche l’informazione.

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Published inDurban

2 Comments

  1. Uberto Crescenti

    Chiedo scusa per il refuso: ho parlato di Nairobi ma volevo riferirmi evidentemente alla confenza di Durban.

  2. Uberto Crescenti

    L’informazione è sicuramente uno dei problemi più importanti della attuale società; anzi sarebbe meglio parlare di disinformazione. Sulla disinformazione è stato basato, anche in passato, il referendum sul nucleare con i risultati che ci penalizzan terribilmente. Sulla disinformazione è basata l’opinione corrente in merito alla attribuzione alla CO2 prodotta dalle attività umane il fenomeno del riscaldamento globale del nostro Pianeta. Lo scandalo del Climategate non favorisce la corretta informazione, per questo è doveroso ignorarlo. Come pure la ricorrente affermazione che tutti o almeno la maggior parte degli scienziati sono d’accordo sull’AGW è mera disinformazione. La scorsa primavera in un convegno a Trieste ho ascoltato una relazione tenuta a un aooartenente all’IPCC con tale ricorrente notizia e con un esasperato catastrofismo. Quando sono intervenuto per la mia relazione e ho ribattuto colpo su colpo a tali affermazioni ho trovato una platea disorientata che ha apprezzato però il mio intervento. E’ purtroppo difficile informare. Basta vedere questi giorni sulle TV la presentazione del meeting di Durban, sempre illutrato in termini catastrofistici.

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