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Conta più il percorso o il traguardo?

Nello sport non c’è dubbio, per quanto si voglia fare appello allo spirito di De Coubertin quel che conta è arrivare primi. Per evitare che qualcuno si possa aiutare con delle scorciatoie si stabiliscono le regole, per cui il percorso è importante solo per come si sceglie di affrontarlo perchè sarà uguale per tutti. Nella società della comunicazione globale e della ricerca del consenso da parte dei policy makers il percorso è invece divenuto molto più importante del traguardo. Le dichiarazioni altisonanti che vorrebbero manifestare grande impegno sono utili nel brevissmo periodo, ma se non sono supportate dai fatti, restano quello che sono, appunto dichiarazioni. La prima regola del management è che confondere il raggiungimento del risultato con la strada che si deve percorrere per arrivarci è il miglior modo per fallire. Lungo la strada che si vorrebbe percorrere per intervenire sul clima e sull’ambiente c’è posto per gli interessi di molti, lo dimostrano le dimensioni che ha raggiunto il mercato del carbon trading ed il proliferare di pseudo centri di ricerca e di organizzazioni che sulla tortuosità di questo percorso hanno fatto la loro fortuna.

Non è un segreto che il Protocollo di Kyoto pur fallendo nel centrare l’obbiettivo abbia tracciato un percorso rivelatosi a molti favorevole. Certamente hanno giocato un ruolo importante l’inadeguatezza di alcuni dei meccanismi previsti ma, più che altro, è mancata clamorosamente l’unità di intenti, manifestatasi con posizioni di chiaro disaccordo dei paesi che non hanno voluto ratificarlo e di meno chiara volontà di applicarlo, da parte di chi si era detto favorevole sin dall’inizio. Però, nel contempo, si è generato un giro di interessi di dimensioni (queste sì) globali che non ha nulla a che vedere con il raggiungimento del traguardo. Questo dovrebbe far comprendere che tentare una seconda volta a Copenhagen sarebbe inutile, soprattutto perchè la congiuntura internazionale è decisamente più sfavorevole. Su tutto grava inoltre il peso di un livello di comprensione scientifica delle dinamiche del clima molto più basso di quanto alcuni vorrebbero far credere, per cui ogni decisione sarebbe comunque minata dall’incertezza. Molto spesso si sente dire che comunque sarebbe necessario agire secondo il principio di precauzione, perchè l’evoluzione sfavorevole del clima ad opera delle attività umane sarebbe una possibilità e come tale dovrebbe essere scongiurata.

Un ragionamento simile sarebbe ineccepibile se i provvedimenti che si vorrebbero prendere non rischiassero di far più male che bene. Per scongiurare una presunta deriva sfavorevole delle condizioni climatiche, ci si dovrebbe esporre alla certezza di una grave contrazione del tenore di vita, che inevitabilmente vedrebbe chi ha già poco in ancor più gravi difficoltà nei paesi con un livello di sviluppo avanzato, mentre impedirebbe di fatto ogni possibilità di crescita dove invece lo sviluppo è appena cominciato. Le vaste aree del mondo dove invece deve ancora iniziare vedrebbero preclusa ogni possibilità di miglioramento. Questo perchè non è possibile prescindere dalla disponibilità di energia a basso costo ed attualmente le fonti energetiche alternative a quelle tradizionali non possono sopperire, nè si può immaginare che questo avvenga nel breve periodo.

Tutto ciò per intervenire con azioni di mitigazione su un sitema che non è mitigabile, ovvero controllabile, nè è stato probabilmente soggetto a modifiche a livello globale per cause esogene al sistema stesso. Le modifiche invece sono evidenti a livello locale e, per intervenire su questi aspetti, non sono affatto necessari accordi o negoziati a scala globale. Quale impatto migliorativo dovrebbe avere sulla vivibilità delle nostre città un programma di radicale riduzione delle emissioni di gas serra? In che modo sarebbe scongiurato l’inquinamento dei corsi d’acqua o del suolo? Ma non solo, che forma dovrebbero avere questi accordi? Mike Hulme nel libro che ha appena pubblicato, oltre a porre questo genere di interrogativi, paventa il rischio della deriva autoritaria che questo approccio potrebbe generare. Al riguardo fa anche due esempi in negativo di azioni mitiganti un pò fantastiche ma che non stupiscono più di tanto, se si pensa che qualcuno ha proposto di fertilizzare gli oceani con limatura di ferro perchè accrescano la capacità di assorbire CO2 e qualcun’altro ha già accolto il suggerimento. Hulme parla di specchi riflettenti o di immissione di massicce dosi di aerosol in alta atmosfera per ridurre la radiazione incidente. Come? Dove? A beneficio di tutti ed a scapito di chi? Quale effetto si vorrebbe generare esattamente e con quali conseguenze dirette e indirette? Si può partire da una scarsa conoscenza del sistema per definire come dovrebbe funzionare in futuro? Ad un’auto che non frena provereste a cambiare lo specchietto retrovisore per vedere se la situazione migliora?

La posizione di Hulme è piuttosto chiara, gli interventi globali non sono possibili, nel mio piccolo aggiungerei anche che non servono, per cui si deve agire a livello locale. Questo significa anche che le scelte, oltre ad essere orientate seriamente ai problemi reali, quali l’inquinamento atmosferico e la gestione delle risorse e non all’aria fritta a pagamento (è il caso di dirlo), saranno così soggette anche al giudizio di chi ne è beneficiario ed al tempo stesso attore, i cittadini. Un giudizio esprimibile direttamente verso i propri rappresentanti. Diversamente, azioni di “ampio ma soffocante respiro” globale giungerebbero come imposizioni da parte di organizzazioni che non sono soggette al giudizio elettorale ma sono inevitabilmente condizionate a livello politico da interessi e intenti più o meno dichiarati.

Nella volontà di globalizzare il problema, puntando a strumenti quali ad esempio una carbon tax globale, c’è troppa ansia di global governance. Lo strumento che resta in mano ai cittadini per il tramite dei propri rappresentanti è troppo debole in rapporto alla dimensione dei provvedimenti ed all’impatto che questi avrebbero sulla società. E non è sufficiente dire che i provvedimenti possono anche non essere recepiti o ratificati, perchè (e la storia recente lo insegna) la pressione esterna sarebbe insostenibile, specialmente se favorita a livello mediatico. Aggiungo anche che agendo localmente ad esempio su efficienza energetica, risorse idriche, gestione dei rifiuti, cogenerazione, differenziazione delle fonti energetiche, trasporti, infrastrutture etc. etc., si genererebbero dei comportamenti per così dire virtuosi da parte di molti paesi.

Queste policy, nel tempo, generebbero quello che tecnicamente si chiama diritto internazionale consuetudinario, che ha carattere cogente per i paesi che aderiscono alle organizzazioni sovrannazionali prima tra tutte ovviamente l’ONU. A quel punto i provvedimenti non avrebbero più il carattere dell’imposizione ma della libera scelta, cioè quello che devono avere. Quello di cui si deve tener conto è l’obbiettivo, non il modo come arrivarci e mi sembra che troppo spesso, ci si preoccupi più di questo secondo aspetto che del primo. Sarà perchè lungo questo percorso c’è spazio per lauti guadagni come quelli del carbon trading?

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Published inAmbienteAttualitàEnergia

5 Comments

  1. Achab

    @Luca Galati

    Io non credo ci sia nulla di male a priori nel carbon trading. Ma non è lo stumento in sè che desta preoccupazione quanto l’utilizzo che se ne può fare, è uno strumento che si presta facilmente a “perversioni” e degenerazioni. Rischia inoltre di mandare il messaggio errato e aberrante che è possibile scaricare altrove, essenzialmente nei paesi poveri, la propia spazzatura (intesa in senso lato) e i propi problemi.
    E poi, se propio la gestione e conservazione delle risorse ambientali viene citata nei libri di testo di economia come tipico esempio di fallimento dei meccanismi di libero mercato, risulta stonato che vi si ricorra per la gestione delle emissioni di CO2. Sarebbe necessario porre dei rigidi paletti, analogamente a come sia pur tardivamente si pensa ora di fare con i prodotti finanziari derivati.

    Confesso di non avere le idee molto chiare nè su se sia il modo migliore di affrontare il problema nè su quali dovrebbero essere i limiti e le condizioni per un suo utilizzo.

  2. @ Galati

    Ognuno la pensa come vuole, per me il sistema del carbon trading non è repellente, è ontologicamente errato.

  3. Luca Galati

    Scusate, ma non capisco cosa ci sia di così repellente nel ‘carbon trading’: nell’impossibilità da parte di alcuni paesi di far fronte agli accordi internazionali sul Clima si compra una quota di emissioni a chi invece può mettere in atto maggiori provvedimenti ambientali visto che il problema AGW è comunque ‘globale’: varrebbero le leggi della domanda e dell’offerta ovvero il libero mercato. Più democratico di così…

  4. @ Achab
    Non vorrei sembrasse ingenuo, ma il discorso è disarmante nella sua semplicità. Sono anni che si va a caccia delle prove che l’effetto antropico abbia modificato o possa modificare nel breve il clima a scala globale. Queste prove ad oggi non ci sono. Tutto quanto è disponibile si basa su simulazioni che, per la stessa ammissione di chi ci lavora su, non fanno previsioni ma propongono scenari peraltro scarsamente attendibili in ragione di una lunga serie di scelte soggettive. C’è chi, con una faccia di bronzo incredibile, prospetta un countdown di meno di otto anni, considera questo dunque un periodo climaticamente pronosticabile, ma al tempo stesso trascura il piccolo particolare che per un periodo analogo, se non superiore, il clima è andato nella direzione opposta a quella prospettata. Nel frattempo le prove di un AW (antropic warming senza la G) sono più che evidenti ma piuttosto che discutere cosa fare al riguardo, si preferisce applicare algoritmi di correzione alle serie temporali delle aree urbane perchè meglio rappresentino la scala globale, l’unica che evidentemente interessa.
    Parli di obbiettivi. Bene, l’obbiettivo è semplice: vivere bene tutti. Nessuno mi convincerà mai che ci si possa arrivare limitando le emissioni di gas serra in atmosfera, quello serve a perseguire altro genere di scopi e, tra questi, contenere il riscaldamento è solo uno specchietto per le allodole. Più che mai ora che questo riscaldamento non c’è più. Da previsore ti faccio una previsione: vedrai che la concentrazione di gas serra in atmosfera calerà, causa crisi e causa raffreddamento già iniziato, e qualche scienziatone azzarderà l’ipotesi che questa riduzione è la causa del raffreddamento, tanto per tenere il circo in piedi. Il prossimo summit, che credo rappresenti per chi ha un certo modo di vedere le cose una sorta di ultima spiaggia, servirà soltanto a dividere per l’ennesima volta i buoni dai cattivi, ad individuare il prossimo nemico. Per anni ci hanno raccontato che il problema erano gli USA, che ora si accingono (a parole non coi fatti) a sbarcare tra i buoni. Si volgerà lo sguardo altrove, ma non ci vorrà molto a capire con chi prendersela. Nel frattempo inquinamento atmosferico, risorse idriche e quant’altro resteranno problemi inaffrontati. Però, ci sentiremo tutti molto bravi perchè ci saremo impegnati a mitigare il clima.
    gg

  5. Achab

    Innamorarsi di una strada e decidere di seguirla in ogni caso è un’operazione ad altissimo rischio. Ma detto questo non tutte le strade portano a Roma, o almeno, non sono tutte equivalenti. E poi, siamo daccordo che dobbiamo andare a Roma? O qualcuno preferisce il mare e vuole fermarsi ad Anzio e poi chissà, un salto a Roma lo si può sempre fare? Vogliamo sostenere che è la stessa cosa?

    Fuor di metafora, parlare di percorso ha senso se si ha un comune obiettivo; si hanno diverse possibilità e si cerca di scegliere assieme la migliore, la più conveniente o la più rapida o la più comoda o semplicemente quella possibile. Ma non si può spacciare per equivalente un percorso che porta ad altri obiettivi sia pur condivisibili e, forse, consente un qualche passo anche verso un obiettivo diverso. Questa dicotomia non mi sembra possa essere risolta così semplicemente. O ci si vuole far credere di aver trovato l’Araba Fenice o che si possa avere la botte piena e la moglie ubriaca?

    Guidi, Hulme a giudicare da quanto riportato da lei nel post (parlo di un libro che non ho letto) conviene nell’esistenza dell’AGW, crede che si dovrebbe intervenire, ma pensa che non sia possibile un accordo a livello globale. Lei invece non crede nell’AGW, ritiene che non si debba intervenire, eppure concorda con il percorso di Hulme. Un brillante esempio di percorsi apparentemente simili pur perseguendo obiettivi diversi. Se foste voi due a dover decidere per tutti credo che andreste rapidamente in contrasto, la dicotomia di fondo non è risolta.

    Kyoto non si può dire sia stato un successo; l’Europa ha ancora qualche speranza di rispettarne i limiti, ma globalmente le emissioni sono aumentate. Questo da ragione a Hulme o a chi sostiene che Kyoto aveva dei vizi di fondo che si deve provare a superare con Copenhagen? Non è dato saperlo. Ma personalmente preferisco intanto puntare su Copenhagen anche se, come amava dire mia nonna, spesso l’ottimo è nemico del buono.

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