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Dibattito sui blog e scienza ufficiale: chi è che bara?

Uno degli argomenti più gettonati di quanti sostengono l’ipotesi delle origini antropiche del riscaldamento globale – si noti che non ho scritto cambiamenti climatici perché il clima è sempre cambiato – e delle eventuali sue conseguenze, è quello che vedrebbe la conoscenza scientifica già definita. Al massimo ci sarebbe da discutere sui dettagli. Basta discussioni infinite e poco scientifiche sui blog, bisogna concentrarsi su quello che dice la scienza, quella vera.

Già, perché un concetto astratto come quello del clima ha bisogno di essere trasposto nella realtà attraverso i dettagli. In genere questo avviene cercando di collegare ogni sorta di evento atmosferico – meglio se intenso – ad una presunta modifica intercorsa ultimamente. Sappiamo bene che il livello di comprensione scientifica di questo collegamento è assolutamente basso, come ha avuto modo di farci sapere ad esempio l’IPCC con l’ultimo report specificatamente dedicato a questo argomento. Sicché c’è bisogno d’altro. Va molto di moda la disponibilità idrica, si parla spesso di energia, ma questi aspetti, avendo già i loro bei problemi, non sono molto utili alla bisogna. Meglio, molto meglio parlare di risorse alimentari.

Una breve parentesi. Come i lettori più abituali avranno notato, ci capita molto spesso di commentare quello che succede fuori dai nostri confini. Non lo facciamo per esterofilia, ma semplicemente perché la mole di informazioni, discussioni e approfondimenti che viene dall’estero è soverchiante rispetto a quanto succede da noi. Così come avviene per la ricerca, per i movimenti, per le organizzazioni governative e non governative e soprattutto per le risorse finanziarie. La parte del leone la fanno gli Stati Uniti, sebbene le istituzioni europee stiano facendo di tutto per ben figurare.

E così accade che venga pubblicato un nuovo sfavillante e risolutivo report praticamente ogni giorno. L’ultimo è tutto un programma, e viene dal National Research Council dell’Accademia delle Scienze americana. Tra gli sponsor, l’EPA e l’Energy Foundation. Si tratta quindi di scienza ufficiale e di istituzioni federali, c’è da avere la massima fiducia. Il titolo è

Warming World: Impacts by Degree.

Lo scopo è chiaro, si vuole render noto quale sarà l’impatto dell’aumento delle temperature medie superficiali globali per ogni grado di aumento della temperatura – da notare che è tutto dato per scontato ma come detto in apertura ormai ci siamo abituati – su diversi campi di applicazione. La figura che segue è tratta dal report in questione e riguarda la produzione agricola di varie colture in varie zone del mondo.

 Un’immagine di sicuro impatto. In un mondo di 1, 2, 3 o addirittura 4°C più caldo, come stimano i modelli IPCC ancora tutti da verificare, la produzione agricola subirebbe un danno devastante. Alcune colture che costituiscono la base delle risorse alimentari potrebbero vedere dimezzata la produzione.

Qual’è il problema? Semplice, quello che viene rappresentato qui sopra è il risultato peggiore (in termini di impatto ma sospetto non solo 🙂 ) che i modelli adottati hanno generato. In poche parole lo scenario peggiore. Da notare che tale impatto si prevede possa essere devastante anche per quelle colture che normalmente crescono fiorenti nei climi temperati. Decisamente strano. Tanto strano che val la pena approfondire.

Come al solito se le simulazioni tirano fuori una serie di risultati si propone al pubblico solo quello peggiore, compiendo nel migliore dei casi un errore, nel peggiore e più probabile dei casi invece un tentativo di trarre in inganno chi legge – i policy makers. Lo stesso grafico è infatti comparso anche l’anno scorso, sempre in un report dell’NSF. In quel caso se ne riportava la provenienza attribuendolo al lavoro del WG2 del 3° Report IPCC e indicando che si trattva del “worse case scenario“, omettendo però di segnalare che nel report IPCC c’era scritto anche che alcune colture avrebbero in realtà beneficiato del riscaldamento, ma forse questo era troppo difficile da far capire. Sicché quest’anno hanno deciso di fare ancora meglio, semplicemente segnalando il contenuto del grafico come “Best estimate“. Praticamente il caso del peggiore scenario possibile viene promosso a stima più probabile. Un capolavoro.

Ma i contenuti? La fonte bibliografica di questa stima, con specifico riferimento alla produzione di granoturco negli Stati Uniti, è una pubblicazione uscita sui PNAS nel 2010. Un’analisi statistica da cui è stato tirato fuori un limite di 29°C al di sopra del quale, se sperimentato dalle colture per più di 15 giorni, le piante comincierebbero a soffrire. Da notare che differenti analisi e differenti esperimenti hanno in realtà indivuduato questo limite in 35° e 38°C a seconda delle diverse fasi di crescita della pianta. Ma gli autori si sono fermati ai 29°C di derivazione statistica piuttosto che osservativa, bontà loro. Nel farlo e per far girare il modello da cui scaturisce la previsione di disastro, hanno anche assunto che gli effetti dello stress da caldo siano cumulativi (altra cosa che la sperimentazione non ha affatto accertato) e non hanno tenuto conto della disponibilità idrica, né della qualità del suolo, né delle tecniche di coltivazione. Solo la temperatura, naturalmente. In poche parole, le piante secondo loro soffrono il caldo che ci sia acqua disponibile o che ci sia la siccità, che il suolo sia sfruttato o che sia fertile, che sia zappato a mano o o che sia lavorato con moderni macchinari. Piante che crescono in climi temperati, meglio ricordarlo.

Per cui, alla colpevole omissione del reale significato del grafico, si somma la dubbia qualità del contenuto scientifico dello stesso, contenuto che nessuno ha pensato di verificare. Uno studio che ha deliberatamente escluso dai propri calcoli tutto quello che non portava al risultato desiderato, i cui dati non supportano le conclusioni e assume qualcosa (l’effetto cumulativo) che non è possibile assumere. Davvero un bel lavoro. Io mi tengo i blog.

NB: su Climate Etc. e su WUWT trovate l’originale di questo post.

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Published inAttualità

7 Comments

  1. luigi mariani

    Sono stato a lungo indeciso se commentare o no.

    Per farlo con un minimo di cognizione di causa bisognerebbe infatti leggere l’intero lavoro citato da Guido e al momento non ho davvero il tempo di farlo.

    Dico solo alcune cose per fornire un minimo di contributo alla discussione:

    1. come già sottolineato da Guido le temperature di per sè dicono poco in quanto la chiave sta soprattutto nelle risorse idriche (se c’è l’acqua non c’è aumento termico che possa spaventarci)

    2. in linea di massima maggiori temperature significano anche stagioni di crescita più prolungate e quindi maggior possibilità di produrre, a condizione di disporre di specie o varietà più termofile ed adatte a sfruttare una stagione di crescita più lunga (se lunga a sufficienza si può anche pensare a fare due raccolti al posto di uno)

    3. il punto 2 ci indica che l’arma del miglioramento genetico è l’arma vincente (nuove varietà che per lunghezza del ciclo e per temperature cardinali si rivelino adatte a nuovi climi). Da questo punto di vista una genetica tecnologicamente avanzata è la chiave tecnologica per affrontare il problema e qui non posso non ricordare che oggi l’ingegneria genetica offre possibilità fantastiche. Si pensi ad esempio a colture che crescano se irrigate con acque salmastre, che resistano alla carenza idrica o ai parassiti, che acquisiscano l’azoto atmosferico senza dover far ricorso alla concimazione minerale, ecc. ecc.

    4. all’arma del miglioramento genetico delle colture si deve affiancare quella delle tecniche colturali appropriate e costantemente aggiornate (lavorazioni del terreno, concimazioni, diserbi, trattamenti antiparassitari, tecniche irrigue, ecc.).

    Quanto ho detto ai punti 3 e 4 delinea i contorni di un nuovo modo di fare agricoltura che oggi è alla nostra portata e che purtroppo è destinato (almeno qui in Europa) ad essere sempre più relegato al libro dei sogni poiché il nostro è un continente in cui a credere nella tecnologia siamo rimasti in pochi.
    Credo che non ci resti che sperare nei Paesi giovani ed emergenti dal punto di vista agricolo (Cina, India, Brasile, Vietnam, ecc.).

    • donato

      “Quanto ho detto ai punti 3 e 4 delinea i contorni di un nuovo modo di fare agricoltura che oggi è alla nostra portata e che purtroppo è destinato (almeno qui in Europa) ad essere sempre più relegato al libro dei sogni poiché il nostro è un continente in cui a credere nella tecnologia siamo rimasti in pochi.”
      Parole sante!
      Ciao, Donato.

  2. donato

    Qualche tempo fa, con alcuni post, ebbi modo di esprimere la mia opinione in materia. Ne nacque anche qualche pacata discussione tra chi, come me, sosteneva che i blog hanno rivoluzionato e rivoluzioneranno sempre di più, il mondo della comunicazione scientifica e chi, invece, sosteneva che l’attuale sistema di comunicazione scientifica era il migliore (perfettibile, ma migliore). Oggi G. Guidi ci ha mostrato un esempio di pessima comunicazione scientifica. E non viene dal mondo dei blog. Anzi è il mondo dei blog che ha avuto modo di individuarla e stigmatizzarla.
    Come si vede nulla è perfetto. 🙂
    Ciao, Donato.

    • Ma mentre la comunicazione scientifica ufficiale peggiora, non vedo miglioramenti apportati da quella dei blog 😉 O la comunicazione scientifica ufficiale migliora, oppure bye bye scienza. Io non vedo alternative.

    • donato

      Caro Fabrizio, probabilmente il miglioramento dovrebbe esserci da entrambe le parti: dovrebbero migliorare i blog e le vie di comunicazione ufficiali (secondo me questa sarà l’evoluzione futura, però, è una mia idea personale e quindi lascia il tempo che trova) 🙂 . Il problema è che, sempre più frequentemente, le pulci ai lavori “ufficiali” le fanno i blog. Se a forza di fare pulci trovi tanti errori sfuggiti alla revisione, è ovvio che qualche dubbio sulla bontà dei lavori revisionati ti viene. Anche perché, ormai, sono gli scienziati “ufficiali” 🙂 che animano molti di questi blog (vedi, ad esempio, la polemica al calor bianco tra N. Scafetta e L. Svalgaard su WUWT che si è sviluppata nei giorni scorsi; quelle tra il gruppo BEST ed il team di Real Climate e, perché no, anche quelle che ogni tanto si accendono qui).
      Ciao, Donato.

  3. Guido Botteri

    Ma questi signori hanno studiato l’effetto delle piene del Nilo sui raccolti ? Si produce più o meno grano che in Lapponia ? Certo, alla stessa latitudine, sempre in Egitto, nel deserto non cresce grano, ma non è colpa della temperatura, che è circa la stessa che sulle rive del Nilo, dove invece il grano cresce molto copioso. O sbaglio ?
    E se aumenta la temperatura di qualche grado in Canada e in Siberia, si produrrà più o meno cibo ?

  4. Chissà quanti fra coloro che appoggiano quel modo di pensare, tutto improntato sui Cigni Neri e sul Principio di Precauzione, si rendono conto che sia stato già implementato nove anni fa, quando l’Iraq fu invaso per motivi identici. Decine o forse centinaia di migliaia di morti dopo, non abbiamo ancora capito niente.

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