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Quando la CO2 fa il tagliando

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Questo post è stato pubblicato nell’ottobre del 2011 ma, per ragioni del tutto ignote, è sparito dalle nostre pagine. Dal momento che l’argomento – tra l’altro mai sopito – è tornato attuale in alcune recenti discussioni, il minimo che potessimo fare è tornare a pubblicarlo, per cui, ecco qua.

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Le discussioni di questi anni ci hanno abituati a considerare la CO2 come un gas pericoloso per la vita e con tempi di permanenza in atmosfera di decine o centinaia di anni. In altri termini attenti a quanto espirate perché una volta emessa la CO2 non torna più giù!

Tuttavia fin dal 1804, grazie all’opera fondamentale di De Saussure, sappiamo che la nutrizione carbonica delle piante avviene a spese della CO2 presente in atmosfera e dunque l’anidride carbonica è da considerare il mattone della vita sul nostro pianeta in quanto gli autotrofi (alghe, batteri, piante superiori) la usano per il processo di fotosintesi, di norma espresso con la formula seguente:

CO2+H2O -> CH2O + O2 (ove CH2O è 1/6 di una molecola di glucosio che è C6H12O6).

Si crea così una dicotomia antropologicamente lacerante che porta i più critici a domandarsi come sia possibile che un ecosistema come quello terrestre che vanta 2, forse 3 miliardi di anni di vita, abbia potuto convivere con una CO2 dottor Jeckill – mister Hide senza mai esserne sopraffatto. Tutti i nostri ragionamenti si fondano da tempo su misure regolari della concentrazione atmosferica di CO2 condotte in siti sparsi per il globo e che ci rendono manifesti i seguenti fatti:

  • Un trend pluriennale improntato all’aumento (circa +2 ppmv per anno);
  • Una caratteristica ciclicità annuale dettata dall’emisfero Nord che prevede un  minimo estivo (allorché nell’emisfero boreale dominano i processi di fotosintesi) ed un massimo invernale (allorché la fotosintesi boreale è al minimo).

Questi andamenti oltremodo regolari sono frutto di una vastissima gamma di processi che hanno luogo a microscala (fino a livello di singola cellula) e che propagano i loro effetti fino alla macroscala. Fra questi processi rammentiamo la fotosintesi (o per meglio dire le fotosintesi , perché lasciando stare batteri e alghe e limitandoci alle sole piante superiori abbiamo ben tre tipologie di processo fotosintetico indicate con le sigle di C3,  C4 e CAM), la respirazione cellulare degli organismi superiori (autotrofi ed eterotrofi) e la respirazione del terreno. A ciò vanno aggiunti ovviamente gli effetti antropici legati ad esempio alla combustione di combustibili fossili e al land use change.

Per cercare di capire meglio i processi che incidono sui livelli di CO2 atmosferica è da tempo possibile indagare i livelli di isotopi stabili presenti nella CO2 stessa. Infatti tali isotopi sono anch’essi oggetto di monitoraggio globale da parte della SCRIPPS sul cui sito sono anche disponibili gratuitamente le serie storiche dei dati. Tale monitoraggio globale, avviato dal professor Keeling negli anni ‘70, riguarda i siti di Alert (Canada), Point Barrow (Alaska), La Jolla Pier (California), Baja California Sur (Messico), Mauna Loa Observatory (Hawaii), Cape Kumukahi (Hawaii), Christmas Island, Fanning Island, American Samoa, Kermadec Islands, Raoul Island, Baring Head (New Zealand), Palmer Station (Antarctica), South Pole.

Circa gli isotopi stabili occorre dire che ogni molecola di CO2 è composta da:

  • un atomo di carbonio che di norma è 12C (forma normale a peso atomico 12) ma che in rari casi è 13C (isotopo stabile ‘pesante’ a peso atomico 13);
  • due atomi di ossigeno che di norma sono 16O (forma normale a peso atomico 16) ma che in rari casi sono 18O (isotopo ‘pesante’ a peso atomico 18).

Il differente peso fa sì che in svariati processi biologici che vedono coinvolta la CO2 (fotosintesi e metabolismo dei viventi in primis), le molecole ‘pesanti’ possano venir selezionate negativamente, il che si traduce a macroscala in fluttuazioni nella percentuale di  18O o 13C delle molecole di CO2 presenti in atmosfera. Passando rapidamente in rassegna questi isotopi, si può dire che il processo di fotosintesi è selettivo rispetto al carbonio 13C  in quanto nelle piante C3 la CO2 utile alla fotosintesi viene ‘catturata’ da un enzima noto come RUBISCO che preferisce 12C rispetto a 13C. Ciò fa si che quando le piante sono in attiva fotosintesi l’atmosfera riceva CO2 arricchita di 13C mentre la sostanza organica frutto del processo foto sintetico risulta impoverita di 13C. Per inciso i combustibili fossili presentano uno scarso tenore in 13C in quanto sintetizzati durante ere geologiche (il carbonifero) in cui le piante erano tutte C3 per cui il loro consumo  sarebbe secondo molti all’origine del progressivo calo dei livelli di 13C nella CO2 atmosferica, anche se non mancano opinioni contrarie fra cui quella di Roy Spencer.

Da notare invece che le C4 (selezionatesi durante il pleistocene e cioè negli ultimi 2 milioni di anni) fissano la CO2 con l’enzima FosfoEnolPiruvato Carbossilasi (per gli amici PEP_C)  il quale non è poco selettivo rispetto a 13C e dunque il loro effetto sui livelli di 13C nella CO2 atmosferica è poco rilevante. Questo fatto non è trascurabile poiché le C4 sono molto più produttive delle C3 ed hanno il grave limite di una minor resistenza al freddo, per cui sono molto presenti ai tropici. Inoltre la loro estensione sta progressivamente incrementandosi per azione dell’uomo, che ne privilegia la coltivazione stante la loro altissima produttività (es. fra le C4 si annoverano la canna da zucchero, il mais e il sorgo).

Le piante C4 rappresentano oggi all’incirca il 5% delle specie di piante superiori (il 2% o meno della flora italiana) ed inoltre hanno scarsissima presenza di piante arboree. Ciò fa sì che il ruolo delle piante C3 sia oggi dominante in termini di biomassa prodotta. Tuttavia le piante C4 si rivelano assai efficienti nel processo fotosintetico tant’è che stime recenti le accreditano del 30% (Berry, 1994) ovvero del 18% (Ehleringer et al., 1997, 2002) dell’intera biomassa vegetale del pianeta. Si noti altresì che la maggiore efficienza delle C4 le rende più competitive rispetto alle C3 nei periodi glaciali, quando il livello di CO2 atmosferica scende sotto le 200 ppmv e la vita per le piante si fa molto dura, al limite della “morte per fame”.

Complicato vero? Ma ancora più complicato è ragionare sull’isotopo 18O. La CO2 che attraverso gli stomi entra nelle foglie per essere ‘acchiappata’ da PEP_C o RUBISCO deve solubilizzarsi nell’acqua che circonda le cellule interne alle foglie. Tale acqua è esposta ad un’intensa evaporazione nella quale l’acqua con 16O passa allo stato vapore più facilmente rispetto all’acqua con 18O, più pesante. In soldoni siamo di fronte ad acqua arricchita in 18O.  La CO2 che in essa si solubilizza scambia atomi di ossigeno con l’acqua e si ottiene così una CO2 arricchita in 18O. Tale CO2 solo in parte viene coinvolta nel processo di fotosintesi (nelle C3 circa il 43%, nelle C4 circa il 60%), per cui la CO2 ‘pesante’ in eccesso viene riemessa dagli stomi andando ad incrementare il livello atmosferico di 18O nella CO2, mentre impoverita in 18O risulterà la sostanza organica prodotta (e che viene poi gradualmente rimessa in circolo tramite il processo di respirazione). Come nel caso del’isotopo 13C, anche per 18O le piante C4 risultano meno selettive rispetto alle C3 e dunque tendono a smorzare la ciclicità estate-inverno.

La morale generale è dunque che il il tenore atmosferico di 18O nella CO2 è condizionato da due processi divergenti (la fotosintesi da una lato e la respirazione delle piante dall’altro) che insieme danno luogo alla produttività primaria netta dei vegetali (Net Primary Productivity o NPP).

 

Figura 1 – Andamento dei rapporti isotopici 18O/16O e 13C/12C dell’atmosfera. Dati rilevati a La Jolla Pier (California) – fonte SCRIPPS (http://scrippsco2.ucsd.edu).

Partendo da tali presupposti un lavoro apparso in questi giorni  su Nature a firma di Lisa Welp et al. apporta alcuni ulteriori tasselli alla nostra conoscenza o, per dirla con il professor Christy, al “nostro attuale livello di ignoranza” riguardo alla produttività degli ecosistemi ed al tempo di permanenza di CO2 in atmosfera.

Interannual variability in the oxygen isotopes of atmospheric CO2 driven by El Niño

In particolare il lavoro prende le mosse dal misterioso comportamento del rapporto isotopico 18O/16O in atmosfera il quale rifugge dalla regolarità dell’andamento del rapporto 13C/12C (improntato ad un trend di crescita oltremodo regolare e che ricalca per molti versi quello della CO2) per manifestare un profilo temporale è più o meno stazionario con oscillazioni positive negli anni di El Niño e una variabilità all’interno dell’anno che porta a massimi nell’estate boreale. Gli autori in sostanza affermano che una volta ogni 1-2 anni (più precisamente ogni 0.4-0.8 anni nell’emisfero Nord e ogni 0.7 – 1.4 anni in quello sud, ovvero ogni 0.9-1.7 anni se si considera anche la CO2  stratosferica) tutta la CO2 presente nell’atmosfera fa una specie di tagliando scendendo al suolo ove scambia molecole di ossigeno con l’acqua venendo marcata dall’acqua stessa. Se il “tagliando” ha luogo negli oceani l’effetto sul tenore in 18O della CO2 atmosferica è alquanto ridotto mentre se ha luogo nelle piante l’effetto è di gran lunga più accentuato.

Per cercare di descrivere il fenomeno Welp et al. hanno scritto un modello empirico che, tenendo conto in modo alquanto sommario dei processi sopra descritti ed introducendo il ruolo di El Niño, descrive in comportamento di 18O in atmosfera. Dal modello si evince fra l’altro una cosa che per chi è abituato a considerare una produttività ecosistemica lorda (Gross Primary Production o GPP) di 120 Petagrammi1 (Pg) l’anno di Carbonio è a prima vista incredibile e cioè che la GPP sarebbe in realtà di 150-175 Petagrammi, valori questi che si rendono necessari per giustificare le fluttuazioni dei suoi livelli di 18O in atmosfera in occasione degli episodi di El Niño e dunque l’elevato numero di ‘tagliandi’ cui è soggetta CO2.

Concludiamo con le seguenti note critiche:

  1. La relazione fra livelli di 18O e ENSO testimonia una volta di più le strettissime e complesse interrelazioni fra atmosfera e biosfera, fra fisico e biologico. Al riguardo in un contesto di accrescimento della biosfera per incremento della concentrazione di CO2, una stima di utilizzo più massiccio della CO2 da parte delle piante, conduce anche verso un sistema più efficiente. Sicché questo potrebbe essere uno dei (chissà quanti) meccanismi di autoregolazione di cui il sistema dispone e di cui l’ipotesi di eventuale ‘disfacimento climatico’ certamente non tiene conto.
  2. In condizioni di incertezza tanto palese (la GPP sarà 120 o 175?)  sbagliare a muovere una pedina significa assumersi il rischio di perturbare in modo permanente il ciclo del carbonio, provocando la morte per fame di miliardi di persone. Quando il livello di incertezza è tanto elevato risulta poco saggio avvallare a cuor leggero soluzioni geo-ingegneristiche al ‘problema’ CO2;
  3. Il lavoro di Welp et al. evidenzia da un lato l’elevata capacità di assorbimento da parte delle piante  e dall’altro sottolinea il fatto che il tempo di residenza di CO2 in atmosfera è inferiore ai 2 anni, il che  fa si che la stessa possa molto di frequente venire in contatto con le piante. Tutto ciò  dovrebbe spingere sempre più a vedere nei vegetali la soluzione al ‘problema’ costituito dall’incremento dei livelli di CO2 atmosferici; guardando l’immagine da remoto della NDVI (un indice che esprime la quantità di biomassa vegetale) di figura 2 colpisce la vastità delle aree con bassissima presenza di vegetazione in attiva crescita (deserti, steppe) e torna in mente la frase di Freeman Dyson (2007) secondo cui “Per fermare la crescita della CO2 in atmosfera occorre solo far crescere la biomassa […] il problema della CO2 in atmosfera è un problema di gestione del territorio, non un problema meteorologico.” E se Dyson avesse ragione?
  4. Il tempo di residenza della CO2 in atmosfera è una variabile importante ai fini della determinazione degli scenari di emissione ed è quindi fondamentale anche per le proiezioni climatiche. Se si apprende che la quantità e la velocità con cui il sistema biosfera/atmosfera si scambia la CO2 è molto diversa da quanto ritenuto, è presumibile che debba cambiare anche l’approccio agli scenari di emissione e quindi al futuro del clima, con buona pace di quanti su quegli scenari e quel futuro evidentemente tutt’altro che acquisito vorrebbe basare le policy dei prossimi cent’anni.
 

Figura 2 – Biomassa vegetale globale espressa come NDVI (Normalized Difference Vegetation Index). Dati relativi al mese di novembre 2007, ottenuti dal Moderate Resolution Imaging Spectroradiometer (MODIS) installato sul satellite Terra della NASA (http://earthobservatory.nasa.gov/IOTD/view.php?id=8622).


BIBLIOGRAFIA

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  1. 1 Petagrammo (Pg) è pari a 10 15 grammi ed a 1 gigatonnellata (Gt) []
Published inAttualitàClimatologia

Un commento

  1. Mattia Trenta

    Lavoro molto interessante, soprattutto per chi, come me, è biologo e ricorda bene la cautela del proprio docente di botanica riguardo al catastrofismo climatico: secondo lui il trend derivato da un modello non può prevedere cosa succederà in realtà con una ragionevole sicurezza, perché le variabili in gioco sono molte e poco note. Vorrei aggiungere l’osservazione che spesso si trascura il peso delle masse oceaniche e della fotosintesi attuata dal complesso del fitoplancton (stimata molto grossolanamente tra il 40% e il 60% del totale da vari testi di ecologia ormai “classici”). Per tacere del ciclo dei carbonati nelle stesse masse oceaniche, che vede coinvolti organismi vegetali e animali che fissano la CO2 come carbonato di calcio. Sapreste indicarmi lavori che abbiano considerato questi due aspetti? Credo sarebbe molto interessante se venissero pubblicati sul sito.

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