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Malaria e global warming

di Luigi Mariani e Gianni Gilioli

Un giornale radio RAI ha trasmesso nei giorni scorso un’intervista di maniera in tema di GW che verteva  sul rapporto tra Gobal Warming (GW) e salute umana. L’intervistato, alla richiesta del giornalista di fare un esempio su fattori che producessero aumenti di mortalità, ha portato l’esempio della malaria che all’aumentare delle temperature nella fascia intertropicale (fra 30°N e 30°S) dovrebbe manifestare una recrudescenza colpendo un numero sempre maggiore di persone.

Tale affermazione lascia perplessi per tre ordini di motivi:

  1. Nella fascia intertropicale le temperature non stanno affatto aumentando in quanto il GW è affare delle latitudini medio-alte dell’emisfero nord.
  2. La malaria è anzitutto un problema di politica sanitaria e di igiene pubblica (Reiter, 2009), nel senso che la malattia in assenza di politiche di prevenzione sarebbe endemica (oggi come nel medioevo e nella Piccola Era Glaciale – PEG) anche in Europa, dall’Italia alla Scandinavia. Basti pensare che in Italia questa malattia, provocata da protozoi del genere Plasmodium trasmessi da zanzare del genere Anopheles, fu debellata solo negli anni 50 del 20° secolo, o che, sempre a titolo esemplificativo, Oliver Cromwell morì di malaria a Londra in piena PEG, nel 1658 (Lamb, 1966) e che la malaria fu causa di morte in gran Bretagna e Svezia fino almeno alla metà del 19° secolo (Reiter, 2009).
  3. Anopheles gambiae, uno di principali vettori dei protozoi malarici nella fascia intertropicale, è uno dei fattori chiave della epidemiologia del sistema malaria per la componente sensibile alle temperature. La dinamica di popolazione di questo vettore è sensibile alla temperatura ed un possibile aumento delle temperature potrebbe causare da un lato la colonizzazione di nuovi areali (rendendo ad esempio potenzialmente malarica Nairobi che oggi non lo è) e dall’altro il regresso della malattia dalle zone più calde che già oggi sono quasi ai limiti termici superiori per lo sviluppo dell’insetto. Pertanto a fronte di possibili scenari di GW il bilancio dinamico fra zone di espansione e zone di contrazione è tutt’altro che semplice da prevedere.

Su quest’ultimo punto gli  autori della presente hanno avuto modo di pubblicare su una accreditata rivista internazionale un lavoro sul rapporto tra variazioni di temperatura e dinamica di popolazione di An. gambiae. Nell’articolo si utilizza un innovativo modello di simulazione di tipo meccanicistico che tiene conto della influenza della temperatura sui diversi aspetti della biologica del vettore in quattro siti del Kenya (Nyabondo -1532 m slm, Nairobi -1778 m slm, Kibwezi -904 m slm e Malindi -5 m slm) che come mostra la cartina sono posti lungo un ideale transetto che è posto fra l’Oceano indiano e il lago Vittoria e che rende ragione di alcuni dei principali areali climatici kenioti:  l’area circostante il lago Vittoria a  clima equatoriale con influsso lacustre per Nyabondo, l’area a clima tropicale di altopiano per Nairobi, l’area a clima semiarido o arido per Kibwezi e l’area  a clima costiero equatoriale  per Malindi).

Figura – I 4 siti oggetto di indagine (1=Nyabondo, 2=Nairobi, 3=Kibwezi e 4=Malindi)

L’approccio da noi seguito consente di superare alcuni limiti insiti nel tradizionale approccio empirico, quello cioè che stabilisce relazioni statistiche fra la popolazione di zanzare ed una o più variabili meteorologiche ed ambientali (temperatura, pioggia, ecc.).

Figura – Numero medio di adulti atteso per kmq e per anno (ordinata) in relazione alla temperatura media dell’aria (in ascissa) di un dato sito. Ogni punto rappresenta una soluzione data dal modello ottenuta in specifiche condizioni termo-pluviometriche. Le due curve in rosso rappresentano le linee di inviluppo di tutte le soluzioni fornite dal modello. Si osservi che la temperatura che massimizza il numero di individui adulti per kmq ottimale si colloca intorno ai 23-26°C mentre per temperature inferiori o superiori all’optimum il numero di individui decresce rapidamente.

La speranza per il futuro è quella di poter estendere l’applicazione del modello passando da pochi siti fin qui indagati all’intero continente africano o addirittura all’intero areale globale di Anopheles gambiae.

L’articolo è disponibile gratuitamente al sito del Malaria Journal e qui di seguito se ne riproduce l’abstract per comodità del lettore.

Bibliografia

  • Gilioli G., Mariani L., 2011. Sensitivity of Anopheles gambiae population dynamics to meteo-hydrological variability: a mechanistic approach, Malaria Journal 2011, 10:294 http://www.malariajournal.com/content/10/1/294)
  • Lamb H.H., 1966. The changing climate, Methuen, London, 236 pp.
  • Reiter P., 2008. Global warming and malaria: knowing the horse before hitching the cart, Malaria Journal 2008, 7(Suppl 1):S3 doi:10.1186/1475-2875-7-S1-S3 (http://www.malariajournal.com/content/7/S1/S3)

 

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Abstract

Background: Mechanistic models play an important role in many biological disciplines, and they can effectively contribute to evaluate the spatial-temporal evolution of mosquito populations, in the light of the increasing knowledge of the crucial driving role on vector dynamics played by meteo-climatic features as well as other physical-biological characteristics of the landscape.

Methods: In malaria eco-epidemiology landscape components (atmosphere, water bodies, land use) interact with the epidemiological system (interacting populations of vector, human, and parasite). In the background of the ecoepidemiological approach, a mosquito population model is here proposed to evaluate the sensitivity of An. gambiae s.s. population to some peculiar thermal-pluviometric scenarios. The scenarios are obtained perturbing meteorological time series data referred to four Kenyan sites (Nairobi, Nyabondo, Kibwesi, and Malindi) representing four different eco-epidemiological settings.

Results: Simulations highlight a strong dependence of mosquito population abundance on temperature variation with well-defined site-specific patterns. The upper extreme of thermal perturbation interval (+ 3°C) gives rise to an increase in adult population abundance at Nairobi (+111%) and Nyabondo (+61%), and a decrease at Kibwezi (-2%) and Malindi (-36%). At the lower extreme perturbation (-3°C) is observed a reduction in both immature and adult mosquito population in three sites (Nairobi -74%, Nyabondo -66%, Kibwezi -39%), and an increase in Malindi (+11%). A coherent non-linear pattern of population variation emerges. The maximum rate of variation is +30% population abundance for +1°C of temperature change, but also almost null and negative values are obtained. Mosquitoes are less sensitive to rainfall and both adults and immature populations display a positive quasi-linear response pattern to rainfall variation.

Conclusions: The non-linear temperature-dependent response is in agreement with the non-linear patterns of temperature-response of the basic bio-demographic processes. This non-linearity makes the hypothesized biological amplification of temperature effects valid only for a limited range of temperatures. As a consequence, no simple extrapolations can be done linking temperature rise with increase in mosquito distribution and abundance, and projections of An. gambiae s.s. populations should be produced only in the light of the local meteo-climatic features as well as other physical and biological characteristics of the landscape.

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Published inAttualitàClimatologia

12 Comments

  1. Luigi Mariani

    Caro Fabio,
    grazie per la documentatissima analisi.

    La carta da Torelli è impressionante perchè ci riporta ad un passato non certo remoto e che era fatto di malaria e pellagra. tale passato viene oggi nascosto e negato perchè non politicamente corretto -> in proposito si veda l’approccio dei pubblicitari alla Mulino Bianco ed il vagheggiamento dei tempi andati quando i cibi erano buoni e genuini e la gente viveva felice e ben pascuita…

    Putroppo Gianni Gilioli, l’altro autore di questo post, è pieno di lavoro per cui sono da solo a rispondere (e magari lui potrebbe portare un contributo molto più efficace rispetto al mio…).

    In particolare rispetto all’affaire DDT (Dicloro-Difenil-Tricloroetano) confesso di non essere un esperto. Ricordo che si tratta di un insetticida clororganico a tossicità acuta bassa per l’uomo ma con elevata persistenza (la quale deriva dai due atomi di cloro persenti in ogni molecola, che la rendono poco appetibile ai micro-organismi); da ciò la possibilità di problemi quando si infila in una catena alimentare.

    Non so nemmeno dirti se oggi (dopo tantissimi anni di ricerca -> il DDT è una molecola vecchissima, essendo stata sintetizzata negli anni 30) esistano sul mercato molecole a basso costo in grado di avere effetti analoghi in termini di lotta antimalarica ed al contempo di presentare una minor persistenza nell’ecosistema e di costare poco. Per dire ciò sarebbe utilissimo il parere di un esperto di fitofarmaci. Chissà che dalla rete non possa emergerne uno….

  2. Fabio Spina

    Dimenticavo! Gli esperti dimenticano sempre di spiegare come mai l’Italia/Europa era piena di zanzare e malaria proprio durante la PEG…allora il freddo e caldo non lo sentivano?

  3. Fabio Spina

    Il brutto è che la relazione AGW e vita zanzare è entrato anche nel bel contributo http://media.accademiaxl.it/pubblicazioni/malaria/indice.htm al capitolo http://media.accademiaxl.it/pubblicazioni/malaria/pagine/cap5_2.htm .
    Per ricordarcii come era l’Italia basta rivedere la carta del 1882 http://89.97.218.226/web1/pontina/biologia/p_34.htm e lo studio recente http://www.archivi.beniculturali.it/DGA-free/Strumenti/Strumenti_CLVI_testo.pdf ….magari qualcuno capirebbe perché nella Maremma toscana le alluvioni di decenni/secoli fa facevano meno vittime e danni.
    Per quanto riguarda il DDT l’ambientalismo recente nasce proprio da lì con il libro “Primavera Silenziosa” http://www.fondazionemicheletti.it/nebbia/sm-3409-primavera-silenziosa-50-anni-fa-2012/ , http://www.agls.uidaho.edu/etox/lectures/lecture02/Slides_SILENTSPRING.pdf , http://www.repubblica.it/ambiente/2012/09/26/news/primavera_silenziosa-43323705/
    sull’impatto della messa al bando dell’uso in Africa del DDT si può leggere molto, ad esempio da “Il Riformista”, 18 febbraio 2005:

    L’Ue vieta il Ddt all’Uganda: a morire di malaria son loro

    «E’ inconcepibile, incosciente e riprovevole che l’Unione europea metta la sua ostilità ai pesticidi al di sopra della vita di madri e bambini innocenti»: lo afferma Cyril Boynes del Congress of racial equality (Core), un’organizzazione che si batte per favorire lo sviluppo dell’Africa. A destarne la rabbia è una lettera che Guy Rijcken, incaricato d’affari della Commissione europea, ha inviato ai ministri della salute, dell’agricoltura e del commercio dell’Uganda, invitandoli caldamente a non impiegare il Ddt nell’ambito della lotta alla malaria.

    «Pur riconoscendo la necessità di controllare questa malattia – ha scritto Rijcken – siamo preoccupati dall’impatto su larga scala che l’uso del Ddt avrebbe sulle esportazioni di cibi prodotti in Uganda verso l’Unione europea». Infatti, Bruxelles ha stabilito dei livelli massimi per i residui di Ddt contenuti nei generi alimentari: un impiego dell’insetticida potrebbe farli salire oltre la soglia ammessa dalla normativa comunitaria.

    Questo messaggio, a metà tra il consiglio e la minaccia, fa perno sulla convinzione che «vi sono studi che indicano che la metà del Ddt può rimanere nel suolo per 10 o 15 anni dopo l’applicazione. E’ stato rintracciato nel latte umano, e ha effetti tossici su uccelli e pesci. Quindi, non v’è alcun dubbio che il Ddt possa contaminare la catena alimentare». Invece, i dubbi ci sono, eccome. Lo ha riconosciuto, ultimo in ordine di tempo ma di primissima importanza, il New York Times, in un editoriale firmato da Nicholas Kristof l’8 gennaio scorso: «Sono sconvolto dal fatto che stiamo pompando centinaia di milioni di dollari in aiuti internazionali, ma lo tsunami è stato solo un battito di ciglia nei termini della mortalità nel Terzo Mondo. Le zanzare uccidono venti volte più persone ogni anno, e nella lunga guerra tra l’uomo e la zanzara sembra che quest’ultima la stia spuntando. Una ragione è che gli Usa e altri Paesi ricchi, avversando l’uso del Ddt, stanno dalla sua parte».

    Ma davvero il Ddt può così facilmente salvare delle vite? I numeri dicono di sì. Tutti i Paesi che hanno adottato quest’insetticida hanno virtualmente debellato un morbo violentissimo. Un dato su tutti: nello Sri Lanka i casi di malaria erano 3 milioni nel 1946, 7.300 dieci anni dopo e appena 29 nel 1975. Il Ddt è un avversario temibile della zanzara anofele, e un alleato potente dei poveri: costa pochissimo, e se l’ostracismo occidentale cessasse potrebbe costare ancora meno (oggi è prodotto solo più da un paio di imprese para-pubbliche in Cina e India).

    Intanto, la malaria colpisce oggi quasi 300 milioni di persone, uccidendone tra i 2 e i 3 milioni ogni anno. I suoi effetti non si fermano qui: malati e convalescenti non riescono a essere produttivi, a generare ricchezza, e così la povertà si acuisce. Questo circolo perverso ha costi impressionanti: secondo i calcoli di John Luke Gallup e Jeffrey Sachs, se la malaria fosse stata debellata nel 1965, il Pil africano sarebbe oggi superiore del 40 per cento e gli africani potrebbero curarsi meglio, difendersi più efficacemente e mettere in atto quelle misure igieniche che sono l’unica vera soluzione di lungo termine per sradicare la malaria. Neppure le principali organizzazioni ecologiste, da sempre ostili al Ddt, possono tapparsi gli occhi di fronte a un dolore tanto profondo. Kristof riferisce che Richard Liroff (Wwf) non ha obiezioni di principio all’uso del Ddt nell’ambito delle strategie anti-malaria: «Il Sudafrica ha fatto bene a usare il Ddt. Se le alternative non funzionano, come accadde in Sudafrica, ragazzi, bisogna usarlo. In Sudafrica ha prevenuto decine di migliaia di casi di malaria e salvato innumerevoli vite». Anche Rick Hind di Greenpeace si è mostrato pragmatico e ragionevole: pur mantenendo serie perplessità, «se non c’è altro da fare e così si possono salvare vite, siamo tutti per il Ddt. Nessuno è dogmatico su questo».

    Perché, allora, le Nazioni unite e l’Unione europea non trovano nulla di meglio da fare che frenare e spingere nella direzione contraria? Per Kristof, «l’ostacolo principale sembra essere l’eccesso di cautela e inerzia burocratica». Nel caso dell’Ue, forse, s’aggiunge un pizzico di protezionismo: che gli africani producano poco perché malati o che le loro merci si fermino alla frontiera, poco cambia. Le imprese europee godono dei benefici di un mercato chiuso e la burocrazia non ha la coscienza sporca. I timbri son tutti a posto, l’ecologismo è salvo e la coscienza netta anche quando gli si devono mettere in conto migliaia di morti. Tanto, se africani, sono solo statistiche.

  4. Alvaro de Orleans-B

    La gestione della malaria è stata oggetto di un “fallimento decisionale collettivo” che spero fortemente che non venga ripetuta nel caso della CO2.

    Mi ricordo quando una sera, nei primi anni del ’70, mio padre, normalmente allegro e battagliero, tornò a casa triste e scuro in volto.

    A cena ci disse che il DDT sarebbe stato bandito e che il dipartimento di ricerca dell’azienda che lo produceva stimava che tale decisione avrebbe impedito una riduzione del numero di morti per malaria, in maggior parte bambini ed adolescenti, attorno al milione ogni anno.

    Ci spiegò che l’uso spregiudicato del DDT in campo agricolo, in quantità molto superiori a quelle necessarie per l’eradicazione della malaria, stava causando una accumulazione misurabile del DDT nell’ambiente e che la soluzione logica sarebbe stata quella di regolarne l’eccessivo uso agricolo piuttosto che di bandirlo del tutto e condannare tanta gente a morire.

    I fatti, decenni dopo, gli diedero tragicamente ragione, ma la propensione a regolamentare ancor prima di aver seriamente valutato i pro e i contro sembra invariata.

    In questo caso il problema non sta nello studio soprastante, di notevole interesse come ricerca sulla relazione tra clima e malaria, ma nella tentazione di utilizzarne i risultati per debellare l’epidemia “correggendo” il clima.

    Infatti, la successiva riflessione giornalistica “curiamo la malaria migliorando il clima” rappresenta, permettemi lo sfogo, un vero “schiaffo alla miseria” nei confronti di persone che stanno morendo oggi e domani mentre la divulgazione scientifica imperante gli prospetta una soluzione — ammesso che funzioni — che potrebbe avere un effetto misurabile fra mezzo secolo o giù di lì.

    Insomma, partiamo lancia in resta, prendiamo decisioni affrettate ma di enorme impatto sulla vita e la morte di moltissime persone, in certi casi facciamo letteralmente un macello, ma poi non solo evitiamo accuratamente di guardare indietro ed imparare, ma ci apprestiamo a procedere di nuovo con la stessa frivola leggerezza, come se niente fosse.

    Che possiamo fare?

    • Luigi Mariani

      Certo, signor de Orleans, lei tocca un tema che ha sempre grande spazio nelle nostre riflessioni su CM e che per me è uno dei principali motivi di sconforto: si tratta delle decisioni assunte in base a slogan e dunque:

      – senza la men che minima valutazione preventiva dei costi e dei benefici ad esse connesse

      – senza poi riandare a verificare nella realtà i vantaggi e gli svantaggi che dalle decisioni assunte sono derivati.

      Un tale agire è negativo per una serie di motivi, di cui uno mi sta particolarmente a cuore e cioè quello per cui i modi d’approccio irrazionali ai problemi (pensiamo al caso emblematico delle domeniche a piedi o a quello delle fonti energetiche o …) sono trasferiti nella nostra cultura e qui permangono generando una vera e propria Hiroshima culturale ai danni della razionalità.

      In proposito mi viene spesso in mente la frase del cardinale Wolsey rivolta agli educatori: “state ben attenti a quel che mettete in quelle teste perché poi sarà ben difficile levarlo”. In sostanza quel che viene meno qando si decide in base a slogan è anche la funzione educativa dello Stato e delle Istituzioni nei confronti dei cittadini.

      Che fare a fronte di ciò? Putroppo il peso di tutte queste decisioni (grandi o piccole che siano) assunte nei decenni in base a preconcetti si accumula, incrostando i nostri sistemi in modo sempre più intollerabile ed in sostanza irrigidendoli rispetto all’innovazione.

      E qui chiudo perché divento triste come suo padre in quella sera dei prima anni 70…

  5. Giandomenico

    La malaria sostanzialmente debellata dopo la seconda guerra mondiale ha ripreso vigore per l’eliminazione dell’unico insetticida veramente efficace: il DDT. All’insegna che nei poveri pinguini se ne erano trovate tracce. Così per salvare i pinguini si sono lasciate morire milioni di persone.

    • Pensavo lo stesso anch’io fino a poco tempo fa. In realtà, almeno per quanto si può trovare in rete, il DDT continua ad essere usato, limitatamente, in alcuni paesi a rischio malaria. Probabilmente non quanto dovrebbe. Diciamo che la cosa non è bianco e nera. C’è una serie di articoli di riferimento nella bibliografia di Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/DDT_(insetticida)#Sulla_malaria_e_il_DDT

    • Luigi Mariani

      Mi pare fossero gli orsi bianchi, non i pinguini…

      Il DDT è stata una molecola importantissima per la lotta alla malaria e negli anni 50 ha dato un contributo inestimabile all’eradicazione della malaria dal nostro Paese e più in generale dall’Europa.

      A tale proposito da un lato ricordo quanto diceva il mio docente di entomologia, il professor Minos Martelli, che a quella molecola era molto legato e dall’altro riporto quanto scrive Reiter nel suo “Global warming and malaria: knowing the horse before hitching the cart”:

      “L’avvento del DDT rivoluzionò il controllo della malaria. Economiche, sicure ed efficaci applicazioni dell’insetticida furono mirate ai luoghi in cui la maggior parte delle infezioni si verificavano (le case).
      Gli sforzi iniziali in Italia, Cipro e la Grecia ebbero un tale successo da portare in seguito ad eradicare la malattia da tutta Europa. L’intero continente fu finalmente dichiarato indenne da malaria endemica nel 1975 ed uno degli ultimi paesi colpiti fu l’Olanda.”

      Questa considrazione mi sembra importante in un mondo in cui l’odio per la chimica appare dilagante sia sui media sia tra la gente.

      Circa l’ultima sua considerazione sui “milioni di morti” non ho francamente dati quantitativi per poterla confermare o smentire.
      Tuttavia voglio ancora citare le conclusioni di Reiter perchè mi paiono per molti aspetti illuminanti a tale riguardo:

      “La malaria non è limitata dal clima sia nella maggior parte delle regioni temperate sia ai tropici. Futuri cambiamenti climatici possono alterare la prevalenza e l’incidenza della malattia, ma l’ossessivo richiamo al “riscaldamento globale” come fattore dominante è insostenibile in qanto i determinanti principali sono costituiti dai cambiamenti ecologici e sociali, dalla politica e dall’economia.
      Vi è oggi la necessità di eseguire campagne antimalariche basate su strumenti di controllo efficaci e a buon mercato come quelle attuate durante l’era del DDT. Una ricerca creativa e organizzata di nuove strategie basate sulle nuove tecnologie è urgente a prescindere dai futuri cambiamenti climatici.”

    • davideimola

      non è certo peri poveri pinguini che si è abbandonato l’uso del DDT,ma per
      favorire le lobbies chimiche che hanno proposto prodotti alternativi poi
      risultati inefficaci.Vi prego quindi di non scaricare sempre le colpe delle
      umane miserie verso associazioni ambientaliste e/o animaliste.

    • Luigi Mariani

      Sono d’accordo con lei, spesso i problemi nascono dalla concorrenza fra ditte.

      Tuttavia la prego anche di osservare come le organizzazioni ambientaliste si prestino a fare da “mosche cocchiere” (per usare un termine “di sinistra” un pò desueto ma di efficacia unica) rispetto ad interessi molti più grandi di loro.

  6. Gianni

    A me risulta che la più mortale epidemia di malaria storicamente documentata è quella verificatasi in Siberia negli anni ’20 del 1900. Ho letto che provoco’ 13 milioni di infettati e centinaia di migliaia di morti. Ma voi ne saprete senz’alro di più.

    • Luigi Mariani

      Caro Gianni,
      i tuoi dati sono confermati ad esempio da Reiter, il quale nel suo “Global warming and malaria: knowing the horse before hitching the cart” (citato nella nostra bibliografia -> ne cosiglio la lettura) scrive che secondo le statistiche ufficiali, in Unione Sovietica fra il 1923 ed il 1925 si ebbero 16.5 milioni di casi, di cui non meno di 600 mila mortali, e le infezioni si spinsero fino al porto artico di Arkhangelsk (61° 30′ N).

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