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Proiezioni climatiche, esercizio di stile o pubblica utilità?

Non credo ci sia bisogno di puntualizzare che i nostri non sono tempi di vacche grasse, anzi, a pensarci bene non lo erano neanche i tempi dei nostri padri. Allora le vacche erano però mostrate con la lente di ingrandimento e ora ne paghiamo le spese. E’ però anche innegabile che ci siano state in un modo o nell’altro molte più risorse disponibili, almeno sulla carta, per tentare policy azzardate o per inseguire autentiche utopie. Tempi in cui, per esempio e si parla di appena cinque anni fa, si poteva immaginare di porre in essere un processo di decarbonizzazione dei nostri sistemi economici e produttivi che maerciasse ad una velocità improponibile.

 

Del resto, si diceva, le proiezioni parlano chiaro, non solo per il lungo periodo ma anche per quello medio e breve. I danni inferti al sistema pianeta, in primis quelli climatici – e già qui c’è stato un inopportuno sorpasso a danno di quelli ambientali – sono tali da rendere indispensabile un’azione immediata e corale. Giù le emissioni dunque.

 

 

Del lungo periodo non sappiamo, diciamo che si può continuare ad aver fiducia nelle proiezioni, che sono il meglio che abbiamo dopo le statistiche climatologiche. Ma nel breve e nel medio periodo purtroppo si sa già che quelle proiezioni non hanno funzionato. Certo, ora che da quindici anni circa la variazione della temperatura media superficiale ha perso significatività statistica, ci dicono che queste fasi di rallentamento del riscaldamento sono possibili in un contesto di riscaldamento di lungo periodo, ma è pur vero che 5/10 anni fa nessuno, ma proprio nessuno aveva “previsto” (e quindi provveduto ad avvertire) che questa fase di stasi sarebbe arrivata. Per il momento, quindi, trattasi di una spiegazione rabberciata, un salvataggio in calcio d’angolo.

 

Ma non tutti amano il calcio, per cui sebbene a fatica, un numero sempre maggiore di esperti del settore si pone giustamente la domanda se effettivamente non ci sia qualcosa di sbagliato nell’approccio delle simulazioni. E qualcuno fa anche i conti.

 

Ad esempio, con riferimento al periodo decadale, che poi è quello per il quale ha senso e può avere praticità immaginare delle azioni di correzione o delle contromisure, ci sono delle dinamiche climatiche che hanno un peso sostanziale. Sono le oscillazioni appunto decadali o multidecadali delle temperature di superficie degli oceani Pacifico (PDO) e Atlantico (AMO), che interagendo ovviamente con l’atmosfera dettano letteralmente legge su eventi come ad esempio le siccità prolungate e, quindi, anche sulla disponibilità di risorse idriche. Il cielo sa se sarebbe utile sapere con 1, 3, 5 o addirittura 10 anni di anticipo quale potrebbe essere l’impatto delle condizioni climatiche sulla produzione agricola, così, tanto per fare un esempio.

 

Ebbene, è appena uscito un paper su Climate Dynamics che analizza proprio l’efficacia dei modelli climatici nel riprodurre fedelmente queste oscillazioni. Risultato, non proprio da standing ovation.

 

The Atlantic Multidecadal Oscillation in twentieth century climate simulations: uneven progress from CMIP3 to CMIP5

 

Un estratto breve ma significativo:

 

Variability of the AMO in the 10–20/70–80 year ranges is overestimated/underestimated in the models and the variability in the 10–20 year range increases in three of the models from the CMIP3 to the CMIP5 versions.

 

Per i non addetti ai lavori il CMIP3 e il CMIP5 sono i progetti di comparazione dei modelli climatici impiegati rispettivamente per la redazione del 4° Report IPCC uscito nel 2007 e del 5°, che invece uscirà nei prossimi mesi. Sicchè, non solo le simulazioni falliscono nella definizione di modalità climatiche estremamente significative per il breve-medio periodo (ricordiamo che il 5° Report IPCC si pone tra le altre cose proprio l’obbiettivo di essere focalizzato sulla breve-media scala temporale), ma tra una generazione e l’altra di modelli non sono stati fatti progressi significativi. Almeno non su questi aspetti.

 

Del resto, appena qualche giorno fa, avevamo avuto notizia anche di un’altra pubblicazione, più che uno studio un editoriale a firma di Hans Von Storch, nella quale si sottolinea come il gap tra le osservazioni e le proiezioni modellistiche stia inesorabilmente aumentando con il protrarsi del periodo di stasi (o inversione di tendenza?) delle temperature medie superficiali globali.

 

Can climate models explain the recent stagnation in global warming?

 

La risposta è semplice: attualmente no. Perché, spiega Von Storch a) i modelli forse sottostimano la variabilità naturale (leggi sopra), b) i modelli non prendono in considerazione forcing con ruolo forse significativo (il sole, per esempio) e, c) i modelli sovrastimano la sensibilità climatica, cioè la reazione del sistema al forcing antropico da CO2, cioè ancora falliscono nell’individuare eventuali feedback negativi in grado di contrastare quelli positivi a cui si è presumibilmente attribuita troppa importanza.

 

Sorge quindi una domanda, che non deve comunque intaccare lo sforzo intellettuale necessario al miglioramento dei sistemi di simulazione: allo stato attuale questi strumenti hanno una qualche utilità pratica ai fini di policy? Si attendono proposte e/o risposte.

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Published inAttualità

2 Comments

  1. I modelli funzionano sempre, il problema sono le persone che li “tunano” a loro piacimento! I modelli hanno solo valore statistico, ma soprattutto valgono per le condizioni che gli vengono imposte. Non sono un modellista, ma lavoro ed ho lavorato con alcuni di loro e vi posso assicurare che un modello alla fine dice sempre quello che vuoi sentirti dire 🙂

  2. Mario

    E vabbè, ‘sti “modelli” c’azzeccano poco, però a quanto pare c’è parecchia gente che con i “modelli” ci campa.
    Almeno in questo hanno una loro utilità.
    Saluti 🙂

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