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Caccia al global warming, ultima speranza i vulcani

Informazione da ripetere fino alla noia: la temperatura media superficiale del pianeta non aumenta più da oltre quindici anni, anzi, quasi venti; nel frattempo l’imputato numero uno per l’aumento che la stessa temperatura ha subito un aumento nelle ultime decadi del secolo scorso, le emissioni di CO2 hanno invece continuato a crescere, quindi ad esercitare il loro forcing nominale sul sistema. I modelli climatici che basano interamente su questo forcing le dinamiche del clima continuano quindi ad allontanarsi dalla realtà. Dal momento che una parte consistente della comunità scientifica ha più fede in quei modelli che nella realtà, si continua a cercare di capire perché questo sia accaduto, cioè dove possa essere finita quella parte di riscaldamento che inevitabilmente (secondo i modelli) avrebbe dovuto palesarsi.

 

Non una parte banale. Per arrivare ai famosi 2°C di aumento della temperatura che dovremmo conoscere per la fine di questo secolo, avremmo dovuto vedere un trend positivo delle temperature di 0,2°C (o 0,4°C di aumento netto) nel periodo che ha invece visto la curva delle temperature appiattirsi sui valori della fine del secolo scorso. Di meccanismi candidati a fornire la spiegazione ne abbiamo visti molti ultimamente, il rallentamento dell’attività solare, l’immagazzinamento del calore nelle profondità oceaniche, una intrinseca variabilità naturale molto casuale e, naturalmente, anche dei presunti difetti nelle osservazioni, difetti tanto accentuati da essere individuabili solo per le osservazioni che non esistono. A parte quest’ultima giustificazione alquanto risibile, le altre, pur ancora tutte da dimostrare, hanno in comune due cose: la prima è che sono possibili, la seconda, siano esse realmente all’origine del problema singolarmente o tutte insieme, è che comunque nessun modello le aveva previste, perché riguardano aspetti che i modelli non possono replicare.

 

Ma non sono sole. A far loro compagnia infatti c’è anche la dinamica delle nubi e della nucleazione e, eccoci arrivati all’oggetto del post di oggi, anche l’attività vulcanica. Qualche giorno fa abbiamo parlato di uno studio uscito recentemente che ha esplorato gli effetti sul clima di breve periodo dell’eruzione del vulcano Tambora nel 1815 e delle altre eruzioni avvenute negli anni immeditamente precedenti. Su tutti una significativa seppur breve diminuzione delle temperature. Oggi parliamo di un articolo appena pubblicato su Nature Geoscience  e firmato da ricercatori molto mainstream, che attribuisce il perdurante stallo delle temperature medie globali all’attività vulcanica più recente.

 

Volcanic contribution to decadal changes in tropospheric temperature – Solomon et al, 2014.

 

Il metodo è quello usuale. Prendere uno o più modelli climatici, farli girare prima senza e poi i dati relativi al fattore di cui si vogliono analizzare gli effetti, metti un po’ di nuvole, togli un po’ di El Nino e il risultato salta fuori. Le eruzioni vulcaniche degli ultimi anni hanno contribuito a frenare l’altrimenti inarrestabile riscaldamento globale. Un contributo per la verità piuttosto limitato se, come leggiamo dall’abstract, la differenza tra le temperature della bassa troposfera osservate e quelle previste si riduce di un mero 15%, però, pur sempre un contributo. Con il difetto però di essere molto casuale, perché ammesso che si possa stimare l’effetto dell’attività vulcanica recente, di sicuro non c’è alcuna chance di valutare quella futura. Però, se non altro, questo riabiliterebbe un po’ i modelli di simulazione, almeno per la capacità di ricostruire il passato.

 

Ma resta d’obbligo il condizionale, vediamo perché. Su WUWT Willis Eschenbach, autore di post spesso controversi e sui quali non sempre ci siamo trovati d’accordo, ha provato ad approfondire l’argomento. Conoscenza vuole che le eruzioni vulcaniche più significative ai fini climatici siano quelle che avvengono ai tropici, e benché per avere effetti sul clima di breve periodo ci sia bisogno che il particolato emesso in atmosfera venga redistribuito ad opera della circolazione generale, è pur vero che gli effetti più incisivi devono necessariamente mostrarsi nella fascia tropicale, dove per forza di cose la concentrazione di quel particolato è meno diluita. L’osservatorio di Mauna Loa, noto per aver composto nel tempo la serie storica della concentrazione di CO2 più lunga che abbiamo, fa anche osservazioni della radiazione assorbita dall’atmosfera e di quella ricevuta direttamente dal suolo.

 

clear-air-solar-energy-absorption

Nell’immagine si vedono bene le eruzioni più significative del epriodo coperto dal dataset, ma sivedono anche quelle meno importanti. Con quelle più intense avvenute (Redoubt a parte) prima della fine del secolo e delle quali è nota la traccia sulle temperature medie superficiali globali, non si direbbe proprio che il periodo di stallo delle temperature (1998 – giorni nostri) abbia conosciuto un forcing vulcanico particolare. Nè si nota niente di più se i dati provenienti da Mauna Loa sono confrontati con il datset della profondità ottica dell’atmosfera utilizzato in Solomon et al.

 

mauna-loa-transmissivity-vs-vernier-optical-depth

Può darsi che il problema sia in quel relativamente piccolo 15% e nella scala utilizzata da Eschenbach, ma i risultati ottenuti da Solomon et al. sanno un po’ di tuning modellistico piuttosto che di individuazione del ruolo dell’attività vulcanica. Comunque, se la non-attività vulcanica può produrre un non-riscaldamento, allo stesso modo la futura non-attività vulcanica potrà produrre un riscaldamento. Direi che si sono gettate le basi per la soluzione del problema 😉

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Published inAttualità

2 Comments

  1. Gianni

    Proprio due giorni fa ero al Salone Internazionale dell’Agricoltura in corso a Parigi, dove un alto calibro dell’INRA ha citato proprio questo articolo di Solomon et al. per spiegare la “stagnazione” (cosi’ l’ha chiamata) del riscaldamento globale registrata negli ultimi anni. Grazie al post ho più chiari i termini della questione. Purtroppo la maggior parte di chi ascolta queste affermazioni (per lo più dalla bocca di un luminare), non possedendo gli strumenti per valutarne il reale fondamento scientifico, non si lascia sfiorare dal dubbio circa la loro validità. Al pubblico non resta che dare credito alle proiezioni di aumento della temperatura, e naturalmente a quelle più pessimiste (“fin oltre i 4 °C a fine secolo”), presentate con grafici accattivanti di ogni tipo.

  2. carlo

    …incomincia a farsi nitido lo stridore delle unghie sullo specchio….

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