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L’arte di costruire “evidenze” sul riscaldamento globale antropogenico

Spesso sentiamo dire dagli adepti alla fede AGW che ci sono migliaia di articoli che sostengono l’ipotesi del riscaldamento climatico pilotato dalle attività umane, anche se a dire il vero ora le tre magiche lettere A.G.W. che hanno tenuto banco per tanti anni, stanno sparendo silenziosamente per dare spazio ad un generalissimo ‘climate change’ che, a ragion veduta, può significare tutto ed il contrario di tutto quindi è assai più ostico da smentire o invalidare; ma ciò non significa affatto che l’ipotesi AGW sia sparita, anzi, in pratica ora si sottintende che se esiste ed è vero il fenomeno del cambiamento climatico (ed esiste perché il clima cambia per sua natura da quando il pianeta si è formato!) allora è automaticamente vera anche la vecchia ipotesi AGW, così, per partito preso!

Avrete certamente anche sentito chiedere un’infinità di volte dai fedelissimi all’AGW dove sono gli articoli peer-review che dimostrano falsa l’ipotesi del riscaldamento globale di origine antropica, che magari lo chiedono mentre si pavoneggiano di poter enumerare migliaia di lavori a favore della loro santa ipotesi. Ebbene la domanda è in realtà per la quasi totalità delle volte assolutamente ingenua e solo in pochi casi, per voce delle persone veramente preparare sull’argomento, assolutamente maliziosa. La ragione per cui la domanda è allo stesso tempo ingenua e maliziosa sta proprio nella risposta:

Tra milioni di articoli scientifici in materia climatico-ambientale la quasi totalità è contraria all’ipotesi AGW ed un piccolissima minoranza è favorevole.

Questa affermazione può sembrare forzata e persino paradossale se si conosce la materia solo attraverso le testate dei giornali e dei mass media in generale. Ma facciamo un piccolo passo indietro, evitiamo accuratamente i toni da propaganda che ormai imperano anche nel mondo della scienza e cerchiamo di ricordare come funziona la scienza, o meglio,come funziona il metodo scientifico.

Come abbiamo detto più volte i nostri tentativi di comprendere la natura attorno a noi li chiamiamo teorie se sono matematicamente formulati ed ipotesi se sono solo plausibili spiegazioni dei fenomeni osservati. Ebbene una teoria o un’ipotesi si abbandona in favore di un’altra quando le nuove teorie o ipotesi riescono a spiegare in maniera chiara fenomeni che prima non avevano spiegazione. Ad esempio la teoria della gravitazione di Newton è stata abbandonata a favore della teoria della relatività generale di Einstein solo perché la nuova teoria riusciva a rendere conto di fenomeni altrimenti inspiegabili, come le anomalie nell’orbita di mercurio, che avevano eluso ogni tentativo di spiegazione in seno alla teoria newtoniana. Se la teoria di Einstein non avesse apportato alcuna novità al panorama scientifico, non sarebbe mai stata adottata, e sarebbe stata persino dimenticata, proprio come è capitato a miriadi di altre teorie ed ipotesi. Questo è il metodo scientifico.

Ora che abbiamo richiamato alla mente il corretto funzionamento del processo scientifico possiamo concentrarci sulle vicende climatiche e ricordare che l’uomo è stato in balia del clima e delle sue corpose variazioni naturali per tutta la sua storia evolutiva. Ora si ipotizza che sia l’uomo con le sue attività ad essere responsabile dei mutamenti climatici e non più la natura. Le prove? Vediamo un esempio di questi giorni e precisamente il 2 marzo quando è apparso su Nature Climate Change un articolo di un gruppo di giovani ricercatori, guidati da un giovanissimo Casimir de Lavergne, che pare non abbia nemmeno iniziato il dottorato di ricerca, ma che già dimostra di conoscere le regole per una rapida carriera nel settore dell’allarmismo climatico. Ma procediamo con ordine ad analizzare i fatti.

PolynyaAll’inizio delle rilevazioni satellitari in Antartide, nel 1974, il satellite rilevò una grande porzione, tra il mare di Weddell e l’oceano al largo delle Terre della Regina Maud, libera dai ghiacci anche in pieno inverno e circondata dalla banchisa polare. Tali strutture prendono il nome di Polynya e sono essenzialmente di due tipi, quelle determinate dai venti che allontanano i ghiacci dalla linea di costa più velocemente di quanto riescono a riformarsi e quelle determinate dallo sprofondamento di acque relativamente fredde e salate e dalla concomitante risalita di acque relativamente calde che riescono a tenere il mare libero dai ghiacci. La polynya del mare di Weddell è di questo secondo tipo e, come tutte le polynya di questo genere deve la sua esistenza ad effimere condizioni di equilibrio dinamico tra la salinità e le temperature delle varie porzioni dell’acqua e dell’aria. Pertanto al cambiare delle condizioni idonee al mantenimento della struttura, essa cessa di esistere.

Quest’ultima è proprio la sorte che è toccata alla polynya in questione che è sparita dopo tre inverni e da allora in inverno il mare ghiaccia completamente. Nell’articolo citato, dal roboante titolo “Cessation of deep convection in the open Southern Ocean under anthropogenic climate change” De Lavergne sostiene che a causa dell’influenza umana sul clima e del conseguente scioglimento dei ghiacci e relativo apporto di acque fresche sulla superficie del mare, i meccanismi che tenevano aperta la polynya sono venuti meno, insomma colpa dell’uomo. Inoltre, come se non bastasse, nelle dichiarazioni pone il monito per un possibile disastro futuro: il calore del fondo dell’oceano (quale calore?) rimarrà intrappolato al di sotto dei ghiacci non avendo vie d’uscita e, se in futuro la polynya dovesse riformarsi, il calore accumulato potrebbe liberarsi tutto in una volta!

Ovviamente queste ultime sono affermazioni tragicomiche che nulla hanno di scientifico e non vale nemmeno la pena commentarle, anche in virtù del fatto che, come vedremo, nemmeno gli autori ci credono. Dall’articolo, ma in particolar modo dal titolo, sembrerebbe l’ennesimo inequivocabile lavoro a sostegno dell’ipotesi AGW, ed in effetti lo è, ma come per tutti gli articoli del genere c’è anche dell’altro, cioè la conferma, meno urlata e sbandierata, che il fenomeno è con tutta probabilità di origine naturale. Si tratta di una conferma della naturalezza del fenomeno per via del fatto che la polynya antartica era gia stata accuratamente studiata, ed in particolare si può citare un lavoro del 2007 che suggerisce l’alternanza di comparsa e scomparsa della polynya antartica in relazione alla Southern Annular Mode (SAM), che modificando il regime dei venti e delle precipitazioni nella zona determina l’instaurarsi o meno della condizioni indispensabili all’esistenza della polynya.

Quest’ultimo lavoro è persino correttamente indicato nell’articolo di De Lavergne che in realtà, a parte i titoloni ad effetto e le ancora più allarmanti dichiarazioni ai media nel più tradizionale stile allarmista, dichiara anche: “il nostro studio è ancora un’ipotesi. Noi diciamo che il cambiamento climatico sta prevenendo la convezione [necessaria all’esistenza della polynya], ma non sappiamo quanto fosse frequente nel passato”. In pratica la loro ipotesi non solo non spiega alcunché di nuovo rispetto alla semplice e normale interpretazione di un fenomeno naturale, ma rispetto a quest’ultima e in particolare in confronto all’altro lavoro citato sulla SAM, non può nemmeno fare ipotesi sul verificarsi del fenomeno in passato. In definitiva in base al vero metodo scientifico l’ipotesi di un nuovo tassello a favore dell’AGW dovrebbe essere completamente scartata, in quanto i fenomeni studiati possono essere spiegati, persino meglio, come fenomeni naturali. Ciononostante l’uscita dell’articolo in questione e l’allarme accuratamente costruito dai media stanno facendo, come sempre in questi casi, il giro del mondo, senza che nessuno si prenda minimamente la briga di ricordare che il fenomeno è con tutta probabilità naturale; è questa la prima grande disparità di trattamento delle informazioni.

Cerchiamo per ultima cosa di capire come nascono lavori del genere, tornando all’articolo dell’esempio, ad un primo approccio si potrebbe essere indotti a credere che gli autori, individuando un aspetto irrisolto e ancora misterioso, abbiamo cercato di dare una spiegazione convincente al fenomeno, ma come abbiamo visto in realtà una spiegazione più semplice ed esaustiva era già stata data anni prima, quindi ciò che ha motivato gli autori in tale direzione deve essere stato qualcos’altro, e con qualche ricerca bibliografica si può anche trovare una risposta molto semplice: gli autori stavano, come spesso accade per far bibliografia nel curriculum, esplorando tutte le possibili variazioni sul tema su una tematica da loro gia studiata, in questo caso lo spunto per l’articolo sembra venire da questo lavoro peraltro non citato in bibliografia. In quest’ultimo articolo compaiono due degli autori presenti nel lavoro in esame, la Palter e soprattutto Eric Galbraith, che all’epoca (inizi del 2013) lavorava strettamente con De Lavergne, ancora studente all’università Mcgill.

L’articolo della Pelter e colleghi è interessante dal nostro punto di vista perché gli autori ammettono che i meccanismi che portano al rimescolamento delle acque reagiscono sul profilo verticale piuttosto velocemente, più di quanto ci si potrebbe aspettare, e non se ne capisce bene il perché. In pratica ci dicono che sanno benissimo che non è vero come hanno dichiarato ai media che la sparizione della polynya antartica porterà ad una strana situazione in cui il calore si accumulerà sotto per anni per poi uscire tutto in una volta, come se fosse una bizzarra pentola a pressione che comincia a bollire sul fondo rimanendo gelida in superficie per poi esplodere come una bottiglia di spumante; sanno bene che la variazione di densità superficiale si trasmette rapidamente al fondo e da qui al resto delle correnti. In pratica il sistema si aggiusta per chiudere il circuito in un altro modo. Queste cose avrebbe certamente potuto dirle chiunque ma è un bene che traspaia dai loro stessi lavori, così veniamo a sapere che certe dichiarazioni allarmistiche ai media non sono affatto frutto di ignoranza o incompetenza, ma sono accuratamente cercate, fanno parte del gioco dell’allarmismo.

Dopo questa lunga analisi di un esempio di letteratura pro AGW, possiamo tornare allo scopo principale di questo post, la spesso negata esistenza dei lavori peer-review contrari all’ AGW. Dove si nascondono? Si nascondono nella stragrande maggioranza delle volte proprio all’interno degli articoli pro AGW, i quali, se proprio vogliamo tenere un punteggio, dovrebbero essere contati 2 volte, una volta a favore ed una volta contro l’ipotesi cercata. Ma, come abbiamo visto nel corretto metodo scientifico, se un’ipotesi nuova non spiega fatti altrimenti inspiegabili rispetto alla vecchia dottrina dovrebbe serenamente essere rigettata. Pertanto affermare che l’ipotesi del riscaldamento globale di origine antropica è sostenuta dalla maggioranza della letteratura scientifica non solo non corrisponde alla realtà, ma a rigore è il totale stravolgimento della realtà stessa.

L’unica cosa che è inequivocabilmente a favore dell’AGW è la propaganda mediatica, fatta anche dai ricercatori del settore, ma che come abbiamo visto nel nostro esempio non corrisponde né al pensiero vero dei ricercatori né tanto meno ai loro lavori bibliografici. In definitiva la prossima volta che un adepto dell’AGW vi chiederà dove sono i lavori peer-review che contrastano le migliaia di lavori che egli è in grado di citarvi, rispondetegli che i lavori in questione sono le stesse migliaia di lavori che cita lui più altri milioni di lavori che parlano semplicemente dei meccanismi naturali di questo nostro splendido pianeta.

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Published inAttualità

3 Comments

  1. Sandro1

    Staremo a vederne e sentirne prossimamente, di frottole. Quando si addosserà una discesa di aria artico marittima (assai ritardataria) aldilà delle Alpi, con annessa, sul territorio italiano padano, fase favonica. Ottimo articolo. Complimenti.

  2. alessandrobarbolini

    Bellissimo articolo

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