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AGW, se non lo puoi fermare, almeno fallo fruttare

Una vera e propria osanna del pragmatismo, viene dal NYT.

Buying Insurance Against Climate Change

In pratica e in breve: il cambiamento (in peggio) del clima sarebbe ormai un dato di fatto. Gli sforzi sin qui prodigati per arginare la causa di tale disfacimento sono risultati vani. Che intervengano gli assicuratori, che si investano risorse nella protezione dal rischio, almeno quando arriverà il prossimo evento intenso, naturalmente senza precedenti, sarà più semplice recuperare. Ammesso e non concesso che questi non diventino – altro fatto che sarebbe ormai assodato – un’abitudine, perché così quelli che si occupano di prtezione dal rischio ci rimetterebbero l’osso del collo.

Quello delle assicurazioni contro le calamità naturali è un argomento di cui abbiamo già discusso. Negli USA la questione è da tempo consolidata, qui da noi se ne sta appena iniziando a parlare. E sarebbe cosa buona e giusta che la cosa prendesse piede.

Ma, perché questo accada, gli ultimi ad aver voce in capitolo devono essere gli operatori assicurativi. Negli anni scorsi siamo stati infatti invasi di report di grandi compagnie assicurative che mettevano in guardia contro l’aumento degli eventi estremi. La scienza osservata, dice oggi chiaramente che le informazioni di cui disponiamo non sono sufficienti ad individuare alcun trend. Quella prevista – e ognuno valuti per proprio conto – dice che prima o poi dovrà accadere, spostando però quel poi sempre un pezzettino in avanti nel tempo. I danni economici crescono, quelli sì, ma è anche noto che questo accade perché sono aumentata la ricchezza e con essa ciò che esposto al danneggiamento; ed inoltre molto aumentata anche la presenza di insediamenti urbani nelle zone a rischio, con tutto quello che questo comporta in termini di reazione del territorio.

Un esempio lo abbiamo fatto già parecchi anni fa, ma vale la pena tornarci su. Ecco un estratto dal post “Un uragano di dollari” del 29 novembre 2010:

Nel 2005, “l’atterraggio” dell’uragano Katrina sugli stati americani che si affacciano sul Golfo del Messico, è costato all’industria delle assicurazioni immobiliari ben 40 miliardi di dollari. Un bel botto, non c’è che dire, ma mai grande quanto i fuochi d’artificio che la stessa industria è riuscita a fare subito dopo, adoperandosi per recuperare in termini di premi più del doppio di quanto sborsato.

Come? Semplicemente facendo appello al “consenso” scientifico, o meglio a quel surrogato di accettabile livello di comrensione scientifica dei problemi cui il processo decisionale ricorre ormai sempre più spesso in tema di clima, tempo atmosferico e loro impatto sulla società civile.

E così, appena un mese dopo il disastro di New Orleans, la RMS, compagnia assicuratrice specializzata nel settore immobiliare, riunì per qualche ora quattro “esperti” di uragani; Jim Elsner, che portava in dote anche un modello di previsione statistica semestrale dell’attività del cicloni tropicali, Tom Knutson, convinto sostenitore del legame tra pericolosità di questi eventi e riscaldamento globale, Mark Saunders, fisico nonchè fondatore di una società di consulenza assicurativa sui rischi da eventi atmosferici e Kerry Emmanuel, il più famoso del gruppo, scienziato del Mit e fresco autore di un lavoro che metteva in relazione proprio il riscaldamento globale con l’aumento dei costi del danneggiamento da essi provocato. Ai quattro furono posti dei quesiti ben precisi: Quanti uragani ci saranno ancora dal 2006 al 2010? Quanti arriveranno sulla terraferma? Quanti sui Caraibi?  E quanto durerà questo trend?

Sulle prime, come chi più chi meno hanno avuto tutti modo di raccontare, nessuno di loro era entusiasta di dover tirar fuori dei numeri con cui alimentare un modello che simulasse i costi del loro vaticinio, però alla fine i numeri uscirono. Tutte stime superiori alla media climatologica (quella che in genere fa fede). Per non scontentare nessuno i modellisti dell’RMS fecero una bella media, accrescendo così di circa il 30% rispetto alla media climatica le possibilità che negli anni a venire degli uragani si sarebbero abbattuti sugli Stati Uniti meridionali. Nonostante il modello di Elsner pare dicesse qualcosa di diverso, lo stato maggiormente a rischio risultò essere la Florida, al contempo la più esposta rispetto all’Oceano Atlantico e “territorio di caccia” dell’RMS, guarda un po’.

Non è difficile capire come di lì in avanti assicurarsi contro questi eventi sia diventato roba da ricchi, ma siccome ogni tanto gli uragani arrivano, forse lo hanno fatto anche i poveri. Così l’RMS e altri come loro, hanno adeguato i premi non a quello che è stato ma a quello che sarebbe potuto essere, grazie al consenso scientifico e per la modica cifra di 82 miliardi di dollari.

Del resto, se il mercato della CO2 non paga più, in qualche modo si dovrà pur trovare il modo di guadagnare qualcosa. Che poi è il senso dell’articolo del NYT del quale mi preme mettere in risalto un paio di brevi periodi:

In breve, dobbiamo preoccuparci della possibilità di disastri più grandi del previsto, specialmente quelli che concentrano la loro furia su posti o circostanze specifiche, molte delle quali ora non sono prevedibili.

E’ questa la ragione per cui il global warming deve essere affrontato dalle istituzioni private di gestione del rischio, come le assicurazioni. Loro hanno grande esperienza nel diluire gli effetti dei disastri condividendoli con un vasto numero di persone. 

Uhm…qualche analogia con la faccenda degli uragani?

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Published inAttualità

5 Comments

  1. donato

    Quindi gli 82 miliardi di dollari di raccolta sono stati quasi esenti da costi! Tutti benefici! 🙂
    Questo si chiama business, altro che i certificati verdi ed il carbon trade!
    Ciao, Donato.

  2. Ma quale caso e caso.al negazionista Bush si e’ sostituito Obama Supereroe della Scienza e tutto e’ andato finalmente per il meglio.

  3. Guido Botteri

    Ora che siamo nel 2014, possiamo confrontare i dati delle previsioni di questi esperti con i dati di ciò che invece è realmente successo ?

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