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Acidificazione delle Superfici Oceaniche ed Effetti sugli Ecosistemi Marini – Dubbi e Certezze

Le Nazioni Unite hanno a più riprese evidenziato che l’acidificazione degli oceani potrebbe costare all’economia globale 1 trilione di dollari all’anno entro la fine del secolo, a causa di perdite in settori quali la pesca e il turismo (Cressey, 2015). In particolare vengono posti spesso in evidenza problemi legati all’indebolimento dei gusci dei molluschi marini con effetti rilevanti sulle catene trofiche, ed i problemi di decalcificazione del corallo che si tradurrebbe ad esempio nel declino delle barriere coralline con effetti ecologici enormi.

Una review su tali aspetti è presente nello scritto di Turley e Gattuso (2012), nel quale fra l’altro si evidenzia che mentre vi è un notevole consenso circa il passato e l’evoluzione futura del fenomeno (le superfici marine avevano pH di 8.2 / 8.3 nel pre-industriale mentre oggi l’acidità è calata a 8.1 e dovrebbe portarsi a 7.7 / 7.9 nel 2100) molto inferiori sono i livelli di certezza riguardanti la risposta degli ecosistemi marini al forcing da pH.  In proposito si veda la tabella 1 di Turley e Gattuso, da cui si coglie che, come spesso accade, l’incertezza è modesta per gli aspetti chimici ma sale sensibilmente quando si passa agli effetti biologici e socio-economici.

Tabella 1 – Livelli di certezza raggiunti secondo gli autori per i diversi aspetti legati all’acidificazione delle acque superficiali marine indotti dall’aumento dei livelli di CO2 atmosferica (da Turley e Gattuso, 2012).

Tabella 1

 

I livelli d’incertezza circa gli aspetti biologici della questione acidificazione sono stati di recente incrementati dalla pubblicazione di tre lavori che qui di seguito sono descritti in modo sommario. Anzitutto circa gli effetti sulle barriere coralline segnalo due lavori molto recenti. Il primo (Georgiou et al., 2015) si basa su un esperimento di arricchimento in CO2 dell’oceano il cui risultato è in estrema sintesi il seguente: “This newly discovered phenomenon of pH homeostasis during calcification indicates that coral living in highly dynamic environments exert strong physiological controls on the carbonate chemistry of their calcifying fluid, implying a high degree of resilience to ocean acidification within the investigated ranges.” I sostanza dunque i coralli mostrano una resilienza considerevole rispetto all’aumento dell’acidità che è probabilmente frutto del fatto che tali specie vivono negli oceani del pianeta da milioni di anni e dunque posseggono le risorse genetiche per reagire ad oscillazioni anche rilevanti di tale variabile. Peraltro gli autori scrivono che tale fenomeno non era stato fin qui posto in evidenza perché si era operato solo in ambienti di laboratorio senza mai eseguire verifiche sperimentali in “campo aperto”.

Il secondo lavoro scientifico (Downs et al., 2015) ha come titolo Toxicopathological effects of the sunscreen UV filter, oxybenzone (benzophenone-3), on coral planulae (le planule sono le larve ciliate planctoniche dei coralli) ed è uscito su “Archives of Environmental Contamination and Toxicology”. Esso dimostra l’effetto tossico sul corallo di un componente delle creme protettive solari, l’oxybenzone, che sarebbe tossico per i coralli. In particolare vi si afferma che “The chemical, oxybenzone (benzophenone-3), is found in more than 3,500 sunscreen products worldwide. It pollutes coral reefs via swimmers who wear sunscreen or wastewater discharges from municipal sewage outfalls and coastal septic systems”. Il comunicato stampa del laboratorio che ha condotto il lavoro è reperibile a questo link.

In sostanza dunque un lavoro che affronta l’impatto umano sugli ecosistemi marini da un punto di vista impensabile, almeno per quanto mi riguarda.
Mi preme infine evidenziare uno scritto uscito su Nature nell’agosto scorso (Cressey, 2015 – “Seawater studies come up short”) che segnala il coraggioso lavoro scientifico di Cornwall e Crawley (2015) dal titolo “Experimental design in ocean acidification research: problems and solutions”. In tale lavoro gli autori mettono in discussione la validità degli studi fin qui condotti evidenziandone lo scarso rigore scientifico. In particolare scrive Cressey che: “The past decade has seen accelerated attempts to predict what these changes in pH will mean for the oceans’ denizens — in particular, through experiments that place organisms in water tanks that mimic future ocean-chemistry scenarios. Yet according to a survey published last month by marine scientist Christopher Cornwall, who studies ocean acidification at the University of Western Australia in Crawley, and ecologist Catriona Hurd of the University of Tasmania in Hobart, Australia, most reports of such laboratory experiments either used inappropriate methods or did not report their methods properly.

Circa gli effetti biologici dell’acidificazione degli oceani segnalo infine che negli oceani esistono zone di assurgenza (upwelling) in cui giungono in superficie acque di fondale fredde, ricche di nutrienti ed a pH basso. Una di queste aree si trova sulla costa ovest degli Stati Uniti d’America. Si tratta di un fenomeno del tutto naturale e che dà luogo ad aree che potrebbero essere ottimi punti di studio degli effetti dell’acidificazione sugli ecosistemi marini. Su tale tema segnalo questa pagina della NOAA.

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Bibliografia

  • Cornwall and Hurd, 2015. Experimental design in ocean acidification research: problems and solutions, ICES Journal of marine science (http://icesjms.oxfordjournals.org/content/early/2015/07/07/icesjms.fsv118)
  • Cressey D., 2015. Seawater studies come up short, Nature, vol. 524, 6 august 2015 (http://www.nature.com/polopoly_fs/1.18124!/menu/main/topColumns/topLeftColumn/pdf/524018a.pdf)
  • Georgiou et al., 2015. pH homeostasis during coral calcification in a free ocean CO2 enrichment (FOCE) experiment, Heron Island reef flat, Great Barrier Reef (http://www.pnas.org/content/112/43/13219.full.pdf)
  • Downs CA, Kramarsky-Winter E, Segal R, Fauth JE, Segal R, Knutson S, Bronstein O, Ciner FR, Jeger R, Lichtenfeld Y, Woodley CM, Pennington P, Cadenas K, Kushmaro A, Loya Y. (2015) Toxicopathological effects of the sunscreen UV filter, oxybenzone (benzophenone-3), on coral planulae and cultured primary cells and its environmental contamination in Hawaii and the U.S. Virgin Islands. Archives of Environmental Contamination and Toxicology. DOI 10.1007/s00244-015-0227-7
  • Turley C and Gattuso J., 2012. Future biological and ecosystem impacts of ocean acidification and their socioeconomic-policy implications, Current Opinion in Environmental Sustainability – Aquatic and marine systems, Volume 4, Issue 3, July 2012, Pages 278–286 (http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1877343512000620)
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Published inAttualitàClimatologia

4 Comments

  1. Luigi Mariani

    Ringrazio tutti voi per i commenti, ad iniziare da de Orleans (per scrivere su CM ci impegnamo parecchio (come ricordava ieri Franco Zavatti in un commento a un post di Donato) e la principale ricompensa, aldilà della fama imperitura che sicuramente ce ne verrà, è l’apprezzamento di chi ci legge.
    Circa poi le considerazioni di Donato e Fabio, che condivido al 100%, mi fanno venire in mente tre cose:
    1. il global greening è stato individuato empiricamente osservando i dati satellitari. Colpisce il fatto che nessuno l’aveva previsto nell’entità in cui si è manifestato (tranne forse alcuni visionari eretici con Freeman “uomo libero” Dyson)
    2. lo stesso Dyson sosteneva in un suo scritto che il “mondo di fuori” è pieno di caldo, freddo, polvere e fango, per cui è assai meno invitante di una stanza con aria condizionata e con un bel computer che macina dati all’infinito. Da ciò deriva che i modellisti si innamorino dei loro modelli e quando qualche dato reale li contraddice preferiscano dire che “è la realtà che sbaglia”. In proposito si veda ad esempio questo scritto di Shaviv (http://www.sciencebits.com/IPCC_nowarming) in cui si stigmatizza il problema con riferimento al Global warming hiatus scrivendo che: “”The longer answer is that even climate alarmists realize that there is a problem, but they won’t admit it in public. In private, as the climategate e-mails have revealed, they know it is a problem. In October 2009, Kevin Trenberth wrote his colleagues: The fact is that we can’t account for the lack of warming at the moment and it is a travesty that we can’t. The CERES data published in the August BAMS 09 supplement on 2008 shows there should be even more warming: but the data are surely wrong. Our observing system is inadequate. However, instead of reaching the reasonable conclusion that the theory should be modified, the data are “surely wrong”. (This, btw, is a sign of a new religion, since no fact can disprove the basic tenets).”.
    3. il problema di cu al punto 2 è enfatizzato dal fatto che le ricerche nel “mondo di fuori” costano molto più di quelle fatte al computer, per cui i soldi per farle sono sempre meno e dunque il mondo della ricerca è sempre più incentivato a creare ricercatori abituati a lavorare solo a tavolino. Questo è un problema che coglie oggi in tutti i settori, incluso quello agronomico in cui mi trovo ad operare.

  2. Fabio Vomiero

    Interessante l’articolo del prof.Mariani, fa riflettere anche la quota di tossicità relativa alle creme solari, che sicuramente esiste e riguarda l’intero ecosistema marino. Donato, hai perfettamente ragione nel tuo ragionamento, l’altro esempio a conferma di ciò che hai detto riguarda, in campo medico, gli esperimenti condotti in “vitro” che spesso hanno dinamiche e risultati completamente diversi dagli esperimenti condotti in “vivo”.
    Saluto cordialmente

  3. Donato

    Qualche tempo fa, qui su CM, ebbi una discussione con un commentatore occasionale che si definiva chimico di professione con tanto di laboratorio ecc., ecc.. Lo stesso soggetto, fortunatamente per noi, è passato ad altri lidi per cui non abbiamo più avuto il dispiacere di ospitarlo 🙂 .
    In quella circostanza ebbi a scrivere che il mare era diverso dalle provette di laboratorio per cui non potevano trasferirsi i risultati del laboratorio “sic et simpliciter” agli oceani. Lui non capì nulla di ciò che avevo scritto (forse un buon chimico, ma poco ferrato in italiano 🙂 ) e su un altro blog scrisse che avevo fatto rivoltare Lavoisier nella tomba in quanto avevo messo in dubbio le basi della stechiometria. Diceva mia nonna che chi va per mare prende i pesci e aveva perfettamente ragione 🙂 .
    Cornwall e Crawley (2015) nel passo citato da L. Mariani, esprimono un “giudizio informato” sullo stato dell’arte delle ricerche che hanno ad oggetto l’acidificazione degli oceani e non mi sembra che il loro giudizio sia del tutto positivo.
    Ciò che ha attratto la mia attenzione è, però, il risultato di Georgiou et al., 2015: gli esperimenti in laboratorio sono una cosa totalmente diversa da quello che succede in mare aperto. In parole povere non possiamo trasferire i risultati del laboratorio direttamente in mare aperto perché cambiano tutte le condizioni al contorno ed entrano in gioco tante e tali variabili che condizionano il comportamento degli ecosistemi marini, da rendere del tutto improbabile il verificarsi degli stessi risultati ottenuti in laboratorio. Era, più o meno, quello che avevo scritto io. E’ proprio vero: il tempo è galantuomo.
    Ciao, Donato.

  4. A. de Orleans-B.

    Ogni tanto è giusto ripeterlo, con gratitudine per gli autori e spesso anche per chi scrive commenti: è formidabile quanto si impara leggendo queste pagine!

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