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Artico: quando il segno del feedback può fare la differenza

Appena un paio di giorni fa, in un commento a questo post, Luigi Mariani faceva notare che l’aumento delle temperature della zona artica (sopra 80°N), è molto più evidente per la stagione invernale che per quella estiva e appare essere essenzialmente legato a dinamiche circolatorie, con un più frequente numero di disturbi atmosferici in grado di portare aria proveniente dalle basse latitudini verso le latitudini polari.

Una tale dinamica, sempre nel commento di Luigi Mariani, lascia immaginare quindi che la  diminuzione dell’estensione del ghiaccio artico – significativa ma tipicamente confinata alla stagione calda – cui si associa il feedback di una maggiore evaporazione e conseguente ulteriore riscaldamento, sembra non avere un ruolo importante nelle dinamiche termiche dell’area. Se infatti l’aumento delle temperature è più significativo nella stagione fredda, questo ulteriore aumento originato dall’evaporazione è confinato ad un ruolo meno importante.

Il caso vuole che proprio qualche giorno fa, sui PNAS, sia stato pubblicato un lavoro che in qualche modo affronta il tema dei feedback artici. Qui sotto il paper e qui il lancio su Science Daily:

Influence of sea ice on Arctic precipitation

In sostanza, lavorando sulla composizione isotopica delle precipitazioni, gli autori hanno identificato le diverse sorgenti di masse d’aria umida che arrivano ad interessare l’artico, isolando quelle provenienti dalle latitudini subtropicali, tipicamente connesse agli scambi meridiani, da quelle provenienti dai settori più settentrionali dell’oceano, quindi più locali. Lo scopo, è quello di identificare le singole componenti del ciclo dell’acqua delle alte latitudini. Mettendo questi dati in relazione alla diminuzione dell’estensione del ghiaccio, risulta che per una diminuzione di 100.000 km2 dell’estensione del ghiaccio, le percentuali di precipitazioni da masse d’aria di sorgenti locali aumentano in modo significativo, sia quelle provenienti dal Pacifico settentrionale che quelle riferite al mare circostante la Groenlandia. Questo identificherebbe quindi un contributo al ciclo dell’acqua della zona direttamente riconducibile ad una maggiore evaporazione per aumento della superficie esposta.

Tuttavia, nell’ipotizzare che un tale contributo diverrebbe ancora più significativo al crescere del rateo di scioglimento, ovvero ad una prosecuzione del trend di diminuzione del ghiaccio artico, gli stessi autori, nell’approfondimento su Science Daily, dichiarano di non essere in grado di valutare il peso di questo feedback in quanto non è dato sapere se l’eventuale aumento della precipitazione sarebbe in forma liquida o solida, cioè sotto forma di pioggia o neve. Nel primo caso infatti il segno del feedback sarebbe positivo, cioè di amplificazione, perché causerebbe altro scioglimento, altra superficie esposta, altro riscaldamento e così via. Nel secondo caso, invece, la precipitazione solida farebbe aumentare la riflettività della superficie facendo assumere al feedback un segno negativo.

In sede di commento viene da pensare che alla luce del fatto che l’aumento delle temperature appare essere confinato alla stagione fredda, la probabilità che la precipitazione sia liquida è decisamente più bassa, ove non del tutto assente, quindi è più probabile che il feedback sia negativo. Un meccanismo che, tra l’altro, finirebbe col sommarsi ad un altro possibile feedback negativo, quello della nuvolosità. Se infatti si parla di aumento delle precipitazioni – dal commento su Science Daily non si riesce a capire se c’è solo un aumento della proporzione di masse d’aria di origine locale rispetto a quelle subtropicali o se c’è anche un aumento delle precipitazioni assolute – si deve immaginare anche un aumento della copertura nuvolosa, la quale ha potere riflettente e quindi diminuisce la quantità di radiazione solare ad onde corte assorbita dalla superficie liquida e rimessa sotto forma di radiazione ad onda lunga, quella preda dei gas serra. Questa somma però, avrebbe ragione di esistere solo nei mesi estivi, ossia quando in effetti c’è la radiazione incidente. Nel semestre invernale, infatti, la radiazione solare in zona artica non ci arriva proprio, quindi non c’è niente da riflettere e niente da assorbire.

Insomma, come si vede i meccanismi sono tutt’altro che chiari, così come lo è la forma che questi possono prendere. Sembra essere di fronte ad uno di quei test le cui domande dipendono dalle risposte precedenti. Con un’unica sostanziale differenza, nessuno sa cosa ci sia alla fine del test, ovvero quale sia il punto d’arrivo, ammesso che ce ne sia uno, e quale possa essere in futuro, sia stato nel passato o possa essere anche ora il contributo delle dinamiche climatiche delle alte latitudini al sistema nel suo complesso. Ah, tanto per introdurre un ulteriore elemento di difficoltà, sarà bene ricordare che le zone polari sono due, sono morfologicamente molto diverse e, stando anche a quanto osservato recentemente, si comportano anche in modo molto diverso.

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Published inAttualità

3 Comments

  1. mauro

    Buongiorno, allora sig Guidi se cosi fosse avremo nei prox anni un vp sempre + forte e, magari una stratosfera sempre + fredda con zonalità sempre + ingombrante x l’ europa, oppure un jet stream + meridionale??? oppure non c’ entra niente??
    Grazie
    Mauro

    • mauro

      grazie mille, molto interessante
      Mauro

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