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Ci si fa coraggio (a Marrakech)

Manca ormai poco alla conclusione della COP 22 di Marrakech e ieri i delegati sono apparsi più sollevati: è arrivato il Segretario di Stato degli USA J. Kerry che ha comunicato alla platea l’intenzione dell’Amministrazione Obama di lottare per l’accordo di Parigi fino all’ultimo momento: intenzione lodevole, ma che non cambia di una virgola i corni della questione. Il testimone è passato, ormai, nelle mani di Trump e più che dichiarazioni di principio non si possono fare.

Al di la delle parole di circostanza di J. Kerry, ciò che ha scaldato il cuore dei delegati sono state le parole dei rappresentanti dell’UE e della Cina. Entrambi, seppur con sfumature diverse, hanno espresso il medesimo concetto: i trattati internazionali si rispettano altrimenti bisogna cambiare le regole del gioco internazionale. La cosa più importante che hanno comunicato, però, è che in caso di defaillance degli USA, tanto l’UE che la Cina avrebbero assunto su di loro gli obblighi degli Stati Uniti.

Dietro queste due dichiarazioni apparentemente legate al problema del clima, si delinea uno scenario molto più complesso che coinvolge gli equilibri geo-politici mondiali. Sembra farsi strada nelle cancellerie internazionali l’idea che gli USA si stiano incamminando verso un periodo di isolamento e di chiusura verso gli impegni mondiali che ne hanno caratterizzato l’azione nell’ultimo secolo. Se ciò fosse vero e, probabilmente, lo è, ci sarebbe uno spazio da riempire e la Cina si candida a riempire parte di questo spazio. Il gigante orientale non ha mai nascosto, infatti, di mirare a diventare l’interlocutore economico di riferimento e la potenza dominante nello scenario africano e dell’estremo oriente. La Cina aspira a ricoprire il ruolo di partner di riferimento anche nelle relazioni tra nord e sud del mondo ed a farsi paladina delle principali rivendicazioni del sud del mondo, di cui ambisce a diventare la guida, nei riguardi dei Paesi industrializzati.

Da parte sua l’Europa, in particolare la Germania, vuole assurgere al ruolo di potenza regionale di riferimento ed a costituire un contrappeso progressista di fronte alle istanze conservatrici degli Stati Uniti d’America.

A Marrakech stiamo assistendo, in altre parole, ad un tentativo di ridisegnare le sfere di influenza politica ed economica del mondo. La Cina sembra la più attiva in questo riposizionamento strategico in quanto è la potenza commerciale che maggiormente avrebbe da perdere, in caso di limitazione degli accordi di libero scambio paventata da D. Trump e dal suo entourage. Della cosa si sono rese conto anche diverse industrie nord-americane che hanno interesse a delocalizzare le loro produzioni in Cina e negli altri Paesi a basso costo della manodopera e che non hanno gradito la linea politica di Trump (difatti appoggiavano più o meno apertamente H. Clinton). E’ di oggi la pubblicazione di un documento in cui un folto gruppo dei rappresentanti di queste imprese a Marrakech, chiede alla futura Amministrazione Trump, di non rinunciare agli impegni di Parigi ed a continuare ad incentivare l’economia verde.

Come si vede tutta la giostra di Marrakech continua a girare intorno all’incognita Trump che, da parte sua, brilla per il completo disinteresse rispetto a quello che sta accadendo in Marocco. Non sono riuscito a trovare neanche il minimo accenno da parte dell’entourage del presidente eletto alle vicende della COP 22.

Sempre oggi si è verificato un fatto nuovo rispetto al passato: diversi Paesi in via di sviluppo e non solo e molte Organizzazioni presenti a Marrakech hanno protestato contro la presenza alle COP dei rappresentanti dell’industria petrolifera e del carbone. Essi sono accusati di fare lobby e di essere i principali responsabili del rallentamento dei lavori nelle varie conferenze che si sono svolte e che si svolgeranno. La richiesta formale di messa al bando dei rappresentanti delle uniche voci contrarie che si alzano in queste kermesse, è stata avanzata da un’Organizzazione non governativa statunitense che ha presentato una petizione con 550.000 firme alla delegazione USA affinché  si adoperi per l’interdizione delle COP ai rappresentanti delle industrie petrolifere e del carbone.

Ed a questo punto mi sembra importante dare un’occhiata all’altro corno della questione, a questa comunità di esseri brutti, sporchi e cattivi che attenta alla “vita” del pianeta: gli industriali del carbone che sono considerati i principali responsabili del cambiamento climatico globale.

L’occasione ci viene offerta dal quotidiano più schierato sulle posizioni catastrofiste, il britannico The Guardian che, però, nel più classico stile anglosassone, non ha paura a dare voce a chi la pensa in modo contrario. E’ di oggi un articolo in cui  si fa parlare B. Sporton, capo della World  Coal Association. Si tratta dell’associazione che raggruppa i principali produttori di carbone del pianeta e che rappresenta, quindi, i responsabili principali del cambiamento climatico globale (stando alla vulgata dominante). Sporton viene fatto parlare, ma l’autore non nasconde un certo senso di fastidio e di disgusto nei suoi riguardi, controbatte alle sue tesi, ma gli consente di esprimerle.

Sporton mi è apparso piuttosto equilibrato e molto realista. Egli parte da un dato di fatto cui difficilmente si può controbattere e, difatti, il giornalista non lo fa. Il 90% del cemento prodotto nel mondo, il 70% dell’acciaio ed il 40% dell’energia elettrica sono ottenuti utilizzando il carbone. Uscire dal fossile dall’oggi al domani (entro il 2030 chiedono alcuni dei partecipanti alla COP 22) equivale a rinunciare alla maggior parte del cemento, dell’acciaio  dell’energia elettrica a buon mercato prodotti nel mondo in quanto non si dispone degli investimenti per poter convertire tutte queste industrie. In ogni caso esse non potrebbero funzionare ad energia solare o eolica. Si dovrebbero chiudere, inoltre, 7000 centrali elettriche a carbone ed anche questo appare inverosimile visto che se ne costruiscono circa 700 ogni anno.

Sporton non è contrario in linea di principio alla tesi dell’IPCC: è dell’avviso che le preoccupazioni degli scienziati siano fondate e che l’uomo stia alterando il clima con le sue emissioni di gas serra. Ciò che considera sbagliata è l’idea che si possa risolvere il problema chiudendo le centrali e le industrie che utilizzano il carbone. A suo giudizio ciò che dovrebbe essere fatto è una grossa opera di finanziamento della ricerca per procedere alla cattura e stoccaggio del diossido di carbonio prodotto da queste industrie. Altra strada da percorrere è quella di ridurre le emissioni di anidride carbonica delle centrali per unità di prodotto, innovando i processi industriali. Alcuni tra i più grandi emettitori di gas serra del mondo (Cina ed Indonesia, per esempio) sono i suoi principali interlocutori ed è con queste tecniche che intendono raggiungere gli obiettivi assunti con la ratifica del Trattato di Parigi.

Sporton ha un’idea condivisibile in linea di principio: se io riduco la produzione di CO2 del 30%, ho ridotto le emissioni, ma non ho rinunciato ad una fonte energetica economica e molto affidabile. Se riesco, inoltre, a impedire che la restante parte della CO2 prodotta venga immessa in atmosfera, ho risolto il problema alla radice. Egli lamenta, però, la mancanza di interesse di molti Paesi verso l’implementazione di queste tecnologie e, di conseguenza, la mancanza di finanziamenti alla ricerca.

Sporton non è contrario neanche al solare ed all’eolico a patto di utilizzarlo in aree non raggiunte dalla rete elettrica ed isolate (Africa, ma non solo).

Non mi sembrano idee tanto peregrine da mettere al bando in un consesso in cui ci si pone l’obiettivo di risolvere il problema del cambiamento climatico presupposto di origine antropica. A suo giudizio, ed anche secondo il mio modesto parere, se non si parte da questo, la riduzione delle emissioni resta un miraggio irraggiungibile. Spiace che l’autore dell’articolo non riesca a controbattere che con la solita accusa del finanziamento da parte dei produttori di carbone a scettici del clima ed a criticare come pericolose ed eccessivamente costose le tecniche di cattura e stoccaggio della CO2.

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Published inCOP22 - Marrakech

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