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I negoziati di Bangkok: come procedono?

La strada che porta a Copenhagen è stata fin qui molto lunga e ricca di incontri multilaterali. Tra gli ultimi, ricordiamo il G20 di Pittsburgh. In questi giorni è invece in corso un incontro sul clima, a Bangkok. Vi stanno partecipando ben 180 paesi da tutto il mondo e, possiamo dirlo, è il vero e proprio banco di prova per gli accordi prossimi venturi di Copenhagen.

A dire il vero, i negoziati stanno procedendo stancamente ma, nonostante ciò, due importanti aspetti sono emersi dagli incontri. Entrambi questi nuovi dettagli non fanno presagire nulla di buono per la favorevole riuscita di Copenhagen.

In particolare è molto interessante la posizione assunta dalla Cina a Bangkok, riportiamo1 le parole dell’ambasciatore cinese incaricato di condurre i negoziati sul clima, Yu Qingtai:

The reason why we are not making progress is the lack of political will by Annex 1 countries. There is a concerted effort to fundamentally sabotage the Kyoto protocol. We now hear statements that would lead to the termination of the protocol. They are introducing new rules, new formats. That’s not the way to conduct negotiations (…)

Yu accusa i paesi appartenenti all’Annex I2 di aver concertato il sabotaggio del protocollo di Kyoto e di rallentare i progressi dei negoziati di Bangkok per via di una mancanza di volontà politica (sempre da parte dei paesi industrializzati). L’aspetto interessante è che la voce cinese, esplicitata tramite le parole di Yu, non è solitaria bensì è sostenuta e rafforzata da ben 130 altre nazioni in via di sviluppo (in pratica il G773 ). Yu procede e rincara la dose:

It is clear now that the rich countries want a deal outside the Kyoto agreement. It would be based on a total rejection of their historical responsibilities.

Ovvero, le nazioni ricche, secondo Yu, sarebbero alla ricerca di un accordo al di fuori del testo di Kyoto. Tale soluzione si baserebbe sulla negazione delle responsabilità storiche (in capo alle nazioni occidentali). In altre parole, quello che sta succedendo è presto detto: da un lato i paesi ricchi (in buona sostanza le nazioni occidentali) vorrebbero raggiungere a Copenhagen un accordo che coinvolgesse anche i paesi in via di sviluppo (PVS) nel processo di riduzione delle emissioni ritenute dannose per il nostro clima. Il messaggio occidentale è che l’inquinamento fin qui prodotto provenga proprio dalle nazioni più ricche. Tuttavia le economie in via di sviluppo devono fare la loro parte, perchè il pianeta non può permettersi una nuova ed inquinante rivoluzione industriale fondata sul petrolio.

Dall’altro lato ci sono i PVS che non demordono e continuano a sostenere che chi inquina paga e dal momento che il maggiore inquinamento fin qui prodotto proviene dai paesi occidentali, sono questi a dover pagare, non altri nè tantomeno i PVS che vedrebbero frustrate le proprie ambizioni di crescita economica.

La reazione cinese, unitamente al gruppo G77 è decisamente aspra e critica ed è stata motivata fondamentalmente dalla nuova posizione assunta dagli Stati Uniti. In buona sostanza, quello che gli USA suggeriscono è di fuoriuscire da un meccanismo in stile Kyoto, dove la scienza decide le quantità di emissioni per nazione, e di dirigersi verso un meccanismo che non vincoli legalmente gli stati aderenti, ma che si fondi sul libero impegno dei singoli governi a ridurre le emissioni (in base a quantità e tempi calibrate sulle reali possibilità di ciascuno degli aderenti).

Più che una dinamica interlocutoria, questa ci sembra la preparazione ad una guerra di posizione e a Bangkok si stanno scavando le trincee.

Il secondo aspetto interessante emerso a Bangkok concerne nuovamente gli Stati Uniti. Un portavoce del presidente Obama ha annunciato che difficilmente la nuova legislazione americana sulle emissioni inquinanti vedrà la luce in tempo per i negoziati di Copenhagen. In altri termini, la delegazione americana arriverà a Copenhagen con le armi spuntate e quindi difficilmente si legherà a protocolli troppo stringenti, piuttosto cercando di stringere accordi extra-protocollari, che le lascino ampi margini di intervento sulle quantità di emissioni da tagliare e sui tempi. Chiaro è che, volendo concludere in modo positivo i negoziati, gli Stati Uniti dovranno in qualche modo venire incontro ai PVS. Come detto più volte su Climate Monitor, questo nuovo tassello insieme agli altri già analizzati fanno presagire un accordo davvero debole, fatto più che altro di compromessi. In buona sostanza un legal zombie, ovvero una legislazione in vigore, difficile da superare e insufficiente ad affrontare il problema in termini concreti.

http://unfccc.int/parties_and_observers/parties/annex_i/items/2774.php
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  1. http://www.guardian.co.uk/environment/2009/oct/05/climate-change-kyoto []
  2. Il gruppo Annex I è costituito dai paesi industrializzati: http://unfccc.int/parties_and_observers/parties/annex_i/items/2774.php []
  3. http://www.g77.org/ []
Published inAttualitàEconomia

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