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Agricoltura biologica v/s agricoltura convenzionale: vantaggi e svantaggi

Spesso su CM si è parlato di agricoltura. In diverse discussioni è stato posto in evidenza che la “rivoluzione verde” verificatasi nel secolo scorso, ha consentito di ridurre fortemente il deficit alimentare, accrescere di molto la produzione agricola senza aumentare il consumo di terra coltivabile grazie ad un fortissimo aumento delle rese unitarie. Tutto ciò ha reso possibile abbandonare i terreni marginali, quelli caratterizzati da maggiori difficoltà di lavorazione ed accesso che, di conseguenza, sono stati occupati da boschi e praterie.

Questi indubbi vantaggi sono stati contestati da larghe fasce di opinionisti legati essenzialmente ai movimenti ambientalisti ed a tutto il variegato mondo che vede nell’opera dell’uomo un pericolo mortale per l’intero pianeta, tanto da sostenere la famigerata teoria della “decrescita felice” (in termini di popolazione e di livelli di benessere). Una delle principali accuse rivolte all’agricoltura convenzionale, riguarda l’utilizzo massiccio di fertilizzanti sintetici, di pesticidi e diserbanti, la diminuzione della biodiversità a causa dell’utilizzo di varietà produttive non autoctone o innovative rispetto a quelle tradizionali.

Molti hanno visto nella cosiddetta agricoltura biologica la panacea per la soluzione di tutti questi problemi: niente concimi sintetici, niente pesticidi e/o erbicidi, recupero delle varietà colturali tradizionali e via cantando. L’agricoltura biologica ha, però, il grosso svantaggio di avere rese unitarie fino ad un terzo inferiori a dell’agricoltura convenzionale. Per anni abbiamo assistito, quindi, ad una diatriba tra coloro che sostenevano la necessità di ricorrere all’agricoltura biologica per ridurre l’impatto ambientale dell’attività agricola e tra coloro che reputavano impossibile la conversione agricola al biologico in quanto ciò avrebbe ridotto la disponibilità di prodotti alimentari e, conseguentemente, un forte aumento del consumo di suolo per compensare la diminuzione delle rese unitarie.

Da qualche settimana è stato pubblicato su Nature Communication uno  studio  a firma di Adrian Muller del Research Institute of Organic Agriculture (FiBL) di Frick, in Svizzera, e colleghi di una collaborazione internazionale (da ora Muller et al., 2017):

Strategies for feeding the world more sustainably with organic agriculture.

Gli autori sono dell’avviso che fino ad oggi nessuno aveva indagato in modo quantitativo la possibilità di sostituire l’agricoltura convenzionale con quella biologica allo scopo di valutare gli impatti di questa sostituzione sull’ambiente e sulla possibilità di alimentare una quantità di persone in forte aumento. Utilizzando un modello per lo studio dei flussi di massa, Muller e colleghi hanno studiato ciò che sarebbe successo sotto vari scenari da qui al 2050, se si convertisse totalmente o parzialmente l’agricoltura convenzionale in biologica. Lo studio è molto corposo e prende in esame diversi fattori che incidono sulla produzione agricola e sull’ambiente: fertilizzanti inorganici o organici, rotazione delle colture, utilizzo del suolo, erosione del suolo, consumo di acqua e via cantando. Non sono un esperto del settore, ma le argomentazioni dei ricercatori mi sembrano abbastanza convincenti e i metodi di elaborazione numerica dei dati disponibili (modellazione della loro evoluzione nel tempo) utilizzati da Muller et al., 2017, appaiono condivisibili.

Muller et al., 2017 è dell’avviso che una trasformazione dell’agricoltura convenzionale in agricoltura biologica è in grado di alimentare la popolazione umana nel 2050 (stimata in circa nove miliardi di persone) a condizione di un forte aumento della superficie di terreno coltivabile per compensare le minori rese unitarie dell’agricoltura biologica. Se l’intera produzione agricola fosse convertita al biologico, si avrebbe un fabbisogno di suolo agricolo tra il 16% ed il 33% maggiore di quello attualmente utilizzato. Si avrebbe, inoltre, un aumento dell’erosione del suolo di circa il 20% maggiore di quello attuale ed una riduzione delle aree coperte da foreste pari a quella del maggior quantitativo di suolo necessario alle esigenze agricole. L’utilizzo di concimazioni organiche determinerebbe un aumento delle emissioni di gas serra, ma una forte riduzione del surplus di azoto e fosforo con conseguenti vantaggi ambientali in termini di eutrofizzazione di corpi idrici e di contaminazione delle falde. L’abbandono delle concimazioni tradizionali potrebbe determinare, inoltre, una carenza alimentare per le piante che, come ama dire l’amico L. Mariani, significherebbe condannare le specie vegetali coltivate alla fame. Si potrebbe avere, infine, anche un maggior fabbisogno di energia non rinnovabile.

Detto in altri termini l’agricoltura biologica sarebbe in grado di alimentare la popolazione umana al 2050, ma avrebbe impatti ambientali devastanti (giudizio personale). Secondo Muller et al., 2017 che non esprime, ovviamente,  un giudizio così chiaro e netto, ma lo fa trasparire dal contesto, sarebbe possibile sostituire con l’agricoltura biologica una percentuale della produzione agricola convenzionale pari al 60% senza gli svantaggi anzidetti, a patto di introdurre drastici cambiamenti nella dieta umana.

Sarebbe necessario, infatti, ridurre drasticamente gli sprechi di cibo e la produzione di carne. Muller et al., 2017,  propone di ridurre l’utilizzo di carne e prodotti di origine animale nella dieta umana dal 38% attuale, all’11%. Ciò determinerebbe una drastica riduzione del numero di animali allevati dall’uomo per scopi alimentari e, quindi, ridurrebbe la quantità di produzione agricola destinata all’alimentazione degli animali. La riduzione di apporto proteico di origine animale dovrebbe essere compensata, ovviamente, da proteine vegetali per cui sarebbe necessario aumentare di circa il 20% la produzione di legumi per uso alimentare umano.

Altro punto su cui si dovrebbe intervenire pesantemente, è la riduzione dello spreco di cibo. Molte delle risorse alimentari di cui disponiamo, infatti, non vengono utilizzate e destinate alla discarica o al riutilizzo per altri scopi. Secondo le elaborazioni numeriche contenute nell’articolo di Muller e colleghi, sarebbe necessario ridurre gli sprechi di cibo di almeno il 50% rispetto ad oggi. In queste ipotesi l’agricoltura biologica sarebbe in grado di soddisfare le esigenze alimentari di circa nove miliardi di individui e non avrebbe i disastrosi effetti ambientali descritti in precedenza.

Muller et al., 2017 ha valutato anche i possibili impatti del cambiamento climatico sui vari scenari analizzati, giungendo a delle conclusioni piuttosto sorprendenti. Il cambiamento climatico avrebbe effetti più forti sull’agricoltura convenzionale in quanto le colture specializzate sono meno capaci di adattarsi ai cambiamenti termici ed idrici cui sarebbero sottoposte. Le metodiche di coltivazione biologica sembrerebbero capaci, invece, di garantire un maggiore adattamento ai cambiamenti climatici che avrebbero, quindi, scarsi impatti sulle rese e sulla qualità dei raccolti.

L’articolo di Muller e colleghi mi sembra piuttosto importante. In primo luogo dimostra quantitativamente che la sostituzione dell’agricoltura convenzionale con quella biologica non è esente da rischi, anzi avrebbe conseguenze nefaste sull’ambiente e ridurrebbe il grado di sicurezza alimentare che già non è elevato. In secondo luogo richiederebbe drastici cambiamenti negli stili di vita di ognuno di noi che non so fino a che punto possono essere realistici. Ridurre lo spreco di cibo, è auspicabile ed eticamente corretto, ma richiederebbe politiche di acquisto molto oculate ed un uso dei prodotti alimentari altrettanto oculato: non dovremmo buttare nulla, così come accadeva diversi decenni fa. E’ possibile, ma quanto è fattibile? Personalmente già lo faccio, ma vedo che intorno a me le cose vanno in modo molto diverso.

Altrettanto difficile da raggiungere anche il secondo obiettivo: ridurre il consumo di carne a vantaggio dei legumi. E’ vero che il numero dei vegetariani è aumentato, ma il passaggio dal modello di alimentazione attuale a quello prefigurato da Muller e colleghi mi sembra di là da venire e non credo che entro il 2050 la cosa sia fattibile.

Muller et al., 2017, a giudizio di chi scrive, dimostra l’impossibilità di sostituire l’agricoltura convenzionale con quella biologica che dovrebbe continuare a restare anche nel prossimo futuro un’agricoltura di nicchia destinata a soddisfare alcune fasce di popolazione piuttosto esigenti e con discrete possibilità economiche. Il resto rappresenta solo un elenco di buone intenzioni, auspicabili, ma piuttosto improbabili nel medio periodo.

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Published inAmbienteAttualità

21 Comments

  1. donato b.

    Renato, non sono un esperto, ma da olivicoltore (per hobby 🙂 ) ho seguito un po’ la discussione intorno alla Xylella. Da quello che mi risulta, ma, ripeto, posso sbagliarmi, il problema della Xylella non è risolvibile, ad oggi, con semplici cure colturali. Trovandomi nella situazione degli olivicoltori pugliesi non esiterei: abbattimento, distruzione e sostituzione delle piante infette con piante resistenti. Come avvenne con le viti infettate dalla fillossera. Sono d’accordo che abbattere una pianta millenaria come quelle che ho potuto ammirare in Puglia, è assimilabile quasi ad un omicidio, ma non mi sembra che ci siano alternative.
    .
    Per quel che riguarda le colture biologiche, una piccola esperienza diretta. Coltivo un piccolo oliveto per uso familiare. Gli anni scorsi applicando tecniche biologiche, ho prodotto poco e male: olive infettate dalla mosca, piene di vermi e di pessima qualità che rendevano pochissimo (13-16 %). Lo scorso anno ho toccato il fondo: 0 (zero) kg di olio, per cui ho deciso di cambiare registro. Quest’anno utilizzando opportunamente i tanto deprecati pesticidi e con la guida di un agronomo, ho ottenuto un raccolto abbondante e di ottima qualità con una resa, per me, altissima: oltre il 20% (60 kg d’olio, sufficienti per le esigenze della mia famiglia).
    Con le piante in crescita, fra un paio d’anni potrei trovarmi nella condizione di vendere il surplus! 🙂
    Ciao, Donato.

    • Renato

      Concordo sul fatto che l’applicazione oculata degli ausili chimici in agricoltura (fertilizzanti, anticrittogamici o insetticidi che siano) è certamente tra le pratiche necessarie per la salvaguardia delle piante ed il miglioramento delle produzioni: ciò è sempre un valido sostegno per qualunque coltivazione. Nel caso specifico degli ulivi, devo insistere nell’affermare che l’eradicazione delle piante, produce solo un danno enorme alla coltivazione olivicola in generale: l’ulivo, per sua stessa natura, è forse la specie arborea di maggior vigore, tra quelle della fascia temperata e con la più grandi capacità resistive ad ogni avversità. Non è raro veder rinascere piante incendiate o sottoposte a trapianti impossibili, eppure rinascono! Quindi una possibile soluzione, sta in una drastica potatura delle piante infettate, unita alle buone pratiche agronomiche, tra le quali, ho dimenticato di citare il reinnesto sulle stesse piante, con cultivar che si sono dimostrare resistenti al batterio, questo come alternativa all’abbattimento. Infine, complimenti per la tua coltivazione ed auguri perché i tuoi ulivi, possano raccontare della loro esistenza nei secoli futuri.

      http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/lecce/cronaca/15_giugno_27/xylella-sei-varieta-ulivo-immuni-voce-dell-ulivo-cresce-speranza-67cf2e3e-1cf9-11e5-955d-490978ce1401.shtml
      https://www.cnr.it/it/comunicato-stampa/7411/scoperta-un-altra-cultivar-di-olivo-resistente-alla-xylella

  2. Renato

    Trovo l’articolo di Donato Barone, ampiamente condivisibile: non c’è possibilità di tornare ad un’agricoltura dall’aurea bucolica, senza che si corra il rischio di ritrovarsi con la dispensa in riserva, fermo restando l’altrettanto fortemente condivisibile ed auspicabile necessità di limitare (magari azzerare) gli sprechi di cibo, che sono un’offesa alla dignità del lavoro e delle persone che quel cibo, non possono permetterselo.
    L’applicazione di tecniche c.d. biologiche in agricoltura, può trovare interessati applicazioni o importarti ritorni al passato (ma meglio sarebbe dire al futuro), più prettamente per alcune (e non tutte) colture arboree. Facciamo un esempio: chi scrive, lo fa dalla Puglia, regina incontrastata del reame dell’olivicoltura italiana e che purtroppo, negli ultimi anni, sta affrontando l’aspra lotta contro la Xylella, di cui certamente sapete.
    Orbene, in attesa di una soluzione univoca e definitiva contro il batterio (e la vedo dura) e per tentare di svincolarsi dalle soluzioni che la UE ha imposto alla Regione, alias misure di lotta obbligatoria,( leggi sradicamento delle piante infette!) le vecchie pratiche agricole che i nonni operai, tra trulli e Salento conoscevano bene (e qui siamo al biologico o quantomeno al simil-biologico) tornerebbero sicuramente utili ad arginare l’infezione, con ottime probabilità di successo.
    Le scerbature e le arature, che eliminano le possibilità di proliferazione della Sputacchina, vettore principale della Xylella, le potature regolari e l’uso (saremo ancora nel biologico? Io dico di sì) della poltiglia bordolese, quale estrema “arma chimica”, ma di storica efficacia contro le più diffuse fitopatologie dei nostri campi, sicuramente sarebbe un insieme più valevole della desertificazione imposta ad oliveti, nati quando queste terre, sentivano parlare il latino ed anche il greco antico.

  3. Riccardo Magnani

    Qualcuno mi deve spiegare come si fa a produrre riso bio. Io le mondine non ne vedo.

  4. Luca Maggiolini

    Io mi limito a considerare che quando TUTTA l’agricoltura era veramente biologica, la vita media era molto meno della metà di adesso, e le carenze alimentari croniche erano la normalità.
    Se con la – secondo alcuni – pessima agricoltura industrializzata siamo arrivati a oltre 80 anni di vita media, evidentemente così male non fa. O no?
    Credo che, al di là dell’ovvia considerazione che non bisogna esagerare con i trattamenti non indispensabili, si tratti di una moda per vendere a 10 quello che si trova anche a 3.
    E vogliamo parlare della immane boiata dei grani antichi, con la conseguenza di prediligere il mais “naturale 100%”, che contiene aflatossine altamente tossiche, contro quello OGM che le ha eliminate (che poi grani antichi un par di ciufoli sono; a parte quella schifezza del farro monococco la stragrande maggioranza hanno si e no 100 anni a stare larghi….).
    Ben pochi possono permettersi roba tipo UN melograno bio UNO a 5 euro. Ma guarda caso chi sostiene sta roba è uno dei depositari della verità, neomalthusiano ovviamente, e che si vorrebbe arrogare il diritto di decidere chi può e chi non può campare su questo pianeta.

    • Maurizio Rovati

      “Credo che, al di là dell’ovvia considerazione che non bisogna esagerare con i trattamenti non indispensabili”

      Forse il trucco sta proprio lì.
      Non si risolvono i problemi legati all’abuso della chimica in agricoltura e allevamento (ormoni, antibiotici…) e contemporaneamente si presenta la panacea del ritorno al passato, alias si stava meglio quando si stava peggio.
      Tipico della politica.

    • Luca Rocca

      Per dimostrarmi che siano grani veramente antichi devono avere piante alte fra il metro e cinquanta e il metro e ottanta.Se guardi i covoni di Bruegel ti rendi conto delle altezza originali di questa pianta
      http://www.ibiblio.org/wm/paint/auth/bruegel/harvesters.jpg
      Credo che nessun grano sia sopravvissuto alle modifiche genetiche del primi anni del secolo scorso da quando Strimpelli introdusse il gene del nanismo del grano. Anche trovare i grani originali di Strimpelli e’ quasi impossibile.
      Il grano più’ antico in circolazione potrebbe essere un ibrido sviluppato fra gli anni 50 e 60 del novecento

    • Luca Maggiolini

      Esatto, e a quelle altezze l’allettamento sarebbe così diffuso che rese del 50% te le scordi proprio… per non parlare della ruggine nera….
      Forse qualcuno dimentica (o non sa? o fa finta di…?) che al tempo dei “favolosi” grani antichi, un anno o due di cattivo raccolto = carestia >>>> morte per fame per quasi tutti. Altro che “problemone!!!!whatsapp oggi è lento, non funziona…..”

  5. Luca Rocca

    Avendo per ragioni storiche sempre avuto un orto ed un vigneto, coltivato biologicamente, posso assicurare che il rendimento è diviso al 50% con bruchi lumache uccelli topi , cinghiali e di recente anche con un grosso e irritabile tasso
    A parte l’uso abbondante di piombo in grossi grani che i bracconieri applicano con il mio permesso per limitare i cinghiali non uso quasi anticrittogamici semplicemente perché altri impegni mi impediscono di effettuare tutti i trattamenti dei bollettini regionali.

    • donato b.

      Lotta biologica “mirata” a quanto vedo! 🙂
      Circa la resa concordo in pieno: anch’io ho un orto, alcune viti, un oliveto ed un frutteto.
      A volte capita anche di dividere in proporzioni diverse: quest’anno per le mele e le pere abbiamo fatto 100 a 0: 100 per i vermi e 0 per me. 🙁
      Ciao, Donato.

    • rocco

      Non potete assolutamente confrontare l’agricoltura biologica fai da te con quella di aziende specializzate che ormai sono vere e proprie industrie, immagino anche con la capacità di investire e usare i progressi descritti dall’agronomo. La resa, è qualcosa su cui si può comunque lavorare e dipende molto dalla capacità di effettuare investimenti da parte delle aziende. Non bisogna poi mai confondere Km0 con biologico, oggi più che mai non legati uno all’altro. Questi studi sono importanti perché fotografano una situazione ma sono assolutamente irrealistici nel non poter quantificare i progressi tecnologici. Ultima cosa: non è per nulla da sottostimare la diminuzione dell’eutrofizzazione e dell’inquinamento delle falde.

    • Alessandro(Foiano)

      Si fanno le analisi ai prodotti per certificarli biologici l’assenza di tossine, gliphosate, cadmio, ecc?
      non mi risulta purtroppo.

  6. Fausto Cavalli

    Ringrazio per l’interessante articolo che può essere spunto per alcune ulteriori riflessioni. Da agronomo mi sto interessando alle produzioni biologiche, non tanto spinto da motivazioni ideali, quanto perchè le coltivazioni biologiche stanno cambiando e stanno diventando un’opportunità economica per un maggior numero di agricoltori. In sostanza la sfida sarebbe di unire il vantaggio economico al rispetto dell’ambiente. Innanzi tutto grazie ad innovative tecniche di coltivazione, non è più vero che un campo di mais biologico produce la metà di quello condotto con sistema convenzionale. La grande sfida consiste nel poter eliminare i diserbanti tramite un mix di tecniche agronomiche e diserbi meccanici. In questo caso l’innovazione tecnologica che sta apportando l’agricoltura di precisione” è veramente epocale; sensoristica avanzata e big data, possono favorire un’agricoltura biologica competitiva rispetto a quella convenzionale. Si pensi che esistono oramai sistemi robotizzati, non prototipi, che sanno riconoscere le erbacce tramite sensori ottici e efficacemente strapparle dal terreno. Un accenno poi alla questione dell’azoto: di solito si pone sotto accusa quello di origine animale quale inquinante delle falde acquifere padane. In realtà da un relativamente recente studio effettuato dal CNR, si è dimostrato che l’azoto di sintesi (urea e nitrato ammonico) sono i più frequenti responsabili dell’inquinamento. Aggiungo che quest’azoto è di per sè uno scarto della lavorazione del petrolio…. In fine, pensiamo ad un altro aspetto: la produzione agricolo è spesso di commodity, cioè di prodotti identici, sia che vengano realizzati in Italia, che ad esempio in Polonia (es. latte). E’ ovvio che il costo di produzione di un litro di latte in Polonia è inferiore rispetto a quello stesso realizzato in pianura Padana, ma alla fine è latte uguale. Ecco che allora la produzione biologica potrebbe diventare un’opportunità, non tanto per tutti gli agricoltori, ma per una parte significativa e che intende dare maggior valore aggiunto alla propria produzione, favorito magari dalla vendita diretta.

    • Fabrizio Giudici

      … sensoristica avanzata e big data, possono favorire un’agricoltura biologica competitiva rispetto a quella convenzionale. Si pensi che esistono oramai sistemi robotizzati, non prototipi, che sanno riconoscere le erbacce tramite sensori ottici e efficacemente strapparle dal terreno.

      Ma quanto costano? Di che tipo di infrastruttura abbisognano? Autonoma o connessa? E come funziona il mercato della relativa tecnologia, ovvero si possiedono le soluzioni o si va di licenza d’uso? Mi spiego: quanto mettono l’agricoltore in condizione di sudditanza nei confronti del produttore di software? Perché sarebbe paradossale paventare la schiavitù dei contadini nei confronti dei produttori di semi, per poi farli finire nelle mani di qualche multinazionale del software.

      Te lo chiedo da ignorante totale di agronomia, ma da ingegnere del software sempre più preoccupato da certi trend… Io sono già molto preoccupato dal fatto che ci siano sin troppe macchine nella vita di ogni giorno (dalle auto agli elettrodomestici) sotto il giogo del software, per cui figurati quanto mi preoccupo se vedo questo trend anche in agricoltura…

    • donato b.

      “Ecco che allora la produzione biologica potrebbe diventare un’opportunità, non tanto per tutti gli agricoltori, ma per una parte significativa e che intende dare maggior valore aggiunto alla propria produzione, favorito magari dalla vendita diretta.”
      .
      Sotto questo punto di vista concordo in pieno. Ecco perché parlavo di produzione di nicchia o, per essere più precisi, di produzione a costi più elevati che può incrociare un ben preciso segmento di mercato formato da persone desiderose di utilizzare prodotti biologici.
      Per quel che riguarda gli altri aspetti del commento circa l’utilizzo di strumentazione asservita a software specifico (agricoltura di precisione) condivido le perplessità di F. Giudici. Ho avuto problemi con la macchina ed ho dovuto sostituire un regolatore di flusso asservito al computer di bordo. Il software della centralina di controllo non riconosce il componente per cui è necessario impostare una routine di apprendimento che, però, non vuole funzionare. Nel frattempo la mia auto continua a fare le bizze ed io sono in attesa che qualcuno mi risolva il problema. I computer sono una specie di panacea… fino a che funzionano. 🙂
      Ciao, Donato.

    • Fabio

      L’azoto che finisce nell’ammoniaca e nitrati è quello atmosferico; i combustibili fossili servono a rimuovere l’ossigeno e per fornire energia al processo. Ê così dal tempo di Fritz Haber.

  7. Luigi Mariani

    Caro Donato, grazie per aver commentato l’articolo apparso su Nature. Debbo anzitutto irti che concordo appieno con le tue conclusioni.
    Tuttavia a mio avviso un aumento delle superfici coltivate dal 16 al 33% ipotizzato dagli autori dell’articolo da te recensito è troppo ottimistico nel senso che i cali di resa per colture di pieno campo sono più consistenti (si veda ad esempio qui: Luigi Mariani, 2016. “Tutti i numeri dell’agricoltura biologica negli USA”, su Agrarian Sciences (https://agrariansciences.blogspot.it/2016/10/tutti-i-numeri-dell-agricoltura.html) e mi portano a pensare a un raddoppio delle superfici coltivate per far fronte al caro del rese che si avrebbe nell’ipotesi di fare solo biologico.
    Inoltre osservo che il 50% dell’azoto che compone le nostre proteine proviene oggi dai processi chimici di sintesi che estraggono azoto dall’atmosfera e che i biologici rifiutano. Non credo proprio che con le sole leguminose si riesca a surrogare una tale fonte più che mai benemerita.
    Evidenzio anche che, contrariamente a quanto pensano i nostri concittadini, i biologici usano molta chimica per combattere i parassiti. Al riguardo nessuno pare porsi il problema delle montagne di rame che come solfato vengono usate nel biologico come fungicida e che poi rimangono nel terreno per sempre (il rame è un metallo pesante tossico per molte forme di vita acquatica e non solo).
    Rilevo anche che l’attività agricola è biologica per eccellenza e che per ridurre la chimica (oggi più che mai necessaria per salvare i raccolti da malerbe, insetti, crittogame, batteri, ecc.) si dovrebbe investire in genetica innovativa, cosa che chi fa bio rifiuta nel modo più assoluto alimentando pittoresco culto delle “varietà antiche”.
    In sostanza una nicchia, costosissima e più che mai retriva anche sul piano culturale: tutte le volte che dicono che un molecola di urea sintetizzata dal’azoto è profondamente diversa dalla molecola del tutto uguale che esce dalla pancia di un bovino sento che Lavoisier si rivolta nella tomba…
    Aggiungo infine che grazie a una pubblicità martellante che parla di una presunta “maggiore salubrità” trascinano persone semplici e magari non dotate di grandi mezzi economici a sperperare denaro per seguire la moda, e questo lo trovo eticamente molto scorretto. Lo stato dovrebbe intervenire per evitare quello che a mio avviso è un abuso di credulità popolare.

    PS: circa la presunta “maggiore salubrità” segnalo:
    – l’articolo di Altro consumo “Io non credo in bio” scaricabile qui: http://www.altroconsumo.it/nt/nc/articoli/non-crediamo-in-bio
    – il ceppo di E. coli O104 produttore di tossine che ha dato 54 morti e 10.000 ricoveri ospedalieri in Germania nel 2011 per cibi (germogli di fieno greco) da provenenti agricoltura biologica (Frank et al., 2011. Epidemic Profile of Shiga-Toxin–Producing Escherichia coli O104:H4 Outbreak in Germany, The New England Journal of Medicine, 365, nov. 10, 1771-1780).

    • donato b

      Caro Luigi, ti ringrazio per le considerazioni che integrano e completano il mio post.
      Particolarmente interessante la precisazione circa l’entità dell’incremento di suolo necessario a compensare le minori rese del biologico rispetto a quelle dell’agricoltura convenzionale.
      Anche le tue considerazioni circa l’insufficienza dell’apporto proteico da leguminose rispetto a quello degli alimenti di origine animale, mi sembrano particolarmente illuminanti.
      Ciao, Donato.

    • Alessandro(Foiano)

      C’è bisogno di una legge che imponga a chi ritira e ammassa il prodotto agricolo di verificarne la qualità.
      Si darebbe il giusto valore al prodotto di chi opera in modo
      convenzionale e di chi opera in modo biologico.
      Cerchiamo di avere ben presente che il biologico non viene analizzato qualitativamente per delle sue caratteristiche fisico-chimiche. Basta un certificato e non c’è nessun controllo del prodotto che oggi viene fatto per grarantire la salubrità di un prodotto anzichè di un altro.
      Questa secondo me è la grossa pecca che ha il sistema agricolo. Se ci fosse un metodo qualitativo per stabilire il prezzo del prodotto tutto queste mode senza senso sparirebbero e il consumatore avrebbe le idee più chiare di come le ha adesso.

  8. Alessandro

    “quella biologica che dovrebbe continuare a restare anche nel prossimo futuro un’agricoltura di nicchia destinata a soddisfare alcune fasce di popolazione piuttosto esigenti e con discrete possibilità economiche.”
    Per la moda del biologico anche chi non ha discrete possibilità economiche farebbe i debiti pur di seguirla come fa seguendo tante altre mode..quindi credo possa essere più che di nicchia l’agricoltura.

    • donato b

      Alessandro, a questo non avevo pensato.
      Ciao, Donato.

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