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Alpi: meno sci, più frantoi

Anche il secondo articolo della Rassegna Straccia 2018 attinge ad una perla del Fatto Quotidiano. In realtà si tratta di un pezzo di un paio d’anni fa, ma come la grande letteratura anche il grande giornalismo è immune dai segni del tempo.

L’articolo, a firma di Fabio Balocco (“ambientalista e avvocato”), è inserito nella sezione Ambiente & Veleni, e invita l’industria dello sci a “farsi una ragione dei cambiamenti climatici”, fin dal titolo. Niente di nuovo sotto il sole: si parla di record di caldo e di conseguente mancanza di neve, e ovviamente si attribuisce il tutto alla nefasta influenza umana “Perché oramai non vi sono più dubbi circa il fatto che noi, sulla nostra pelle, stiamo già subendo le conseguenze di ciò che abbiamo creato: il cambiamento climatico”. E siccome l’aumento delle temperature “appare evidente nella sua drammaticità ed altresí inarrestabilità” alle stazioni sciistiche tocca solo adeguarsi.

Non è molto chiaro in cosa consista l’adeguamento di cui parla Balocco. Sembra di capire, comunque, che si auspichi l’abbandono dell’industria sciistica stessa per perseguire opportunità più in linea con l’inevitabile arrostimento collettivo: “Oramai nella Valtellina di Bormio si coltivano gli ulivi. Se ne facciano una ragione”.

Qualche riflessione

La religione della Decrescita (in)Felice non fa sconti a nessuna industria: che si tratti di chimica, energia, estrazione mineraria o sci, poco importa. Forse è la stessa parola “industria” a fare paura nell’Italia di oggi, magari proprio nella sua accezione latina di “attività, operosità, energia, zelo, cura, industriosità”. Eppure anche quella dello sci, come altre industrie, il suo contributo al sostentamento degli italiani lo dà, eccome: giusto per rimanere in Valtellina (il presunto eldorado olivicolo vagheggiato nell’articolo) ogni anno si fatturano più di 200 milioni di euro per il solo giro d’affari collegato all’ospitalità nei comuni in cui si pratica lo sci.

La stagione sciistica 2017-2018, del resto, promette di essere da record grazie alle generose nevicate che hanno premiato tutto l’arco alpino fin dall’apertura di stagione, Valtellina compresa. Che lo sci sia esposto alle bizze del tempo atmosferico non è comunque una scoperta recente. Semmai, sarebbe il caso di sottolineare che oggi si riesce a sciare anche in annate difficili grazie all’innevamento artificiale (demonizzato anch’esso nell’articolo), a differenza di quanto accadeva 30 anni fa in occasione delle disastrose stagioni sciistiche di fine anni ’80.

Altro che climate change

Se proprio si vuole parlare dei problemi dell’industria dello sci in italia, sarebbe forse il caso di guardare altrove. Ad esempio, ad una burocrazia kafkiana che rende quasi impossibile aprire nuovi impianti sciistici a causa dell’abitudine molto italica di ricorrere in tutti i gradi di giudizio per evitare il sanzionamento di nuovi progetti: ennesima tristissima similitudine con le altre (ex-)industrie italiane.

Non a caso, al sabba infernale dell’italburocrazia e del furore ambientalista sfuggono proprio le regioni autonome come il Trentino Alto Adige, che di impianti sciistici ne costruiscono a manetta, con aumento conseguente dei profitti. Mentre, per esempio, in Val Pusteria si realizzava un modernissimo collegamento tra due comprensori sciistici con conseguente esplosione del fatturato, a pochi chilometri di distanza dal confine regionale, a Livigno, il Consiglio di Stato chiudeva una farsa tragica fatta di ricorsi e contro-ricorsi da parte di Legambiente, Presidenza del Consiglio, imprenditoria e amministrazioni locali: 9 milioni andati in fumo, una funivia già acquistata, opere civili già avviate per un’opera considerata di “imperativo interesse pubblico” dallo stesso Consiglio dei Ministri. Tutto nel cesso, insieme alle ambizioni di rilancio del turismo livignasco, ma nel legittimo tripudio di Legambiente.

Quanto agli olivi…

Forse all’autore dell’articolo interesserebbe sapere che le testimonianze della coltura dell’olivo in Valtellina risalgono almeno al 1400, un tempo in cui di global warming antropogenico non si parlava, la gente non guidava il SUV e si lottava solo per la sopravvivenza. E non a caso è un’agricoltura eroica e di sopravvivenza quella valtellinese, nella sua massima espressione della viticoltura praticata sui terrazzamenti del versante nord della valle (solatio ed esposto a meridione). E grossomodo nelle stesse aree terrazzate si cerca di rinverdire oggi la coltivazione dell’olivo. Non certo a Bormio, come invece si lascia intendere nell’articolo, dove i rigori invernali non sono compatibili in alcun modo con la sopravvivenza della pianta.

Che nell’Italia dei veti e dei divieti, dell’ambientalismo da salotto, della burocrazia fine a se stessa e della decrescita infelice si predichi la coltivazione dell’olivo a 20 gradi sotto zero come alternativa all’industria dello sci alpino, non deve certo sorprendere. In fondo, è solo l’altra faccia della medaglia di chi invece predica lo spargimento di mulini a vento a perdita d’occhio col pretesto del “verde” per far pagare l’elettricità il doppio agli italiani (e arricchire una élite di speculatori).

Come direbbe De Filippo, ha da passà a nuttata. Speriamo solo che non sia troppo lunga.

 

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Published inAttualità

6 Comments

  1. […] perle del Fatto Quotidiano in materia di clima che cambia e di investimenti lungimiranti: allora si annunciava solennemente la fine della montagna per come la conosciamo, ovvero la fine della neve e soprattutto […]

  2. Franco Maria Nardelli

    ‘a nuttata non passa…
    Il Cristianesimo, con miracoli guarigioni e reliquie, è riuscito in pochi anni a far capire anche ai più grulli che Cristo era risorto per salvarci, e che se ne dovevano fare una ragione: comprare indulgenze e salvarsi l’anima.
    Purtroppo la genialità degli ambientalisti rispetto al clero cristiano è che l’inferno lo impongono anche ai non credenti vivi. e sono 2000 anni che non passa ‘a nuttata…

    • Alessandro2

      “In Italia colpite soprattutto Roma, Bologna, Cremona, Reggio nell’Emilia, Parma e Siracusa”.
      Fiuuu, sto a Piacenza, posso tenere i maglioni nell’armadio. Si vede che l’apocalisse è a macchia di leopardo.
      La cartina con i puntini che da gialli si fanno arancioni e poi rossi è fantastica, comunica ansia alla prima occhiata. Poi compare il pop-up con “gli articoli più letti” e il primo è “Tutti lo vogliono come Emily: la chirurgia all’ombelico è il nuovo trend” 🙂

  3. Renato

    Grazie Massimo per questo bell’articolo, che nella sua chiarezza, descrive, tra le altre cose, una situazione per questo nostro Paese, che sta diventando il preludio ad una debacle assoluta: quasi ogni tipo di industria sta davvero cedendo il passo al nulla, o quantomeno, alla gestione di visioni miopi e speculative (ai mulini a vento, come agli “specchi” che qui in Puglia lastricano e soffocano terre dove prima, vi crescevano vigneti ed ortaggi)

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