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All’Africa non basta la tortura del clima, ora si aggiunge anche quella dei media

Negli ultimi tempi ci siamo occupati spesso del tema dei cosiddetti “rifugiati climatici”, ossia di quanti già ora starebbero abbandonando le loro terre d’origine per il sopraggiungere di condizioni climatiche proibitive. Fenomeno inoltre che in base alle proiezioni dovrebbe assumere proporzioni bibliche negli anni a venire.

L’argomento, spesso sbandierato in modo scomposto e superficiale, trova accoglienza tanto nelle sedi più alte della comunicazione scientifica, leggi IPCC, quanto in quelle ancora più alte ma di matrice politica, come l’ONU o singoli capi di Stato, che fanno a gara a dichiararsi preoccupati per la pressione migratoria già alta che il climate change potrebbe esacerbare ulteriormente.

Così, dopo aver già fatto notare più volte sulle nostre pagine che attribuire al climate change i problemi di quanti già endemicamente vivono in condizioni socialmente, economicamente e politicamente impossibili è al limite della disinformazione, capirete che la notizia dell’uscita di un paper che dice più o meno le stesse cose non può non essere oggetto di segnalazione, nella speranza che il tema venga prima o poi riportato alle giuste dimensioni. Ecco qua, da Palgrave Communications, una rivista della galassia di Nature:

Assessing the relative contribution of economic, political and environmental factors on past conflict and the displacement of people in East Africa

In sostanza, si legge nell’abstract:

This study found that climate variations as recorded by the Palmer Drought Severity Index (PDSI) and the global temperature record did not significantly impact the level of regional conflict or the number of total displaced people (TDP). The major driving forces on the level of conflict were population growth, economic growth and the relative stability of the political regimes.

[…]

This study suggests that climate variations played little or no part in the causation of conflict and displacement of people in East Africa over the last 50 years. Instead, we suggest rapid population growth, low or falling economic growth and political instability during the post-colonial transition were the more important controls. Nonetheless, during this period this study does shows that severe droughts were a contributing driver of refugees crossing international borders.

L’articolo è di libera consultazione, e ne trovate anche un commento su Science Daily, che per una volta compone un titolo coraggioso:

Climate change not the key driver of human conflict and displacement in East Africa

Ora, l’argomento è certamente vasto e complesso, e ogni situazione andrebbe approfondita separatamente. Con riferimento alla Sirya ad esempio, abbiamo già chiarito che il problema è stato ed è in massima attribuibile alle scelte sconsiderate della leadership politica, ma ci sono tante altre realtà per così dire a rischio, molte di esse a noi pericolosamente vicine.

Ad esempio, alcuni mesi fa è uscito un libro in Italia dal titolo “Effetto serra effetto guerra“, di Grammenos Mastrojeni e Antonello Pasini – Ibis editore, nella cui presentazione, che chiarisce come sia necessario un approccio che tenga conto di tutti i fattori in gioco, con riferimento alle migrazioni che ci interessano più da vicino, si legge che “Le aree dove questi sommovimenti si originano hanno tutte qualcosa in comune: il clima che cambia, il deserto che avanza e che sottrae terreno alle colture mettendo in ginocchio le economie locali.

Assodato che il clima che cambia è qualcosa di comune a tutto il globo da sempre, dal punto di vista tecnico suscita interesse la notizia dell’avanzare delle aree desertiche, in un contesto che notoriamente sta invece vedendo il pianeta accrescere la sua vegetazione, per il contestuale contributo da un lato di tipo socio-economico di abbandono delle realtà rurali a beneficio di quelle urbane e dall’altro ambientale, per l’aumento del nutriente di base delle piante, l’anidride carbonica.

Dunque il Sahara si sta espandendo? Neanche a farlo apposta, alla fine di marzo è uscito un paper che da’ conto di questa tendenza, valutata nel periodo 1902-2013 in un cospicuo 10% di aumento della superficie desertica, sebbene con differenze tra le fasi invernale ed estiva.

Twentieth-Century Climate Change over Africa: Seasonal Hydroclimate Trends and Sahara Desert Expansion

Nel paper si deriva il trend delle dimensioni dell’area del Sahara da quelli delle precipitazioni, ma non solo, si individuano anche delle dinamiche di circolazione che potrebbero esserne all’origine attribuendo ad esse i 2/3 del trend e lasciando quindi ad un non meglio specificato cambiamento climatico di origine antropica l’ultimo terzo. Perché non meglio specificato? Perché sempre nel paper si tenta di fare una comparazione delle osservazioni con quanto previsto da una selezione di modelli climatici, riscontrando che sia a vasta scala che a scala ridotta, la modellazione di queste dinamiche è ancora… “challenging”, cioè diciamo così, difficoltosa. Dal momento che l’attribuzione delle dinamiche del clima alla forzante antropica è tutta modellistica, se i modelli non riescono a riprodurre efficacemente quel che accade, non si capisce come si possa aver fiducia di questa attribuzione.

E infatti, l’abstract del paper si conclude così:

The evaluation shows that modeling regional hydroclimate change over the African continent remains challenging, warranting caution in the development
of adaptation and mitigation strategies.

Tuttavia, l’ipotesi sembrerebbe confermata. Diamo però un’occhiata ad una delle figure principali del paper:

Non so a voi, ma a me sembra che la variazione più significativa sia relativa alle prime decadi del secolo scorso, noto periodo di aumento repentino delle temperature globali che non solo non è attribuibile a cause antropiche perché ancora non esistevano, ma non è neanche mai stato efficacemente riprodotto nelle simulazioni, proprio perché non se ne conoscono le origini.

Ad ogni modo, nel rispetto di argomenti tanto seri, che coinvolgono le vite di milioni di persone, non volendo peccare di superficialità al pari di chi fa roboanti affermazioni spesso prive di fondamento, le coordinate ve le abbiamo fornite, ora come sempre spetta a voi valutare.

Buona giornata.

 

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Published inAttualità

7 Comments

  1. Claudio Giorgi

    Un libro di Antonello Pasini non può che essere pro-AGW. Lo conosciamo, no? Quello del Kyoto fisso.

  2. ale.meteo

    Da quello che si può ricostruire, lo stato del bioma sahariano può mutare in base alla temperature degli oceani Atlantico ed oceano Indiano, anche in base alle condizioni presenti sui poli terrestri.
    Paradossalmente un’era glaciale rende meno umida l’atmosfera terrestre, l’umidità rimane intrappolata nei ghiacci perenni.
    Sarebbe ciò che deriva dalla condizione ENSO presente.

    Il bioma sahariano ed arabico muta in base alla forza dei monsoni. Se questa forza aumenta nel corso di un secolo, poco cambia, ma praticamente ci sono le condizioni, ai margini, per coltivare ed immagazinare acqua.

    Tuttavia bisogna averne la voglia o le capacità di fare.

    Per il resto è un fatto puramente di convenienza, non “svegliare” le genti africane. Sfruttare l’impatto socio-politico delle grandi nazioni africane. Usando un loro termine il “populismo” che muove certe moderne realtà africane.

    Tornando più nel tema, se invece questa forza monsonica cala drasticamente, la conseguenza è rapidamente le aree tropicali si inaridiscono. Il bioma tipo è la foresta di latifoglie o la savana. La foresta tenderà ad infittirsi se c’è un clima molto caldo ed umido. L’inibizione dei monsoni è data dalle fasi di rilascio della latenza oceanica pacifica.

    Sempre che in un dato momento, si possa chiamare ENSO. Non si spiega perché non dicono che un clima che tende al raffreddamento inaridisce, rimane sempre e comunque in base alle condizioni ENSO. Mentre un optimum climatico permette a molta acqua di affluire in determinate regioni (come la Mesopotamia) o di coltivare la vite nell’Europa del Nord. Non dicono neppure che se le variazioni climatiche globali, tendono a seguire un graduale raffreddamento, si mantengono determinate condizioni. Lo scorrere dell’acqua, la formazione di bacini d’acqua, altre forzanti come la poca o la tanta presenza di animali, in regioni come il Sahara o il deserto arabico.

    Dipenderà da come raffredderà il clima terrestre, in soldoni in forcing astronomico presente.

    Io del gelo o freddo che sia, non ho paura..

    Saluti

    • Luca Maggiolini

      Io del gelo o freddo che sia, non ho paura..

      Se la produzione di cibo crollasse del 30% per colpa del freddo, io avrei paura, soprattutto se fossi povero o non benestante.

    • ale.meteo

      @Luca Maggiolini
      cambiano domanda ed offerta.

      Secondo lei in Canada o altri paesi nordici, si mettono a piangere d’inverno?

      Magari può formarsi un’alta polare fuori sede che allunga l’inverno di qualche mese. Il clima problematico e torrido è quello dei mesi centrali estivi. Il peggio è la siccità che si prolunga e fa slittare l’Autunno. Se le temperature sono più basse, rimangono le ore di luce. Se permane un clima secco, si può effettuare qualche raccolto prima di Novembre. Per molti paesi nordici il problema gelo persiste meno se c’è influenza oceanica. Altri paesi sono enormi ed hanno modo di spostare attività altrove. Praticamente parliamo di probabilità e non si possono fare previsioni, quindi nemmeno allarmarsi.
      L’idea che la gente ha è da film… Ci si immagina barriere glaciali, inondazioni ed tanto altro, tutto repentino e da un’ora all’altra. L’influenza oceanica in zone già sviluppate permetterà di mantenere un certo stile di vita.
      Prima di vedere una calotta glaciale espansa ed effetti deleteri, come può esserlo l’apice dell’ultima glaciazione di wurm, facciamo tempo ad esserci estinti per qualche ragione… o ad essere su altri pianeti..

      Solo che alcune scelte socio-culturali e socio-politiche. Possono essere attualmente azzardate, tutto qua.. a quelle persone che sanno non frega nulla di nessuno.

      Larga parte di quel 30% di produzione agricola che lei indica, viene buttato nell’immondizia. Perché molto si spreca al giorno d’oggi. Qualcuno si azzardato (con giusta ragione..) a pensar di creare serre e condizioni ottimali sopra il suolo marziano..

      Per il resto in molti paesi africani non sanno sfruttare quello che hanno.

      A me fa paura il Sole ed il caldo.. Visto che la produzione agricola è cambiata in funzione del caldo, dopo la metà del xx secolo.

      Saluti

  3. Luca Rocca

    Interessante articolo ma da quanto vedo non considera l’effetto antropico, fino a qualche anno il taglio dellla legna per il riscaldamento e per cucinare e una pastorizia povera basata su ovini e capre era considerato uno dei fattori principali di espansione del Sahara . La deforestazione sui margini meridionali del Sahel , in un ambiente fragile portava all’ erosione del terreno ed all’ espansione del deserto di sabbia.
    sarei curioso di sapere se l’andamento esponenziale dei primi del novecento coincide con l’esplosione demografica legata al miglioramento delle condizioni sanitarie seguito all’ espansione coloniale europea .

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