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Per chi non lo avesse capito, comanda il mare

Per molti aspetti la questione è intuitiva, su questo pianeta c’è molta più acqua che aria e, dal momento che entrambi gli ambienti trasportano e conservano l’energia che ne regola la temperatura, chi ne ha di più è al comando.

In più, i processi con cui atmosfera e oceani compiono il loro lavoro, hanno luogo su scale temporali enormemente diverse. Pochi giorni o settimane per la prima, centinaia di anni per i secondi.

Capita che un gruppo di ricercatori abbia pubblicato un paper su questo argomento che farà discutere parecchio:

The Little Ice Age and 20th-century deep Pacific cooling

Uno studio che trovate spiegato in quest’altro articolo:

The long memory of the Pacific Ocean – Historical cooling periods are still playing out in the deep Pacific

In sostanza, nelle profondità oceaniche del Pacifico, sarebbe ancora in atto il raffreddamento conseguente al periodo climatico noto come “Piccola Età Glaciale” (1350-1850 circa), proprio quello che, insieme al periodo di riscaldamento precedente noto come Optimum Medioevale, una certa narrativa climatica impostata alla stabilità assoluta di un clima solo recentemente perturbato dalle attività antropiche vorrebbe che non fosse mai esistito.

Sulle implicazioni di questo paper torneremo più avanti, per ora penso di avervi procurato una lettura interessante per il week-end.

Enjoy.

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Published inAttualità

5 Comments

  1. robertok06

    Buonasera a tutti… se avete tempo/voglia guardare stasera su RAI3 alle 21:30 il servizio sul lungo addio al carbone… ho visto la presentazione e… ne vale la pena (se siete masochisti o vi piace confondere energia con energia elettrica, o potenza…).
    Buona visione! 🙂

  2. donato b.

    Oggi ho cominciato a leggere il report “Assessment of
    National Oceanic and Atmospheric Administration
    Scientific Integrity Policies and Procedures” che il lettore Diego ha segnalato in un suo commento ad un altro post qui su CM. E’ veramente molto interessante e richiederà una lettura attenta e ponderata.
    Criticai Karl et al., 2015 appena dopo la sua pubblicazione ( http://www.climatemonitor.it/?p=38303 ), contestando in particolar modo le correzioni al rialzo dei dati delle boe marine e le interpolazioni polari che avevano determinato la scomparsa della pausa o iato che dir si voglia.
    Alla luce del documento interno di NOAA credo che ritorneremo sulla questione. Oggi vorrei, però, porre l’accento su un altro aspetto del documento che calza a pennello con l’argomento di questo post.
    .
    Nella post-fazione (pag. 46) la Commissione scrive a chiare lettere: “For the ocean, almost all of the net
    energy of the earth from the sun is absorbed in its volume from the surface to the bottom. More
    quantitatively, in the atmosphere/ocean system, approximately 95 percent of the heat is in the
    ocean. Therefore, it is essential that scientists know where this heat is being stored in the ocean
    water column, and how it might be impacting the circulation of the ocean, not just in the near
    surface region, but also at depth.”
    Questo tema viene sviluppato ed approfondito nel corso della post-fazione fino a giungere alla conclusione che le previsioni dei modelli matematici potranno essere precise solo nel momento in cui riusciremo a conoscere in modo corretto tanto i valori delle temperature superficiali (regolate dalla CO2 e dal particolato e dalle nuvole, aggiungo io), quanto il contenuto di calore degli oceani. Oggi come oggi la conoscenza del contenuto di calore degli oceani, è molto approssimativa (come scrivevo nel commento precedente) per cui non siamo in grado di modellarlo in modo soddisfacente e, quindi, i modelli matematici di previsione del clima ne risentono in modo considerevole. Stesso discorso vale per le temperature superficiali, per cui gli autori auspicano un potenziamento delle reti SATELLITARI di rilevazione delle temperature superficiali.
    Non viene detto in modo esplicito, ma io in queste considerazioni leggo una critica, nemmeno tanto velata, all’inveterata pratica di interpolare dati misurati anche a distanza di migliaia di chilometri, per riempire le griglie dei modelli.
    .
    Sono quasi completamente d’accordo con il contenuto della post-fazione, per il resto del report credo che avremo altre occasioni per parlarne.
    Ciao, Donato.

    • Massimo Lupicino

      Solo degli ultimi 200? Non degli ultimi 20,000? Robetta.

  3. donato b.

    L’articolo segnalato da G. Guidi mi è sembrato molto interessante per diversi ordini di motivi.
    .
    In primo luogo voglio fare una premessa: la struttura portante del ragionamento degli autori sono delle misure effettuate oltre un secolo fa, delle misure effettuate qualche decennio fa ed un modello matematico che descrive l’evoluzione del profilo termico verticale dell’oceano in funzione delle temperature superficiali ed atmosferiche.
    La prova della correttezza delle elaborazioni effettuate, consiste nella capacità del modello di replicare l’evoluzione del profilo termico oceanico nel corso degli ultimi due secoli.
    Il volume oceanico indagato direttamente è estremamente ridotto (una piccola percentuale del totale) sia dal punto di vista temporale che spaziale. L’elaborazione modellistica riguarda un ampio intervallo temporale (diversi secoli) e una grossa percentuale della massa oceanica.
    Mi sembra che ci troviamo di fronte ad un’estrapolazione piuttosto impegnativa: i risultati di circa due secoli di dati vengono utilizzati per sintonizzare circa 20 secoli di simulazione: secondo me non va bene.
    Altrettanto perplesso mi lascia il grande intervallo di incertezza che caratterizza i risultati ottenuti.
    Lo scrivo quando i risultati di alcuni studi non mi piacciono e lo ribadisco anche per uno studio le cui conclusioni concordano con il mio pensiero: non mi sembra corretto utilizzare due pesi e due misure.
    .
    Da un punto di vista metodologico, però, l’articolo non si discosta molto da quelli che usualmente commentiamo, per cui, fatte salve le premesse, possiamo provare a individuare alcuni aspetti salienti dello studio.
    L’articolo manda a carte quarantotto una delle spiegazioni più accreditate del cosiddetto “calore mancante” o “mannaro” che dir si voglia. Studiando l’equilibrio termico del sistema, si è scoperto che i conti non tornano: manca una notevole quantità di calore. Secondo alcuni esso si sarebbe inabissato nelle profondità oceaniche, determinando un aumento delle temperature delle acque abissali: il calore mancante si troverebbe, quindi, in fondo al mare.
    Lo studio di cui ci stiamo occupando quantifica in secoli o addirittura millenni, il tempo impiegato dal calore superficiale per raggiungere le acque profonde. Pochi decenni non sono sufficienti e, pertanto, cade l’ipotesi tanto cara a K.E. Trenberth per spiegare la differenza tra gli output modellistici e le osservazioni.
    .
    Lo studio evidenzia, inoltre, un altro problema: l’evoluzione della circolazione oceanica. Possiamo essere certi che essa sia sempre stata così come la conosciamo oggi? Sembrerebbe di no, per cui appare poco significativo parlare di “senza precedenti” ad ogni dato un po’ fuori dall’usuale.
    .
    E per finire, leggendo l’articolo, appare evidente che prima di saltare a conclusioni definitive, bisogna fare i conti con l’immensa inerzia termica degli oceani. Essa è tale da costringerci a ragionare in termini plurisecolari. Ha senso, pertanto, andare a centellinare i record termici annuali, impiccandosi a pochi decimi di grado in più o in meno di anomalia termica, quando esiste un motore termico che lavora su tempi secolari? Secondo me no, ma non mi sembra che tutti la pensino così: in quel di Katowice hanno appena finito di spiegarci che manca poco più di un decennio al punto di non ritorno. Ecco: un decennio quando il principale motore termico climatico lavora in termini di secoli. Mah!
    Ciao, Donato.

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