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Nel corso dell’Olocene il clima è cambiato a causa della variabilità dell’ENSO

Molti dei lettori di CM sanno che uno dei principali fattori della variabilità climatica nell’emisfero meridionale del nostro pianeta, è l’ENSO (El Niño-Southern Oscillation): si tratta di un complesso fenomeno che coinvolge temperature superficiali del Pacifico meridionale, variazioni di pressione atmosferica e, quindi, circolazione atmosferica (alisei). Non voglio soffermarmi più di tanto sulle caratteristiche generali di questo fenomeno climatico in quanto, qui su CM, si possono trovare centinaia di articoli sull’argomento. In modo estremamente sintetico possiamo dire che durante le fasi ENSO+ (El Niño) si verificano condizioni di siccità in alcune aree del pianeta, mentre durante le fasi di ENSO (La Niña), nelle stesse aree si verificano condizioni molto più umide.

Un recente studio ha ricostruito il clima in una zona dell’Australia sud-orientale che risente molto della variabilità dell’ENSO e, quindi, è caratterizzata da periodi secchi e periodi umidi determinati da ENSO.

Holocene El Niño–Southern Oscillation variability reflected in subtropical Australian precipitation

di  C. Barr, J. Tibby, M.J. Leng, J.J. Tyler, A.C.G. Henderson, J.T. Overpeck, G.L. Simpson, J.E, Cole, S. J. Phipps, J.C. Marshall, G.B. McGregor, Q. Hua & F.H. McRobie (da ora  Barr et al., 2019)

Nell’immagine seguente, estratta dalla figura 1 di Barr et al. 2019, sono evidenziate le relazioni stagionali tra precipitazioni ed eventi ENSO, relativamente all’area considerata e per il periodo compreso tra il 1980 ed il 2016.

Sulla base di una carota prelevata sul fondo della  Swallow Lagoon, ubicata in prossimità di Minjerribah (North Stradbroke Island), i ricercatori hanno individuato reperti estremamente ben conservati di foglie appartenenti ad una specie endemica dell’area (Melaleuca quinquenervia). La carota è stata divisa in sezioni di un centimetro di spessore che rappresentano un intervallo temporale medio di circa 24 anni con estremi che vanno da 2 a 77 anni circa e, per ognuna di tali sezioni, è stato dosato l’isotopo del carbonio 13C. Si è provveduto, inoltre, a calibrare l’età della serie stratigrafica mediante dosaggio dell’isotopo 14C in fossili terrestri incapsulati negli strati della carota.

M. quinquenervia è una pianta di tipo C3, per cui il frazionamento degli isotopi di carbonio all’interno dell’apparato cellulare, risulta piuttosto sensibile al tasso di umidità ambientale ed è stato accuratamente tabellato dai ricercatori. Appare evidente, quindi, che è possibile risalire al tasso medio di umidità ambientale, a partire dal rapporto tra i vari isotopi del carbonio contenuti nelle parti vegetali della pianta. Nella fattispecie è stato possibile ricostruire l’umidità ambientale e, quindi, le precipitazioni lungo tutta la serie stratigrafica. L’arco temporale indagato, è pari a circa 7700 anni a partire dal presente che, secondo quanto scrivono gli autori, coincide con gli inizi degli anni ’50 del secolo scorso.

Stante quanto scritto in premessa a proposito di legami tra eventi ENSO e pluviometria nell’area considerata, è stato possibile, una volta ricostruite le serie pluviometriche dell’Australia sud orientale negli ultimi 7700 anni, risalire alle oscillazioni dell’ENSO nello stesso periodo. Ebbene, sulla base di queste considerazioni gli autori hanno potuto accertare che negli ultimi 7700 anni si possono individuare due grandi periodi climatici: da 7700 anni fa a circa 3000 anni orsono l’Australia sud-orientale fu caratterizzata da un clima mediamente umido, con elevato tasso pluviometrico, paragonabile a quello che succede nei periodi caratterizzati da ENSO negativo o neutro. Il clima risultava piuttosto stabile, caratterizzato com’era da oscillazioni a bassa frequenza con periodo plurisecolare. A partire da circa 3000 anni fa, invece, il clima è stato caratterizzato da maggiore variabilità e maggiore secchezza: come tende a capitare durante le fasi di ENSO positivo. In tale periodo, caratterizzato da una piovosità inferiore alla media dei secoli precedenti, si notano due periodi caratterizzati da una piovosità in linea con quella del periodo precedente, Di essa appare molto interessante, l’ultima, che coincide con la Piccola Era Glaciale (PEG o LIA).

Il motivo per cui tale periodo di elevata umidità mi ha interessato, riguarda la polemica circa la copertura globale o regionale della PEG. Numerosi studiosi di climatologia in generale e paleoclimatologia in particolare, hanno sempre sostenuto che la PEG sia stato un evento climatico regionale, al massimo emisferico e, quindi, confinato all’emisfero settentrionale del nostro pianeta. In Barr et al., 2019 il segnale della LIA è chiaramente visibile nei dati studiati, per cui dobbiamo dedurre che l’evento PEG sarebbe stato un evento di natura globale e non locale. Non è un fatto da poco e bisogna sottolinearlo con decisione. Così come bisogna sottolineare la circostanza che questo periodo umido non sembra essere conseguenza di una successione di eventi ENSO negativo perché dati di controllo relativi ad altri proxy, tendono ad escluderlo. Diciamo che alcuni cambiamenti climatici verificatisi nell’Australia sud-orientale non sembrano conseguenza dell’ENSO, ma di situazioni ancora poco chiare.

In merito alle cause che hanno determinato lo shift da condizioni umide a condizioni secche e, quindi, da condizioni caratterizzate da fasi di ENSO negativo a periodi caratterizzati da fenomeni ENSO positivo, gli autori, pur non escludendo altre cause, propendono per variazioni dei parametri orbitali terrestri.

Come è mia abitudine, allo scopo di rendere più facilmente comprensibile la questione, ho semplificato molto i termini del problema, ma in Barr et al, 2019 ampio spazio viene dedicato alla trattazione matematica dei dati utilizzati per giungere alle conclusioni. E’ mia intenzione, in questa occasione, però, soffermarmi brevemente sulla metodologia utilizzata da Barr et al., 2019, per desumere dai dati a disposizione le loro conclusioni. Dal punto di vista sostanziale null’altro bisogna aggiungere alle conclusioni di Barr et al, 2019, per cui chi non è interessato alle particolarità matematiche dello studio, può interrompere la lettura a questo punto.

Barr et al., 2019 presenta una peculiarità che si riallaccia ad un articolo pubblicato qui su CM dall’amico F. Zavatti. In questo articolo il prof. Zavatti mette in evidenza la problematicità dell’individuazione dei punti di variazione della pendenza di un fit di dati o, per far ricorso ad uno dei soliti anglicismi che infarciscono la letteratura scientifica, di variazione del trend. Quando si analizzano dei dati scientifici, quasi mai ci si trova di fronte a punti disposti in modo ordinato, ma a nuvole di punti da cui bisogna estrarre dei segnali lineari, quadratici o polinomiali di vario ordine. In campo climatico il problema è acuito dal fenomeno dell’autocorrelazione dei dati di cui si dispone. L’autocorrelazione o persistenza comporta che i valori assunti da una variabile, dipendono dai valori che essa ha assunto nel passato: ad un giorno caldo, tende a seguire un giorno caldo, per cui se io assumo che la temperatura in un certo luogo dipende dall’insolazione di una certa area, posso essere tratto in inganno dal fatto che, pur in presenza di una giornata nuvolosa, la temperatura del giorno è diversa da quella deducibile dalla legge da me ipotizzata, in quanto il giorno precedente è stato un giorno caldo.

Esistono metodologie statistiche che consentono di eliminare le persistenze e, quindi, ridurre gli effetti dei fenomeni di autocorrelazione e che sono state originariamente concepite per risolvere problemi econometrici e/o finanziari. Barr et al., 2019, utilizza un metodo piuttosto sofisticato noto come  Modello Additivo Generalizzato a Scala di Posizione (GAM-LS). In termini molto elementari si tratta di un modello basato sulla somma (additivo) di due o più funzioni che esprimono alcuni indicatori statistici in funzione di alcune variabili e di parametri numerici. Nel caso in esame si sono analizzati la media e la deviazione standard delle concentrazioni dell’isotopo 13 del carbonio, ovvero i parametri caratterizzanti la distribuzione gaussiana dei dati stessi. Il vantaggio di questo metodo d’analisi è che non bisogna conoscere le funzioni che legano i predittori statistici alle variabili. Nello studio di cui ci occupiamo si è partiti dall’ipotesi che il generico valore della concentrazione dell’isotopo 13C, abbia distribuzione gaussiana caratterizzata da una deviazione standard ed una media. Si sono fissate, inoltre, due funzioni che legano la deviazione standard e la media al tempo e ad altri parametri numerici. In tal modo si è definito il modello GAM. Si è provveduto, infine, ad individuare delle funzioni continue del tempo dette spline o anche di smooth o di “lisciaggio” che, opportunamente combinate tra loro, siano in grado di restituire le funzioni del modello. Le funzioni spline, normalmente, sono funzioni algebriche derivabili almeno due volte, in modo da porre delle condizioni sulla loro derivata seconda. La possibilità di derivare le funzioni in corrispondenza dei nodi della griglia costituente i dati, consente la rimozione della persistenza dai dati e, quindi, la stima più accurata del predittore statistico. Nel caso in esame, essendo i dati non a passo costante, si sono utilizzate le differenze finite invece delle derivate, ma il discorso non cambia più di tanto.

Barr et al., 2019 hanno utilizzato le librerie di R per elaborare questo tipo di modello ed hanno potuto accertare la varianza del campione analizzato in funzione del tempo. Essi hanno fatto girare anche un modello in cui hanno eliminato la seconda funzione continua del tempo (a titolo di test statistico) senza notare variazioni significative della varianza degli estimatori. Allo scopo di irrobustire l’analisi statistica, si sono utilizzati, infine, un migliaio di dataset sintetici generati casualmente: le elaborazioni hanno consentito di appurare valori del coefficiente di determinazione R2 molto alti per i dati della carota e molto più bassi per gli altri.

Come si vede Barr et al., 2019, ha utilizzato un armamentario matematico di grande potenza, fortemente radicato in ambito statistico, per cui possiamo affermare che i dati sono stati trattati in modo conforme alle regole dell’arte. I risultati ottenuti sono, però, a prova di errore? No, ovviamente. Diciamo che per quanto consente la tecnologia d’indagine attuale, possiamo fidarci dei risultati, ma da qui a dire che essi sono verità rivelata, ce ne passa.

Essi dimostrano, comunque, che il clima terrestre cambia a ritmi plurisecolari o secolari da oltre 7000 anni e che tali cambiamenti sono guidati da cause naturali la principale delle quali, per l’area in questione, è rappresentata dall’oscillazione ENSO che, fino ad oggi, è sempre stata considerata un’oscillazione naturale. Sembrerebbe, però, che anche questa certezza abbia i giorni contati. Barr e colleghi si chiedono, infatti, come e quanto cambierà ENSO in un clima più caldo? Oddio, lo avranno scritto per inquadrare il lavoro in una luce più favorevole ad un referaggio breve e positivo, ma è scritto nell’articolo. Non trova alcun riscontro nei i dati raccolti ed analizzati, ma certamente il suo effetto non è stato trascurabile visto alcune tesi un poco eretiche contenute nello studio.

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Published inAttualitàClimatologia

2 Comments

  1. Caro Donato, l’articolo che hai commentato è molto interessante e come al solito la tua descrizione è molto chiara.
    Barr e colleghi affrontano molti argomenti, alcuni soggetti alle incertezze tipiche delle analisi paleoclimatiche, che richiedono tempo per essere
    approfonditi.
    Mi sono concentrato sui dati di precipitazione da 7600 anni fa ad oggi (1950): i dati sono resi disponibili dagli autori e sono rappresentati nella figura acclusa (la figura 2 dell’articolo è quasi illeggibile), disponibile
    anche a http://www.zafzaf.it/clima/olocene/barr-rain.pdf o .png.
    Ho calcolato anche i fit lineari di tre sezioni del dataset (linee azzurre) che secondo me sono significative: tra 3000 e 7600; tra 0 e 3000 e tra 0 e 925 anni fa. Intanto posso confermare l’esistenza dei due regimi pluviometrici che evidenzi anche tu: a prima vista le due rette orizzontali non sembrano statisticamente diverse, ma il test di student mostra che invece lo sono con una confidenza superiore al 99.9% (il test e i parametri dei fit sono disponibili a http://www.zafzaf.it/clima/olocene/barr-rain.app ). Passata la fase stabile più secca, le piogge aumentano dal periodo caldo medievale fino a tutta la LIA, per poi crollare vistosamente. Questi crolli sono evidenti e di aspetto simile all’interno delle bande gialle e forse sono segni di ENSO che io però non sono in grado di identificare. Da notare che queste “improvvise” siccità non sono presenti nei quasi 5000 anni precedenti. Ho qui identificato le bande gialle con i nomi che si usano
    nell’emisfero settentrionale anche per sottolineare, Donato, che concordo con te nell’ attribuire un significato globale almeno alla LIA (ma forse anche
    agli altri due periodi, con qualche incertezza in più).

    Poi mi sono concentrato sulla persistenza: il grafico in basso mostra la funzione di autocorrelazione (ACF) dei dati di pioggia Barr et al., 2019.
    Certamente questa serie soffre di persistenza ma, a mio parere, non particolarmente accentuata (per confronto, vedere ad esempio in
    http://www.zafzaf.it/clima/cm100/atlas.pdf
    le ACF dei dati NOAA o quella delle piene del Nilo). E’ vero che i 281 dati osservati corrispondono a solo 7
    dati non correlati, ma rispetto ad altri casi la persistenza non mi sembra estrema.
    Nei prossimi giorni proverò ad approfondire altri aspetti dell’articolo e, se riesco, commenterò ancora. Ciao. Franco

    Immagine allegata

    • donato b.

      Caro Franco, mi fa piacere che anche la tua analisi ha fornito risultati che confermano le conclusioni di Barr et. al., 2019: intorno a 3000 anni fa ci fu lo shift che portò il sistema climatico da una situazione caratterizzata da prevalenza di fasi ENSO negative a condizioni opposte. Non si tratta, quindi, di un artificio di calcolo, ma di un fatto.
      Concordo con te circa gli eventi di profonda siccità che caratterizzano il secondo periodo (da 3000 anni fa ad oggi,): nel periodo precedente erano quasi assenti. Questo denota una spiccata variabilità che, pertanto, potrebbe essere considerata tipica dei periodi dominati dalla fase positiva dell’ENSO.
      Tentando di portare il discorso ai giorni nostri, considerato che le fasi positive dell’ENSO sono prevalenti anche oggi, quelli che si definiscono “eventi estremi” potrebbero essere attribuiti a questa particolare fase dell’Oscillazione Meridionale (almeno nell’area del Pacifico e nell’emisfero australe)? Nell’articolo non se ne parla, ma io credo che la cosa sia possibile.
      .
      Per quel che riguarda la persistenza, nell’articolo non se ne fa menzione specifica, ma il metodo statistico utilizzato è stato pensato proprio per i dati con persistenza. Almeno a quanto è scritto nella bibliografia pacificamente accettata cui ho fatto ricorso per poter comprendere meglio il metodo: dall’articolo di Barr e colleghi non è che si riesca a capire molto circa la metodologia matematica utilizzata. Poiché tu hai potuto accertare che la persistenza dei dati è piuttosto bassa, si vede che Barr e colleghi hanno voluto sparare ad un passero con il classico cannone. 🙂
      .
      Ti ringrazio, infine, per aver ampliato e completato il mio scritto.
      Ciao, Donato. ‘

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