Salta al contenuto

In vacanza su un’isola……di calore!

[photopress:population_small.gif,thumb,pp_image]Uno degli aspetti più controversi del dibattito sull’effettiva profondità della nostra impronta ambientale è senz’altro la comprensione del mix di variazione di destinazione d’uso del suolo, cementificazione, produzione di calore per attività industriali etc. etc., che la letteratura ambientale conosce come “Isola di calore urbana”. Eppure arrivare a comprendere quanto effettivamente possa essere pesante questo effetto è assolutamente necessario per comprendere il comportamento del clima anche a scala globale. Gli ultimi 150 anni, già sul banco degli imputati per aver visto crescere a dismisura le attività industriali e le conseguenti emissioni di gas ad effetto serra, hanno anche visto aumentare moltissimo l’urbanizzazione del territorio, e dove le popolazioni non si sono spostate in massa verso le città, in pratica sono queste ultime ad essersi spostate verso di loro. Pensiamo ad esempio alla Pianura Padana, una vasta area rurale divenuta ormai una zona urbana densamente popolata. Se dovessimo prendere in esame il trend della temperatura, quando esattamente si dovrebbe cominciare ad applicare delle correzioni ai valori osservati per essere sicuri di eliminare il “rumore” del calore prodotto dalle attività urbane?

Una domanda alla quale è effettivamente molto difficile rispondere. Eppure in molti ci hanno provato, perchè le serie di dati osservati al suolo di cui si dispone, anche a livello globale, soffrono praticamente tutte di questo problema. Non solo. Le stazioni di osservazione spesso vengono spostate, i sensori sostituiti, oppure seppur nate in aperta campagna, finiscono per essere circondate dalle costruzioni. Insomma, alla fine i dati che vengono normalmente utilizzati per definire i trend di temperatura sono spesso molto lontani dalla realtà osservata. Questo è inevitabile, non c’è dubbio, per poter essere impiegati i dati devono essere resi omogenei. Però suscita un pò di sconcerto la semplicità di talune affermazioni.

“Diversamente da quanto generalmente accettato, nelle serie di temperature annuali non si identifica un impatto dell’urbanizzazione statisticamente significativo.”

Peterson 2003

Si tratta delle conclusioni tratte da uno studio di comparazione su 289 siti di osservazione negli Stati Uniti, divisi tra aree urbane e rurali e classificati in 40 cluster, nel periodo 1989-1991. La classificazione è stata fatta utilizzando i dati delle luci notturne rilevate da satellite (Owen et al 1989). Dopo aver applicato un considerevole numero di filtri allo scopo di correggere la disomogeneità dei dati, apparentemente non c’è differenza tra le tendenza delle temperature nelle aree urbane e rurali prese in considerazione. Questo lavoro è citato anche nel 4° Rapporto dell’IPCC del 2007, dove si assume:

“[…] Dopo le correzioni degli orari di osservazione ed altri cambiamenti, i trend delle stazioni rurali erano per lo più indistinguibili dalle serie che includono aree urbane (Peterson 2003, fig. 3.3[…]”

IPCC Fourth Assessment Report 2007

Il blogger Steve McIntyre si è tolto però lo sfizio di entrare nel merito di questa ricerca e delle conseguenti affermazioni. la prima operazione, che stranamente l’autore della ricerca non ha portato a termine, è stata quella di mettere in comparazione i dati prima di procedere a qualunque genere di correzione, per eliminare il rischio del bias. Del resto lo stesso autore, nell’abstract dell’articolo definisce le serie di dati spesso disomogenee e “biased“, per cui meglio lavorare con i dati grezzi, specialmente se quello che si vuol mettere in risalto è un trend, non una comparazione di dati assoluti. Una correzione dell’altitudine ad esempio, potrebbe non essere necessaria. [photopress:peters26.gif,thumb,pp_image]Qui di fianco c’è l’immagine con i risultati di questo primo screening dei dati. Le due curve, rispettivamente per le aree urbane e rurali, hanno un andamento molto simile, e questo è normale oltre che ovvio. E’ interessante però come risulti esserci una significativa differenza quando si applica la sottrazione. Una differenza in positivo, cioè, man mano che è intervenuto il cambiamento dovuto alla crescita delle aree urbane le anomalie di temperatura in queste zone sono diventate più accentuate rispetto a quanto non è accaduto nelle zone rurali.

Potrebbe essere una differenza dovuta agli orari di osservazione. Lo stesso Peterson riporta che le stazioni che fanno letture pomeridiane sono il 33% per le stazioni classificate come rurali ed il 35% per quelle urbane, però le prime hanno una percentuale del 53% di osservazioni antimeridiane e del 14% di letture notturne, rispetto al 37%  ed al 27% delle seconde. In sostanza secondo Peterson, la differenza di 0.7°C tra i due trend non sarebbe dovuta all’urbanizzazione quanto piuttosto ai diversi orari di osservazione, per cui, “aggiustandoli”, questa differenza cessa di essere significativa. E’ doveroso sottolineare che, nella fattispecie, la correzione non ha seguito le procedure ufficialmente documentate, ma è stata condotta seguendo le indicazioni di una tecnica (De Gaetano BAMS 2000) che presuppone la stima dell’orario di osservazione basandosi sulle proprietà delle stesse osservazioni. Di questa tecnica alquanto innovativa ed originale, non esiste una documentazione esplicativa non è possibile studiarne a fondo le proprietà statistiche, nè è stata mai utilizzata per correggere le serie storiche ufficiali.

Comunque, a prescindere dal metodo, vista l’evidente differenza che risulta dai dati grezzi, sembra alquanto azzardato affermare che l’influenza dell’urbanizzazione sia “statisticamente non significativa”. Entrando ancor più nel merito di questa pubblicazione McIntyre fa notare che alcune delle località classificate come urbane, in realtà sono tutt’altro che tali, e, neanche a dirlo, il loro ingresso nella categoria contribuisce non poco a mitigare i dati. Per intenderci se stessimo parlando del nostro territorio, Milano, Roma e Torino sono senza dubbio aree urbane, mentre Pratica di Mare, San valentino alla Muta e Santa Maria di Leuca sono zone rurali; se prendo Pratica di Mare e la inserisco tra le aree urbane molto probabilmente altererò il segnale. [photopress:peters27.gif,thumb,pp_image]Per cui, prendendo in considerazione soltanto le aree veramente urbane, che McIntyre identifica con la presenza di una squadra sportiva di serie superiore e di un certo numero di centri commerciali (originale oltre che efficace, non mi risulta che la Juventus giochi a Santa Maria di Leuca, nè che ci sia Mediaworld a San Valentino alla Muta), la differenza è più accentuata e, ovviamente, tende a diminuire negli ultimi anni, probabilmente perchè di zone veramente rurali ne rimangono davvero poche e quelle che prima lo erano ora soffrono anch’esse dell’urbanizzazione.

Tutto questo non risolve certamente il problema delle Isole di Calore Urbane, nè vuole attribuire a questo effetto tutto il peso della nostra impronta ambientale, però il fenomeno esiste, e non sembra molto realistico dire che non ci siano differenze statisticamente significative.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...Facebooktwitterlinkedinmail
Published inAttualità

2 Comments

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Categorie

Termini di utilizzo

Licenza Creative Commons
Climatemonitor di Guido Guidi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 4.0 Internazionale.
Permessi ulteriori rispetto alle finalità della presente licenza possono essere disponibili presso info@climatemonitor.it.
scrivi a info@climatemonitor.it
Translate »