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Autore: Fergus McGee

Pali eolici o spine nel fianco ?

Tra tutte le forme di generazione di energia rinnovabile, quella eolica è sicuramente la più contestata. E i motivi sono molteplici: innanzitutto, diciamocelo, sono orribili. E’ apprezzabile il lavoro di marketing svolto dalle lobby verdi che hanno convertito le centrali eoliche in “Campi eolici”. Direste mai di un campo di girasoli che sia brutto? No, mai. Anzi, è un perfetto capolavoro della natura. E allora ecco qui, ti servo un campo di bellissimi steli d’acciaio (e pale rotanti). In pochi istanti, incredibilmente, questa operazione di marketing fa sì che i più accaniti ambientalisti e paesaggisti dimentichino, ma solo per le pale eoliche, ogni tipo di lotta portata avanti nei decenni precedenti per qualsiasi cosa andasse a cozzare con il loro concetto di ambiente a misura di… ambiente (l’uomo è una virgola da non considerare). Tuttavia gli aspetti estetici e le contraddizioni palesi con cui devono confrontarsi gli ambientalisti sono solo alcuni dei motivi che rendono così odiose le pale eoliche.

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Dieci buone regole (da non dimenticare mai)

Lo so, lo so. Questo sito è frequentato principalmente da fisici, climatologi, meteorologi, per non parlare di geologi, chimici e tutti coloro interessati alle scienze della Terra e dell’Atmosfera. Bel preambolo, ma per dire cosa? Questa volta tenterò di mutuare dall’economia una serie di principi che dovrebbero valere per modelli e previsioni. Certo, in questo momento almeno il 99% dei lettori salterà sulla sedia: come è possibile, una previsione che funziona in economia?

Visti i tempi, non mi sento di essere in disaccordo, ma le regole e i principi li salvo e provo a fare un parallelo con il mondo della climatologia, vedrete che non siamo così lontani come potrebbe sembrare. Queste regole, in ambito economico e finanziario, sono state stilate dal grande economista David Rosenberg Chief Economist & Strategist presso Gluskin Sheff.

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Risorse alimentari, un nuovo approfondimento

Giorni addietro vi abbiamo anticipato la possibilità di una crisi alimentare di proporzioni preoccupanti, dovuta principalmente all’aumento improvviso e consistente dei prezzi delle materie prime alimentari. Questo picco nei prezzi trova la propria causa anche nelle devastanti ondate di siccità che hanno colpito gli Stati Uniti d’America. Come abbiamo spiegato precedentemente i paesi maggiormente esposti a questo shock dei prezzi sono quei paesi in cui la spesa alimentare assorbe la maggior parte del reddito. Un aumento del 10% della spesa alimentare impatta in modo molto diverso nel caso in cui spendiate abitualmente il 30% del vostro reddito in alimenti. Avrà un impatto completamente diverso se, invece, la vostra spesa abituale assorbe fino all’80%. E incidentalmente sono proprio i paesi in via di sviluppo che spendono la quota maggiore del reddito pro capite per avere accesso ai beni di sussistenza. Questa nuova ondata di rincari vede di nuovo in pericolo i paesi del Medio Oriente e dell’Africa Sub-Sahariana.

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Sull’orlo del disastro

Di catastrofismo ne abbiamo parlato spesso (e malvolentieri). Chi ci conosce sa che preferiamo ragionare a mente fredda sugli eventi, così come sa che invece ci “disturba” la notizia urlata e l’annuncio della catastrofe prossima ventura. Personalmente ritengo che a forza di urlare alla catastrofe, si genera una tale assuefazione nei lettori, tale da ottenere un danno doppio: primo, non gliene importa più niente a nessuno, secondo, quando arrivano le vere catastrofi, nessuno se ne accorge (finchè non sia troppo tardi).

Tutto questo preambolo per dire cosa? E’ semplice: per la terza volta in 5 anni potremmo essere prossimi ad un baratro, ad una catastrofe umanitaria prima e chissà cosa poi.

Che questo 2012 sia stato un anno a dir poco periglioso per i raccolti di mezzo mondo è un dato di fatto innegabile (peraltro Guido Guidi ne ha parlato più volte nelle ultime settimane, qui su CM e in particolare negli ultimi giorni sono stati approfonditi proprio questi stessi temi, a riprova che l’argomento è veramente un hot topic). Che cosa sta per accadere? Prima un breve riassunto dei fatti.

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Pandemonium

Vi piace andare a teatro? Personalmente, no. Tuttavia questa volta, qualche risata me la vorrei fare. Sia chiaro, non una risata liberatoria, tutt’altro… riderei probabilmente per non piangere. Lo spunto me lo fornirebbe una nuova rappresentazione teatrale intitolata “Ten Billion”. In realtà si tratta di un monologo che descrive uno scenario altamente plausibile: dieci miliardi di persone su questo
pianeta. Uno degli autori, Stephen Emmott spiega a Deutsche Welle che il brano rappresenta lo stato della nostra Terra in un momento non precisato verso la fine di questo secolo.

Insomma, siamo nel 2100 e siamo 10 miliardi di persone. Ma no, accidenti, no, l’autore ci fa sapere che non è un testo contro la sovrappopolazione. In fondo, Emmott suggerisce che 10 miliardi di
esseri umani potrebbero tranquillamente stare fianco a fianco, tutti quanti, in Cornovaglia. Conoscendo i luoghi, mi prenoto un posto vista mare. Soffro di claustrofobia e non vorrei trovarmi, che so, come 5 miliardesimo essere umano, fianco a fianco con i miei colleghi di viaggio, infossato chissà dove.

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Siete troppi e dovete sparire da questo pianeta

Rio+20 sta per iniziare e tutto sommato ci sembra che stia ricevendo una copertura mediatica superiore al fallimentare summit di Durban. Ovviamente ciò non esclude l’eventuale fallimento anche di questi colloqui di Rio. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad ogni tipo di intervento volto a convicere l’opinione pubblica e soprattutto i politici ad intraprendere scelte mirate a salvaguardare la salute del nostro pianeta. Mettetela come volete: possiamo parlare di orsi polari, galline prataiole, desertificazione, alluvioni, meno neve ma anche più neve, tuttavia dietro queste altissime aspirazioni, ce n’è una ancora più alta. Sempre la stessa. Riporto dal Guardian:

Rich countries need to reduce or radically transform unsustainable lifestyles, while greater efforts should be made to provide contraception to those who want it in the developing world

Traduzione: “Le nazioni ricche devono ridurre o radicalmente trasformare i propri stili di vita insostenibili, mentre sforzi maggiori andrebbero compiuti per offrire metodi contraccettivi a chi ne fa richiesta nei paesi in via di sviluppo”.

Esatto, siamo sempre alle solite. Con la scusa di dover salvare il mondo e con il paravento della sostenibilità, ecco che riescono sempre ad infilarci in mezzo il vero obiettivo: la decrescita, ottenuta tramite due strade: le masse occidentali vanno impoverite (mi pare che ci stiano riuscendo bene). Le masse terzomondiali vanno private del diritto di generare una prole. Siamo 6 miliardi, siamo troppi e i potenti non ci vogliono. E quindi o utilizzate i contraccettivi, oppure dovete rientrare in un programma di contenimento della popolazione.

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Abbasso il nucleare (epic cit.)

Poche settimane fa è stato celebrato l’anniversario del terribile terremoto cui è seguito un devastante tsunami che ha colpito e messo in ginocchio una regione del Giappone. In un assurdo susseguirsi kafkiano degli eventi, i morti per il terremoto e lo tsunami sono stati presto dimenticati a causa delle esplosioni presso il reattore nucleare di Fukushima. Da quel momento in poi, si è parlato solo di radiazioni. Oggi non vogliamo parlare di tutte le polemiche sortite da quell’evento, piuttosto vogliamo porre l’attenzione sul fatto che, ad un anno di distanza, il Giappone abbia spento tutti i propri reattori nucleari.

In molti hanno gioito per questa decisione, ma per motivi diversi. In Giappone la gente se l’è (giustamente) fatta addosso e ora festeggiano la fine del loro “incubo” nucleare. In Occidente invece gli ambientalisti stanno facendo le danze di gioia perchè vedono un movimento più ampio contro il nucleare. Prima la Germania, poi il Giappone e domani chissà.

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Reazione solare a catena

Vi ricordate della First Solar (ne abbiamo parlato qui)? E’ stata un’azienda sulla cresta dell’onda fotovoltaica per qualche tempo, finchè ha seguito il destino di tutte le altre: un inesorabile tracollo. Avevamo lasciato la First Solar con la pesante decisione di chiudere un importante stabilimento produttivo in Germania. Ora invece è arrivata la trimestrale.

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Orsetti polari alla riscossa

Diciamocelo: per anni ci hanno fatto sentire in colpa perchè noi, terribili esseri umani, stavamo mettendo a repentaglio la vita di quegli orsetti bianchi, very tender, very soft. In realtà questa è l’idea un po’ troppo romantica di certa parte di ambientalismo. Gli orsi polari non fanno altro che fare il loro mestiere: vivono, si riproducono e sbranano per cibarsi. Quindi in realtà sono meno bianchi di quanto vogliano farci credere. E da oggi possiamo dire che sono anche meno a rischio estinzione di quanto ci hanno fatto credere, per farci sentire in colpa.

In questi giorni sono arrivati i risultati di una approfondita indagine sulla popolazione di orsi polari, nell’Artico canadese. Il censimento è stato condotto lungo ben 8000 km di territorio. Prendiamo ad esempio la Baia di Hudson. Mille orsi c’erano all’inizio degli anni 2000, mille orsi ci sono adesso. In barba alle catastrofiche previsioni di molti ambientalisti che volevano la popolazione di orsi già quasi dimezzata nel 2011.

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La bancarotta del fotovoltaico

Gli ultimi dodici mesi sono stati segnati dal fallimento di numerose società dedicate all’installazione di pannelli fotovoltaici. La maggior parte dei fallimenti riguarda società piccole, che di certo non faranno la storia ma alcuni fallimenti hanno toccato società molto più grandi e famose.

Ebbene, lo stillicidio prosegue e la settimana scorsa un altro colosso (americano) del fotovoltaico ha intrapreso la via dell’oblio. La Abound Solar, a fronte di un finanziamento di 400 milioni di $ a tassi agevolatissimi garantito addirittura dal Dipartimento dell’energia, ha dichiarato di dover lasciare a casa la metà della propria forza lavoro.

Certo, gli analisti ci dicono che è ancora presto per sapere se Abound Solar sarà la nuova Solyndra del 2012 (535 milioni di $ di finanziamenti pubblici andati in fumo), ma le premesse sono tutt’altro che rosee.

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Ipocriclima

La blogosfera climatica (marò com’è antipatico questo modo di dire…) continua ad essere in subbuglio. Nel giro di una settimana si è passati da quella che sembrava dovesse essere un’autentica resa dei conti – sia nel senso figurato che in quello letterale del termine – tra credenti e scettici, con i primi a segnare finalmente il golden gol, al più clamoroso autogol della storia, con il re dei credenti che avendo già perso i vestiti con il climategate, ora più che essere nudo è trasparente.

Di tutte queste polemiche, che con il clima non hanno veramente nulla a che fare, quel che più disturba è la sfrontatezza con cui si riconosce a se stessi l’umana debolezza di lasciarsi condizionare dalla propria ideologia nel compiere attività che dovrebbero essere prive di qualsiasi condizionamento, leggi ricerca scientifica, dichiarando al contempo di farlo per cercare un confronto che si è invece ideologicamente evitato da sempre.

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