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Non si può cominciare dalla fine

Qualcuno ci prova leggendo il giornale dall’ultima pagina, ma solo perché è interessato alle notizie che stanno in fondo. Qualcun altro legge i libri dall’ultimo capitolo; qui faccio più fatica a capire ma, tant’è, poco danno.

Per molti altri ancora, e torniamo all’ambiente di questo blog, cominciare dalla fine è praticamente diventata una prassi. Non passa giorno che non ci venga anticipata la data di un futuro disastro. Tot di temperatura in più, Artico completamente libero dai ghiacci, coste e pianure sommerse dal mare, molluschi ignudi causa acidificazione degli oceani e quant’altro. Che brutta fine. Appunto, la fine, presagi di disastro ai quali si arriva per mezzo di complesse operazioni di simulazione delle dinamiche del clima, imponendo ad esse effetto antropico in varie quantità.

Del resto questo, almeno sin qui, è l’unico approccio che conosciamo atto a soddisfare la nostra endemica ed anche molto antropologica voglia di conoscere il nostro destino. Possibile farlo senza un’adeguata conoscenza del passato ed una affidabile immagine del presente? Difficile, eppure in materia di clima accade esattamente questo. Ad esempio, sappiamo quale sarebbe stato l’andamento delle temperature in assenza del forcing indotto dalle attività umane? E sappiamo con la necessaria precisione di quanto è aumentata la temperatura, al netto di errori di misurazione, bias di vario genere, problemi di disomogeneità spaziale e temporale delle serie storiche e scarsità delle informazioni disponibili?

Due le risposte, no e ancora no.

Il primo no. Calma, lo so che ci sono fior di studi sulle dinamiche delle temperature e che soltanto aggiungendo alle simulazioni il forcing antropico si riesce in qualche modo a far somigliare la curva simulata a quella reale, ma questa operazione soffre delle stesse difficoltà di cui soffrono le proiezioni basate sull’assunto che l’effetto antropico sia preponderante, ovvero che in presenza di un riscaldamento di piccola entità indotto dai gas serra antropici, si scatenerebbero delle dinamiche interne al sistema tutte con effetto amplificante. Dato che molto probabilmente così non è, perché nel medio periodo (quello in cui è possibile fare un confronto) pare che ne esistano anche di mitiganti, sorge il dubbio che il sistema più che essere altamente sensibile ai forcing esogeni, possieda dei meccanismi interni che ne regolano il funzionamento scongiurando il disastro da caldo, dato che in passato le temperature sono state anche più alte di oggi e la Terra pare non si sia mai fritta per questo.

Il secondo no, anch’esso ampiamente dibattuto, riguarda l’oggetto di questo post, ossia lo stato iniziale e pregresso del sistema. Vediamo. Alcuni giorni fa la NOAA ha fatto sapere di ritenere inequivocabile che il pianeta si stia scaldando, molti indici sarebbero al riguardo concordi. Tra questi, naturalmente, i più gettonati sono i dataste di temperatura più completi e ritenuti affidabili che in modo –si dice- indipendente, giungono alle stesse conclusioni.

Il punto è che questi dataste non sono affatto indipendenti, il serbatoio delle informazioni è, di fatto, soltanto uno, il Global Historical Climatology Network (GHCN) da cui “pescano” tutti gli altri, NOAA, GISS e HadCRUt. Se il primo è incompleto lo sono anche gli altri, i quali semmai in modo –questo sì- indipendente, pongono in essere delle operazioni di correzione dei dati grezzi, rischiando di aggiungere un bias proprietario indotto dalle procedure di omogeneizzazione spazio-temporale dei dati, di correzione dei condizionamenti ambientali sulle serie storiche (leggi isole di calore urbano) e, paradossalmente in tempi di alta tecnologia e comunicazione globale, di interpolazione tra dati sempre più scarsi.

Alcuni giorni fa è uscito a firma di Ross McKitrick, economista, un lavoro di analisi dettagliata delle serie contenute nel dataste del GHCN, da cui si evince che il problema che abbiamo non è affatto sapere e prepararci al clima che farà, quanto piuttosto sapere che clima fa e ha fatto. Appunto, lo stato iniziale. Da notare che l’analisi è sui numeri, non sul loro significato in termini climatici, e con quelli ci possono giocare gli economisti anche se si tratta di temperature.

Tra i punti salienti di questo lavoro, l’analisi della distribuzione spaziale dei punti di osservazione. C’è stata nel tempo una progressiva diminuzione del numero delle stazioni, con un crollo decisivo nelle ultime decadi che ha riguardato in modo preponderante le alte latitudini. Per cui, dapprima gradualmente e poi in modo più deciso, i dati provenienti dalle zone a clima caldo o temperato, hanno avuto e stanno avendo un peso statistico molto più importante nel computo delle medie globali. Le procedure di rimozione del bias urbano, inoltre, oltre a non essere in molti casi efficaci, hanno avuto come risultato un generale effetto di accentuazione delle anomalie negative nella prima parte del periodo post-industriale e di quelle positive nella seconda, finendo quindi per accentuare la pendenza del trend di riscaldamento.

Ma ci sono anche altre fonti di bias e di discontinuità, come ad esempio la progressiva “migrazione” dei punti di osservazione dalle aree rurali a quelle aeroportuali (attualmente circa il 50% delle stazioni del GHCN è sugli aeroporti) divenute nel tempo aree ad elevata urbanizzazione soggette a sostanziale modifica delle condizioni ambientali a carattere locale.

McKitrick giunge alla conclusione che “ci sono dei problemi di qualità nei dataset di temperatura che ionducono a chiedersi se le serie di temperatura globale, in special modo sulla terraferma, possano o meno essere considerate sufficientemente continue ed accurate, per sostenere il peso delle conclusioni cui si giunge con il loro impiego”, e che, “gli utilizzatori dovrebbero essere al corrente di queste limitazioni, con particolare riferimento alle applicazioni di indirizzo della policy”.

Ora, nel pieno rispetto dell’opinione di molta parte della comunità scientifica che pensa di poter estrarre da questi dati delle serie affidabili e dunque suggerire delel policy adeguate, e tralasciando l’uso sconsideratamente allarmistico di una discreta parte di divulgatori molto più votati alla politica che alla scienza, mi chiedo se non sarebbe più sensato pensare di concentrare gli sforzi nella risoluzione di questi problemi prima di leggere l’ultimo capitolo del libro, cioè prima di porre in essere strategie di mitigazione di un fenomeno non appieno conosciuto, che rischiano di essere inutili ed inefficaci oltre che ad elevatissimo costo sociale. Quale medico somministrerebbe una cura senza sapere cos’ha il malato?

Certo, si può obiettare che le previsioni climatiche, a differenza di quelle meteorologiche non necessitano di condizioni iniziali accurate. A parte il fatto che di questo potremo esser certi solo quando le prime avranno la stessa affidabilità delle seconde –cosa che ora non è assolutamente-, con quale tipo di clima si dovrebbe paragonare e quindi giudicare pericolosa una certa evoluzione con un dettaglio al decimo di grado, se non si conosce con lo stesso dettaglio il termine di paragone?

E poi ancora, è nelle intenzioni dell’IPCC dar vita ad un prossimo rapporto (il 5°), nel quale sia data più attenzione all’evoluzione climatica nel breve e medio periodo, ovvero per scenari decapali o anche molto meno, più che secolari come fatto sin qui. E’ un fatto che su scala decadale il clima non abbia seguito l’evoluzione prevista in modo soddisfacente, per il probabile contributo di fattori di origine naturale dal ruolo non adeguatamente noto. Da dove si possono trarre le informazioni adatte ad identificarne l’esistenza se non migliorando la conoscenza della situazione attuale e pregressa? Un esempio. Sono stati consumati fiumi di inchiostro per dar corpo alo scenario che vedrebbe fenomeni atmosferici estremi sempre più violenti in un mondo sempre più caldo. Ci sarebbero molte ragioni per obiettare, ma non è questo il punto. Consideriamo piuttosto gli eventi estremi per eccellenza, il cicloni tropicali e le piogge monsoniche. Per i primi, dopo l’intensa stagione del 2005, più che un’ascesa del numero e dell’intensità degli eventi si è osservata una sensibile contrazione. Le seconde continuano ad avere una variabilità interannuale molto accentuata, caratterizzata da eventi di picco che oggi ci vengono riportati come inusuali, ma che basta cercare con un po’ di pazienza negli annali per capire che così non è. Per di più, la loro previsione è ancora quasi impossibile, perché i fattori climatici che ne regolano l’occorrenza non li sappiamo ancora replicare.

Bene, tanti o pochi che siano i cicloni tropicali, forti o meno che siano i monsoni, agli umini non serve sapere cosa accadrà tra 50 o 100 anni, ma cosa accadrà tra un mese, un anno e magari cinque o dieci, e se si vuole avere una speranza di riuscire nell’intento, il libro va riaperto e riletto con cura, non già dalla prima pagina, ma dalla copertina. Può darsi che così, quello che si arriverà a scrivere sull’ultima pagina sia di qualche utilità –come dire- climatica piuttosto che mediatica.

NB: da WUWT.

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Published inAttualitàNews

10 Comments

  1. Maurizio

    Complimenti per l’articolo, dovrebbero concederti un opportuno spazio in tv anche solo per accennare a queste problematiche.
    Forse però diventeresti un personaggio…scomodo!!!!
    Proprio ieri al tg2 delle 20,30 un servizio era incentrato in modo allarmistico, sulla futura imminente desertificazione di ampie zone del nostro meridione.Il tutto accompagnato ovviamente da immagini dei veri deserti…ma si possono ascoltare simili sciocchezze? E che dire delle “piogge monsoniche” che colpirebbero il nostro continente?
    L’inquinamento atmosferico va combattuto tramite le moderne tecnologie di cui disponiamo attualmente e probabilmente la situazione è senz’altro migliorata rispetto a qualche decennio fa (sconvolgenti le foto di alcuni fiumi italiani negli anni 70).
    L’invivibilità accennata da Sartori deve essere ricondotta alla cattiva organizzazione e gestione delle nostre città, ai ritmi frenetici ai quali siamo costretti, ma per il resto il clima va avanti per la sua strada, l’umanità nella sua piccolezza certamente può influenzare ben poco.
    Saluti e ancora complimenti!
    Maurizio

  2. uberto

    “Quale medico somministrerebbe una cura senza sapere cos’ha il malato?”

    Per fortuna non siamo ancora alla fase malato ma prevenzione.
    Il paziente fuma 5 pacchetti di sigarette al giorno, i suoi polmoni si stanno incatramando sempre piu’… cosa facciamo? tagliamo il fumo o aspettiamo di avere un cancro?

    Personalmente non ho dubbi che i catastrofisti della domenica non abbiano alcuna base scientifica. Cosi’ come avevano previsto la deforestazione d’Europa per le piogge acide negli anni 80 e la fine del petrolio negli anni 70.
    Eppero’ le (costose) leggi antiinquinamento hanno fatto si che l’aria delle nostre citta’ sia molto meglio oggi che 30 anni fa e i motori moderni consumano e inquinano solo una frazione di quelli di una volta.
    Quindi i catastrofisti non sono una buona ragione per non limitare l’emissione della CO2, pur sempre ai massimi livelli degli ultimi ennemila anni.

    • Il calcolo del costo-beneficio degli interventi legislativi, va fatto tenendo conto ovviamente di tutte le sfaccettature del problema. Ridurre l’inquinamento atmosferico (quello vero) è certamente costoso, ma ha un effetto positivo tangibile sui costi sociali della salute pubblica.
      Forzare oltre il dovuto un processo di decarbonizzazione già in atto grazie allo sviluppo tecnologico, avrebbe dei costi sociali elevatissimi e, fino a prova contraria, ovvero fino a che l’attendibilità delle simulazioni non sarà assicurata, nessun beneficio. Ad oggi, con buona pace di chi cavalca sapientemente l’onda degli eventi quotidiani, che afferiscono al tempo atmosferico da sempre e non al clima, nessuno ma proprio nessuno corre dei rischi per un eventuale forcing antropico sul clima, mentre tutti ne corriamo per la sua naturale evoluzione, come è sempre accaduto.
      Il senso di questo post vuole essere quello di stimolare una riflessione circa l’opportunità di concentrare gli sforzi per imparare a prevedere questo genere di eventi, prima, molto prima di “attrezzarci” per evitare una presunta crescita della loro frequenza, fattore questo che una volta scremato il rumore della comunicazione globale e dell’urbanizzazione selvaggia delle aree a rischio, è ancora tutto da dimostrare.
      gg

    • uberto

      beh “Forzare oltre il dovuto” e’ da evitarsi per definizione.

      “nessuno ma proprio nessuno corre dei rischi per un eventuale forcing antropico sul clima” -> dicevano lo stesso del fumo passivo… 🙂

    • Uberto, capisco che tu abbia aggiunto il sorriso per stemperare il tono, ma questo paragone, molto caro ad un certo genere di “fondamentalismo” dell’AGW mi piace davvero poco, anche perché nasconde l’ipocrisia di chi vorrebbe spendere (e spende) miliardi per il clima che verrà e si limita ad attribuire a presunti sconquassi già in atto le tragedie dell’oggi senza muovere un dito perché se ne riduca l’impatto. Non credo che tu figuri tra questi, altrimenti non leggeresti o commenteresti queste pagine.
      Il monsone ammazza la gente perché vivono a milioni ammassati in strutture a dir poco fatiscenti a ridosso delle città che ormai sono delle regioni metropilitane. E gli uragano fanno altrattanto perché le coste sono completamente urbanizzate. ma se preferisci stare in Italia, basta fare un giro al Sud o in Versilia per degli ottimi esempi di follia urbanistica.
      gg

    • uberto

      Su questo sono assolutamente d’accordo.
      Io personalmente temo che essere passati dai 280 circa ppm di co2 preindustriali agli attuali 390 (in rapida salita) comporti un significativo rischio di cambio climatico antropogenico.

      Detto questo sono convinto gli attuali monsoni, estati calde, smottamenti in Pakistan non c’entrino assolutamente nulla.
      Sfruttare questi eventi per spremere soldi e’ da avvoltoi e basta.

    • Molto interessante, proverei a calcolare una correlazione del rateo di ascesa degli eventi osservati con lo sviluppo della tecnologia delle telecomunicazioni e della circolazione delle informazioni. Mi sa che ne verrebbe fuori qualcosa di altrettanto interessante.
      gg

    • Aggiungo anche che Napoleone e Hitler (per fortuna) hanno avuto una bella jella ad imbattersi tutti e due in inverni eccezionalmente freddi in Russia quando era tutto così tranquillo su questo pianeta. Per non parlare dello sbarco in Normandia naturalmente. 🙂
      gg

  3. Zoboli Daniele

    Articoli come questo sono sempre più rari, anche in rete che dovrebbe essere in un qualche modo immune o quantomeno indipendente dal clima mediatico di massa. I miei più sinceri complimenti.

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