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Animali emigranti o viaggiatori?

In un mondo globalizzato in cui le merci viaggiano tra i continenti senza più barriere doganali, dove le persone sono più o meno libere di farlo a seconda di d ove nascono (sostanzialmente dal censo), nell’immaginario collettivo gli unici che debbano rimanere fermi sono la fauna e la flora. Sui mass-media sembra che gli animali si muovano esclusivamente in conseguenza del “riscaldamento globale”, questo nonostante tutti sanno che le navi si muovono utilizzando canali non naturali come quello di Suez, autocarri e treni si spostano in continuazione, sempre più persone acquistano animali esotici per abbandonarli non appena si accorgono che il loro mantenimento crea più problemi di un pesciolino rosso, gli animali da sempre si muovono alla ricerca di cibo, le città sono rifugi caldi per l’inverno. Senza cambiamento climatico il mondo animale e vegetale sarebbe statico. Rileggiamo alcuni titoli di articoli pubblicati nei mesi passati:su “La Stampa” “I barracuda colonizzano Portofino” (all’interno dell’articolo poi è possibile leggere che è una specie conosciuta dai vecchi come “luccio di mare”), sempre su “La Stampa” “specie aliene: l’invasione costa 12 miliardi”, altri individuano nel riscaldamento la causa dell’arrivo delle zanzare.

Per quanto riguarda i vegetali sappiamo tutti che le piante che attualmente a noi appaiono tipiche sono invece “specie aliene”, come i pomodori, le patate, i kiwi, etc. Anche in passato le piante si muovevano, lo studioso latino Giunio Moderato Columella scrisse:

”Molti studiosi degni di fede hanno espresso l’opinione che il tempo e il clima sono mutati[…] di ciò era convinto anche l’autorevole scrittore di cose agrarie Saserna, il quale afferma che le condizioni del clima erano di molto mutate, per cui certe regioni che in precedenza non potevano consentire la crescita di alcune specie di vite e di olivo a causa dei loro rigidi inverni, nel suo tempo erano diventate ricche di pingui oliveti e vigneti, dato che il clima freddo dei tempi passati si era fatto più tiepido e mite” (in De Re Rustica, libro I, 1.2-5).

Columella inoltre descrisse come i suoi contemporanei si lamentavano del tempo:

”Sento spesso i cittadini più illustri che si lamentano ora della sterilità dei campi, ora della variabilità del clima, da lungo tempo ormai sfavorevole all’agricoltura.” (in De Re Rustica, Praefatio, 1).

Lo spostamento verso nord, osservato da Columella per l’olivo e la vite, fu rilevato per il faggio da Plinio (in Storia Naturale, XVI, 15 v.36) e Teofrasto (in Delle piante, 3,10): il faggio un tempo si manteneva alla latitudine di Roma e con il trascorrere degli anni si era spostato in Italia Settentrionale. E’ vero che le piante subiscono gli effetti del tempo meteorologico, ma non è detto che questo li renda sostituti degli strumenti, come si crede spesso con troppa facilità. Nel 1913 Wladimir Koppen (1846-1940) ideò una classificazione del clima fondata sulle relazioni con il mondo vegetale, successivamente però questa fu espressa utilizzando valori delle grandezze meteorologiche. Infatti gli spostamenti della vegetazione con il caldo sono molto lenti mentre le conseguenze del freddo intenso avvengono in pochi giorni e senza che questo evento abbia necessariamente effetti sensibili sulle medie, inoltre le produzioni agricole spesso più delle condizioni ambientali sono determinanti le valutazioni di convenienza economica.

Ad esempio in passato si era parlato della coltivazione in Piemonte dell’olivo come dimostrazione del riscaldamento globale, leggiamo quanto scritto nei giorni più freddi di quest’inverno su “La Repubblica” in un articolo di cronaca del 25 marzo 2011:

Le chance di un clima mite. Sarà forse invidia per il clima mite della Riviera, ma che i piemontesi cerchino di coltivare l’olivo non è certo una novità. Sono quasi mille anni che ci proviamo con risultati però altalenanti e spesso scadenti, come splendidamente descritto in un trattatello culinario del 1600 che dice più o meno così: “In Piemonte si fa l’olio d’oliva sui colli più temperati di Astigiano, Monferrato, Eporediese e Saluzzese, ma in scarsissima quantità sia perché fa troppo freddo, sia perché in tempo di guerra gli alberi vengono tagliati e bruciati dai soldati”. Insomma, nel pieno della Piccola Età Glaciale – il periodo freddo tra il 1350 e il 1850 – i pochi olivi rimasti erano quasi più utili come legna da ardere e, dopo il gelo memorabile dell’inverno del 1709, resistette qualche pianta solo sulle sponde dei laghi d’Orta e Maggiore. Diversa era la situazione nel Medioevo, quando il clima era decisamente più mite – probabilmente abbastanza simile a quello attuale – e le cronache raccontano di olivi, mandorli e persino piante di zafferano sul versante sud della collina torinese; la redditività e qualità di queste colture era però verosimilmente scarsa, visto che, per esempio, era la Chiesa a caldeggiare la coltivazione delle olive per avere l’olio per i riti religiosi. Ora il riscaldamento globale degli ultimi decenni sembra concederci nuove chance e così gli ulivi sono ricomparsi tra Langhe e Monferrato e sui pendii prealpini. Una scelta geografica azzeccata, dal momento che le gemme non resistono a temperature inferiori ai -10 °C, valori non del tutto inusuali sulla pianura piemontese nemmeno con un clima sempre più caldo; le zone collinari, invece, rimangono al di fuori dello strato di inversione termica presente sulla pianura e garantiscono un rischio minore di gelate intense. Resta però una coltivazione troppo fragile per il nostro clima, adatta più che altro ad abbellire parchi e giardini o a concederci la soddisfazione di qualche bottiglia d’olio autoctono e non certo in grado di rivaleggiare con la produzione della vicina Liguria.

Per quanto riguarda gli animali anche questi si muovevano anche in passato, in molte alcune isole come le Mauritius furono i colonizzatori a portare le zanzare e la successiva malaria (anche se all’epoca, come dice il nome della malattia, non si conosceva la relazione tra quest’ultima e l’animale), inoltre le zanzare riescono a vivere anche in posti certamente non caldi come Russia, Canada e paesi Scandinavi.

“[…] Erano formiche minuscole e impalpabili che si muovevano senza posa come spinte dallo stesso prurito che ci davano. Solo allora mi venne in mente il nome: le ‘formiche argentine’, anzi ‘la formica argentina’, così dicevano, certo dovevo averlo già sentito dire altra volta, che questo era un paese dove c’era ‘la formica argentina’, e solo adesso sapevo quale sensazione si dovesse collegare ad una tale espressione: questo vellichio fastidioso che si spargeva in ogni direzione e che non si riusciva, pur chiudendo le mani a pugno o stropicciandosi una mano con l’altra, a fermare del tutto, perché sempre restava qualche formichina sbandata che correva via per il braccio o per i vestiti. A schiacciarle, le formiche diventavano puntini neri che cadevano come sabbia, e sulle dita restava quell’odorino di formica, acido e pungente. – E’ la formica argentina, sai…-dissi a mia moglie, – viene dall’America…-[…]”

Questo è un brano tratto dal breve racconto “La formica argentina” di Italo Calvino, nel quale esprime il male di vivere che in questo caso viene dalla natura. Il nemico è la formica argentina, una specie di formica sconosciuta, particolarmente aggressiva e prolifica che negli anni Venti e Trenta iniziò ad infestare la Riviera di Ponente e l’Italia provenendo dall’altra parte dell’oceano. All’epoca naturalmente nessuno pensò d’incolpare l’effetto serra e la loro espansione ancora continua (come riporta un articolo del 2002 dal sottotitolo “Sono miliardi, hanno occupato 6 mila chilometri di coste dalla Liguria al Portogallo Le specie indigene non sono in grado di bloccare la loro avanzata. Due anni fa avevano invaso e devastato la California.”).

Quindi non è detto che la presenza di animali non originario sia sempre la dimostrazione del riscaldamento globale o cambiamento climatico, con la stessa logica le foto che dimostrino la presenza giornaliera di cani San Bernardo ed Husky a Villa Borghese “adattati” al clima di Roma sarebbero prove scientifiche che il pianeta si sta raffreddando, che se continua così ci sarà un’imminente glaciazione.

L’unica cosa certa sui quotidiani è che se qualche specie su una zona sparisce al fenomeno si da il nome di “diminuzione della biodiversità”, se invece qualche nuova specie arriva in fenomeno è detto “invasione di specie aliene”.

Sarà per quanto sopra che credo che se si potessero intervistare gli animali che sono mostrati dando per scontato che sono emigrati a causa del “global warming”, questi risponderebbero come Massimo Troisi quando si dava per scontato che il napoletano non poteva viaggiare ma doveva per forza emigrare:

Massimo Troisi – Ricomincio da tre

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Published inAttualitàNews

3 Comments

  1. Guido Botteri

    Come potrebbe chiamarsi questo fenomeno, per cui qualsiasi variazione, in più o in meno, per piccola che sia, viene vista come un terribile pericolo ?… diversofobia ? variazionfobia ? Non so, certo che più che qualcosa di scientifico, pare a me una forma di pura fobia. Gli psichiatri che sono stati chiamati in causa per convincere gli scettici forse farebbero bene a studiare questo fenomeno, e farsene una ragione. Credo io.

    • Fabio Spina

      E’ il fenomeno per cui si pensa che mostrando foto scattate in anni diversi si sia di fronte a prove scientifiche del “cambiamento” in atto per colpa dell’uomo. Un po’ come se un medico dicesse che sono malato perché vedendo due mie foto scattate a distanza di anni potrebbe notare delle differenze.Il cambiamento in natura normalmente è fisiologico, può essere patologico ma va dimostrato scientificamente, non bastano foto o un “effetto nemo” o testimoni che dicono che una volta era diverso.BUona domenica

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