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Ricerca, innovazione e inutili presagi

Qualche giorno fa abbiamo pubblicato un post (Vizi pubblici e virtù private) in cui si parlava della differenza che intercorre ormai sempre più spesso tra quanto viene riassunto ‘ufficialmente’ nelle pubblicazioni destinate ai policy makers redatte dall’IPCC e quanto dichiarato privatamente dai singoli ricercatori che a quelle pubblicazioni contribuiscono.

 

Come spesso accade per le nostre discussioni, partendo dalla discrasia ormai evidente tra realtà e simulazioni climatiche, i lettori hanno sviluppato un dibattito che andato molto più in là, sfociando in un’analisi molto interessante dei meccanismi di sviluppo e innovazione, ovviamente legati a doppio filo con la ricerca scientifica. E’ per questo che vi riporto qui di seguito il commento di Alvaro de Orleans-Borbon, che penso meriti ampia diffusione, rimandandovi ovviamente alla lettura di tutta la discussione. Dopo il commento, infine vedremo i presagi.

 

Non sono in grado di offrire uno schema d’analisi solido — la mia esperienza è limitata a vent’anni di partecipazione ai consigli di due fondazioni che promuovono l’innovazione, http://www.cotec.es e http://www.cotec.it

Posso però offrire qualche riflessione personale, sempre felice di vedermi contraddetto e poter così imparare.

1.   La relazione tra ricerca ed innovazione può essere divulgata con una “capsula giornalistica”:  “la ricerca è l’uso dei soldi per creare nuova conoscenza — e l’innovazione è l’uso di questa nuova conoscenza per creare dei soldi”.

2.  Si tratta di un ciclo ricorsivo che può generare un feedback positivo autoaccelerante — com’è sicuramente successo negli ultimi 100 anni, con buona pace, per il momento, dei timori Malthusiani.

3.  Da quando l’innovazione è comparsa sul radar dei politici se ne parla e straparla moltissimo, ma non viene quasi mai apprezzata una differenza fondamentale all’interno del “ciclo ricerca ed innovazione” che concerne i rispettivi livelli di rischio — infatti, “fare innovazione” è molto, ma molto più rischioso del “fare ricerca”.

4.  Un fallimento nella ricerca tende a produrre spesso una relazione che “dimostra” la necessità di proseguire la ricerca — il ricercatore usualmente non va incontro a conseguenze esistenziali rilevanti.

5.  Per converso, un fallimento nell’innovazione può produrre un innovatore fallito o la chiusura di un programma di sviluppo, con conseguenze esistenziali anche molto rilevanti per la o le persone coinvolte.

6.  La “società mediterranea” tende a non riconoscere o a evitare questo rischio, al contrario della “società anglosassone”:  se fallisce, l’innovatore Rossi rischia di perdere anche la fidanzata, l’automobile e la casa, mentre il suo omologo Smith fa un “Chapter 11″, aggiunge al suo CV “launching a start-up” e si ricicla con normalità nel mercato del lavoro. Questo, in sintesi, avviene perché il trattamento legale dell’insolvenza non dolosa è completamente diverso nelle due culture: la mediterranea considera sacro il creditore e unico colpevole il debitore, l’anglosassone li considera contrattualmente corresponsabili.

7.  Nella nostra società mediterranea vorremo tutti godere della “creazione distruttiva” Schumpeteriana dovuta all’opera degli innovatori, ma poi la pratichiamo secondo il lemma “armiamoci e partite”. Esistono importanti ammortizzatori sociali per I lavoratori coinvolti in innovazioni fallite, ma sono praticamente assenti per chi ha corso il rischio di innovare e non ha avuto successo; per l’innovatore vale, parafrasando il sindaco Giuliani, il trattamento “one strike and you’re out”.

8.  Ricordando la massima “Colpiscine uno per educarne cento”, chi vive vicino ad un innovatore fallito tocca con mano quanto possa essere negativa la relazione rischio/beneficio dell’innovazione e inibirà la propria propensione ad imprendere — “meglio essere funzionari” diventa una conclusione razionale, da trasmettere culturalmente ai propri figli.

9.  E’ possibile modificare questa profonda differenza culturale tra il mondo mediterraneo e quello anglosassone? A mio parere si, ma come tutte le svolte culturali sarà lenta, difficile e richiederà un sforzo analitico e divulgativo importante. In Spagna negli anni ’90 è stato meticolosamente sviluppato il concetto di “Sistema Nazionale di Innovazione”, inteso come “l’analisi dell’interazione tra il mondo produttivo, il mondo accademico e la pubblica amministrazione ed il conseguente impatto sul tasso di innovazione”.  La Spagna, un paese che viveva con il lemma del filosofo Unamuno “…che inventino gli altri”, ha iniziato una lunga svolta culturale ancora in corso ma che, negli anni, sta manifestando risultati positivi.

Queste sono alcune semplici riflessioni che mi permetto di contribuire e che hanno solo l’animo di stimolare una discussione sul tema.

 

Al punto 2 del commento di Alvaro c’è un riferimento per certi versi scontato in quanto ben visibile a tutti, per altri evidentemente anche difficile da digerire per quanti continuano a sfornare presagi di sventura, attitudine che sovente ha assunto gli aspetti dell’impegno professionale.

 

Tra questi professionisti dei cattivi presagi Roger Pielke Jr ha tirato fuori dal cilindro due autentici campioni Paul Ehlrich, autore nel 1968 di ‘The Population Bomb’ e John Holdren, attuale assistente del Presidente Obama in materia di scienza e tecnologia. Di particolare interesse, proprio nell’ambito del rapporto tra esperti e decisori politici, la loro audizione al senato americano del 1974, intervento di cui Pielke riporta un ampio estratto. Al di là dell’interesse intrinseco per tutta una serie di previsioni sbagliate che certamente non hanno aiutato molto il processo decisionale, quel che più mi ha colpito sono le domande che si pone Pielke a proposito delle loro opinioni: Cosa rende gli esperti di oggi più credibili dai policy makers di quanto lo era Elrich allora? In che modo si sarebbe dovuto agire? Perché gli si sarebbe dovuto credere e perché no? Gli esperti di allora avrebbero dovuto fare anche attivismo per instillare un senso di urgenza? Gli esperti di oggi che sollecitano profondi cambiamenti istituzionali in cosa differiscono dagli Ehlerich/Holdren del 1974?

 

A me sembra, e sono conscio del rischio di un risposta banale, che più che differenze abbiano punti in comune. Scarsa o nulla fiducia nel futuro, eccessiva fiducia nelle proprie convinzioni e desiderio di influenzare le decisioni altrui in ragione di queste.

 

Aspetto con ansia le vostre considerazioni.

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