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Le guerre del clima

Su queste pagine siamo abituati a leggere di guerre del clima con riferimento alle scaramucce dialettiche tra scettici e sostenitori dell’ipotesi del clima che cambia per ragioni esclusivamente antropiche, legate alle emissioni di gas climalteranti ed allo stravolgimento dell’ambiente. Oggi vorrei occuparmi di altre guerre legate al clima o, per essere più preciso, di guerre che vari analisti attribuiscono al cambiamento climatico. Lo spunto è stato offerto da un articolo pubblicato sul numero di agosto della rivista “Le Scienze”

Prevenire le guerre del clima

di Andrew Holland

L’autore non è uno dei soliti giornalisti pronto a saltare sul carro del disastro climatico incombente in cerca di maggior audience, ma un analista del think tank indipendente American Security Project che, in tale veste, ha testimoniato al Congresso USA sull’Artico. Diciamo che è uno che dal 2007 o giù di lì, si occupa professionalmente di studiare il legame tra cambiamento climatico e sicurezza. Un esperto con tanto di patente.

Inizio a leggere l’articolo e faccio subito un salto sulla sedia: “… le forze armate statunitensi … si preparano ad un mondo più caldo che già altera gli equilibri geopolitici e potrebbe provocare conflitti armati.” E’ buffo pensare che mentre noi ci arrabattiamo a cercare di capire cosa farà il clima domani, le forze armate della maggiore potenza mondiale si stanno già preparando alle future guerre provocate dal clima che cambia e cambia male. I generali USA hanno già fatto le proprie scelte e del dibattito in corso non si interessano più di tanto: il clima sta cambiando, il mondo sarà più caldo ed è necessario armarsi per contrastarne gli effetti. Andiamo avanti, però, con ordine.

I rischi maggiori per la stabilità mondiale devono essere ricercati, stando a quanto scrive Holland,

  • nel livello del mare che sale e potrebbe rendere necessario trasferire altrove le basi navali e le installazioni che in futuro potrebbero essere sommerse o rese meno sicure;
  • nella maggiore frequenza degli eventi estremi (siccità, uragani, tifoni e via cantando) che renderà più vulnerabili le già fragili democrazie nei Paesi in via di sviluppo;
  • nei conflitti armati a scala regionale o globale innescati dalle conseguenze del cambiamento climatico.

Sul primo punto dell’articolo di Holland ho molti dubbi e perplessità in quanto l’aumento del livello del mare non mi sembra tanto veloce da determinare conseguenze catastrofiche per le basi navali e le infrastrutture militari. Trattandosi, però, di una variazione che sicuramente è in atto potrebbe anche darsi che un aumento sia in grado di determinare problemi di tipo logistico: non conosco la struttura delle basi USA per poter esprimere un giudizio informato, per cui do per scontato che generali ed ammiragli conoscano bene i limiti delle infrastrutture logistiche della difesa USA. Concordo con l’autore sul fatto che le conseguenze dirette dell’aumento del livello del mare sulla struttura della difesa statunitense e non solo, sono il male minore: basta spostarle in punti meno vulnerabili ed il gioco è fatto.

Dove, però, comincio a non essere d’accordo con Holland è nell’analisi delle conseguenze sociali, politiche e geopolitiche dei cambiamenti climatici in atto. Egli ritiene che già oggi si possano vedere in varie parti del mondo le conseguenze del cambiamento climatico sugli assetti geopolitici globali e, a titolo esemplificativo, descrive alcuni conflitti in atto che, a suo dire, sono stati provocati dalle conseguenze del cambiamento climatico. Esordisce, manco a dirlo, con il conflitto siriano e ne attribuisce le cause alla siccità che a cavallo del 2010 funestò la Siria. Essa sarebbe stata più lunga e dura a causa del cambiamento climatico in atto e,  in seguito a ciò, gli agricoltori siriani avrebbero abbandonato le aree rurali per stabilirsi nei centri urbani incubando un forte malcontento nei riguardi del governo che non avrebbe tenuto in debito conto le loro legittime rimostranze circa la scarsità del raccolto e la perdita del bestiame. Questo malcontento sarebbe stata la causa scatenante delle rivolte che inaugurarono la “rivoluzione” siriana le cui conseguenze vediamo fino ad oggi. Ovviamente le cause per così dire climatiche, si sovrapposero a quelle più schiettamente politiche e/o ideologiche che animarono tutte le cosiddette “primavere arabe”.

Io ho studiato piuttosto a fondo la situazione siriana nel corso dell’ultimo anno e non concordo affatto circa l’analisi di Holland in quanto il clima che cambia con la guerra civile siriana non ha nulla, ma proprio nulla a che fare. Incolpare il cambiamento climatico della guerra siriana significa non aver capito nulla di ciò che sta accadendo in Siria.

Luigi Mariani pubblicò circa un anno fa, qui su CM, un articolo in cui dimostrava, dati alla mano, che la siccità siriana cui fa riferimento Holland non fu né eccezionale, né senza precedenti. Già questo dovrebbe sgomberare il campo dagli equivoci, ma chi si prende la briga di studiarsi un po’ (solo un po’, mica tanto) la situazione dello scacchiere mediorientale prima dello scoppio della crisi siriana, si rende conto che le cause della guerra siriana sono ben altre. Esse sono di natura economica e geopolitica, certamente non climatica. La Siria ha la sfortuna di trovarsi in un posto scomodo: è proprio in mezzo ad un corridoio che collega i giacimenti di gas e petrolio della penisola arabica con i principali mercati, ovvero i Paesi della sponda nord del Mediterraneo. La Siria ha un governo che non è mai stato ben visto dalle potenze occidentali e dai loro alleati arabi in quanto ha orbitato sempre nella sfera di influenza dell’Unione Sovietica prima, della Russia e dell’Iran ora. Con l’avvento al potere di Erdogan e del suo partito in Turchia, le cose sono peggiorate in quanto la Turchia ha cercato di estendere la sua influenza sulla parte settentrionale della Siria abitata da genti turcomanne. La Siria si è trovata ad essere il classico vaso di coccio tra i vasi di ferro e si è rotta in quanto sfruttando la frammentazione etnica, culturale e religiosa che la contraddistingue, è stato facile per le potenze regionali alimentare conflitti interni annosi e mai sopiti di natura etnica e religiosa che sono deflagrati in quello scempio che è sotto gli occhi di tutti. Questa è, in estrema e rozza sintesi, la genesi della guerra civile siriana altro che la religione o il clima o le legittime aspirazioni alla democrazia del popolo siriano. Si badi bene il governo siriano non è un’associazione di santi, ha grandissime responsabilità sociali, economiche e politiche, ma le ragioni profonde della guerra siriana devono essere cercate nelle cancellerie occidentali, russe, iraniane, turche, israeliane e dei Paesi arabi (Arabia Saudita ed alleati del Golfo Arabico in testa). In Siria si sta combattendo una guerra per procura tra il blocco occidentale e quello che fa capo alla Russia utilizzando il sangue e la carne dei siriani. Punto. Altro che clima.

Con questa premessa l’articolo acquista una luce tutta particolare. Si tratta del solito pistolotto teso a consolidare il paradigma del cambiamento climatico di origine antropica in salsa militare, stavolta. L’autore prosegue la sua analisi circa l’influenza del clima sulla destabilizzazione sociale ed economica del mondo portando altri esempi. Egli analizza alcuni scacchieri in cui operano le forze armate USA ed in cui il riscaldamento globale potrebbe agire da “acceleratore di instabilità” o di “moltiplicatore di minacce” per usare i termini specifici utilizzati nelle pubblicazioni degli Stati Maggiori USA.

Egli analizza in particolare l’area Pacifica, quella Africana e l’Artico. Nell’area Pacifica il principale pericolo che le forze armate americane devono prepararsi ad affrontare, è l’aumento della frequenza degli eventi estremi e la situazione dei piccoli stati insulari a rischio di essere sommersi. Il pericolo maggiore sarebbe costituito, però, dagli uragani in quanto essi sconvolgerebbero le fragili strutture socio-economiche di Paesi come le Filippine, l’Indonesia ed il Sud Est Asiatico, esponendoli all’attrazione fatale della Cina che avrebbe gioco facile a soppiantare gli USA nel loro controllo. L’unico vantaggio degli Stati Uniti è che la Cina non fornisce aiuto in occasione di catastrofi naturali per cui è questa la direzione in cui si devono muovere le forze armate USA: soccorrere prontamente ed efficacemente le popolazioni colpite in modo da favorire un atteggiamento “amichevole” verso gli interessi americani. Mi sono chiesto se, prima di elaborare questi piani, qualcuno che conta ha preso visione dei rapporti IPCC che non hanno trovato traccia di aumento nella frequenza di eventi estremi. Secondo me li hanno letti e fin troppo bene, ma il vento politico spira in ben altra direzione, quindi è meglio approfittarne. Holland in proposito non nasconde la propria irritazione per il fatto che negli ultimi anni i fondi destinati a potenziare le capacità di intervento dei militari nell’aiutare le popolazioni colpite dalle catastrofi, sono diminuiti.

Altro scacchiere che crea preoccupazione è l’Africa. Qui il problema principale è la desertificazione e la deforestazione che provocano malnutrizione e tensioni sociali. Da queste tensioni sarebbe nato, per esempio,   il gruppo islamista Boko Haram in Nigeria. Nel futuro queste condizioni favorevoli all’instabilità sociale africana dovrebbero accentuarsi e, quindi, è necessario studiare le migliori strategie per porvi rimedio. Anche su questo punto ho molte perplessità in quanto l’Africa ha sempre subito forti stress climatici sin dalla nascita del genere umano: ci siamo evoluti nell’Africa centrale proprio a causa delle forti pressioni ambientali dovute a violenti cambiamenti climatici di origine prettamente naturale. E’ bene prepararsi per far fronte a simili evenienze, ma non bisogna imputarle al cambiamento climatico di origine antropica in quanto l’area è instabile quasi per definizione.

La terza area di possibile crisi è costituita, secondo Holland, dall’Artico in quanto a causa del rapido scioglimento dei ghiacci artici, ampie zone prima occupate dai ghiacci si aprono alla navigazione ed allo sfruttamento commerciale: il passaggio a nord-ovest è sgombero dai ghiacci per buona parte dell’anno, per esempio. A me non sembra, ma forse leggiamo carte diverse.

Per i militari USA l’Artico è un problema in quanto esso è per buona parte circondato dalle coste russe ed i Russi sono molto più forti degli Americani sotto quasi tutti i punti di vista. La lotta è impari, ma i politici USA non sono pronti ad aprire la borsa per porvi rimedio. A titolo puramente esemplificativo gli Stati Uniti dispongono di due vecchie navi rompighiaccio a fronte di una flotta russa che non ha uguali nel mondo e che conta diversi rompighiaccio a propulsione nucleare di cui una in corso di costruzione. Anche la Cina e l’India evidenziano “appetiti artici” per cui sarebbe necessario un forte impegno politico ed economico per contrastare queste forze ostili. A giudizio dell’autore tale impegno non c’è, per cui le cose si metteranno sicuramente male.

In altri termini lo sforzo delle forze armate statunitensi non si dirige verso il cambiamento climatico, ma verso le possibili conseguenze allo scopo di mitigarne gli effetti. Mi sembra un atteggiamento tutto sommato saggio, ma che convince poco il nostro autore. Egli chiude, infatti, il suo articolo con una vena di malcelato pessimismo. Ci sono voluti anni ai politici (ed agli attivisti, aggiungo io) per convincere i pragmatici militari che la minaccia climatica è una cosa seria ed ora che si sono convinti a prepararsi, si rischia di tornare punto ed a capo se a novembre dovesse vincere le elezioni un candidato repubblicano.

Ed a questo punto tutto diventa chiaro: il problema del clima che cambia e cambia male è soprattutto un problema politico a cui i militari credono poco e su cui si impegnano solo perché i politici che hanno in mano i cordoni della borsa, per ora, vedono un grande pericolo nel cambiamento climatico. Le guerre del clima potrebbero avere vita breve, in altre parole.

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Published inAttualità

10 Comments

  1. Guido Botteri

    Che la causa della nascita di Boko Haram sia indicata nel clima che cambierebbe male per colpa dell’uomo, dovrebbe farmi ridere, ma mi fa arrabbiare, invece.
    Holland, per come ce l’hai descritto, sembra essere un esperto, e quindi queste assurdità non escono, temo, per incompetenza, ma per ragioni peggiori che puoi immaginare.
    Holland, secondo me, ha due principali motivi per scrivere queste falsità
    1. bussare a soldi
    2. denigrare Trump e sostenere la Clinton

    ci vogliamo poi aggiungere il sostegno alla teoria dell’AGW, aggiungiamolo pure, ma mi sembra un po’ meno rilevante. Quest’argomento mi sembra più un mezzo per ottenere i due punti precedenti, che non fine a se stesso.

    L’aumento di temperatura che c’è stato nel pianeta (dando per buoni i dati che ci forniscono) è stato molto più sensibile ai poli che nella fascia intertropicale.
    Ora, Libia e Siria stanno un po’ più a nord, ma la Nigeria non ha avuto un aumento di temperatura tale da giustificare gli orrori di cui ci è giunta notizia.
    E la stessa cosa vale per la Somalia (la pirateria non è certo prodotto dei cambiamenti climatici) e per lo Yemen, tanto per citare posti molto caldi (non solo dal punto di vista termico)
    Strano poi che dove l’aumento di temperatura media è stato (a detta dei loro stessi dati) maggiore, non ci siano state conseguenze disastrose, e anche gli orsi se la spassino talmente bene che perfino la propaganda basata su di loro si è fatta meno assillante.
    Sulla Libia poi è meglio che non parlo, mi limito a dire che chi parla di ragioni climatiche … no, è meglio che mi sto zitto, e lo stesso vale per la Siria. Parlare di ragioni climatiche è semplicemente ridicolo.

    Insomma, stiamo parlando di un personaggio che con queste assurde esternazioni si squalifica. Esperto? Di propaganda, forse.
    Secondo me.

    • Donato Barone

      Caro Guido, tu scrivi:
      “Holland, per come ce l’hai descritto, sembra essere un esperto, e quindi queste assurdità non escono, temo, per incompetenza, ma per ragioni peggiori che puoi immaginare.”
      ed io concordo pienamente con te.
      .
      Lo scopo dell’articolo di Holland mi sembra estremamente chiaro: attribuire la responsabilità delle disastrosa condizioni in cui versano l’Africa, il Medio Oriente e diverse altre aree geografiche, ad un “fatto” globale causato da TUTTO il genere umano e contro cui i “buoni” stanno lottando con forza, allo scopo di scagionare i veri responsabili, ovvero le cancellerie occidentali, prima fra tutte quella USA retta, all’epoca dei fatti, dall’attuale candidata alla Casa Bianca del Partito Democratico. La quale è, guarda caso, una dei capofila dei “buoni” in lotta contro il malefico cambiamento climatico.
      Ed il cerchio si chiude. 🙂
      Ciao, Donato.

  2. Luigi Mariani

    Caro Donato,
    grazie per l’interessante commento.
    sul rapporto fra Africa e climate change penso occorra considerare che:
    1. si tratta di un continente enorme, che si estende su una gamma vastissima di fasce climatiche e che presenta un’orografia complessa, con ad esempio vastissimi altipiani in cui il clima è molto gradevole e favorevole all’agricoltura e alla pastorizia. Pertanto parlare genericamente di clima e di cambiamento climatico dell’Africa mi pare oltremodo riduttivo e non professionale.
    2. in quel continente si monitora pochissimo e molto male, per cui non siamo ad esempio in grado di valutare in modo oggettivo gli allarmi di siccità che vengono periodicamente lanciati o l’opinione di chi ci dice che le migrazioni dall’Africa sono spinte dal cambiamento climatico.

    Sottolineo infine quello che io avverto sempre più come il “problema dei problemi” e cioè quello delle classi dirigenti che in occidente stanno toccando livelli sempre piùscadenti. Non posso infatti dimenticare che la bufala sulla siccità come fattore d’innesco delle guerra in Siria l’hanno lanciata Obama e il suo segretario di stato, i quali, visto il successo conseguito da questa loro boutade, si sentiranno prima o poi autorizzati a raccontarci che anche in Libia….è stata la siccità a far cadere Gheddafi.
    In tale contesto è poi chiaro che gli eserciti, da sempre “usi a obbedir tacendo“, non possono che allinearsi agli slogan dei capi (anche i militari del resto hanno bisogno di fondi e per i fondi il cambiamento climatico è una vera calamita).
    Luigi

    • Donato

      Caro Luigi, concordo con te circa l’estrema varietà delle condizioni climatiche che caratterizzano l’enorme continente africano. I motivi che preoccupano l’AFRICOM (Africa Command) sono l’instabilità politica del continente, la corruzione, le epidemie, le rivalità etniche e religiose e la povertà. Questa fragilità congenita alle Nazioni africane può accentuarsi fino a determinare il crollo delle entità statuali (stati falliti, li definisce Holland). Su questo io concordo, ma sono scettico circa l’attribuzione al clima che cambia e cambia male dell’esclusiva responsabilità di questi fallimenti o del loro innesco. Tra gli Stati falliti Holland annovera la Siria e la Libia. Della Siria ho già detto e, in passato, abbiamo avuto modo di discuterne a lungo; della Libia non mi sono interessato molto per cui le mie conoscenze sull’origine della crisi libica sono piuttosto frammentarie e poco approfondite. L’unica cosa che mi sento di dire è che se non fosse stato per i Mirage e gli F16 che disarticolarono l’esercito libico, le cose sarebbero andate diversamente. Il vuoto di potere riempito dai jihadisti più o meno estremisti (mi fa ridere la definizione di jihadisti “moderati”) si è venuto a creare dopo che le falangi ribelli occuparono i gangli politico-economici del Paese, sfruttando i varchi che le aviazioni occidentali crearono nelle prime linee lealiste. Le motivazioni? Economiche e geo-politiche, ovviamente, nella migliore tradizione dell’analisi storiografica marxista! 🙂
      Stiamo vivendo, però, queste cose quasi in diretta per cui è meglio lasciare la sentenza finale ai posteri.
      Nel frattempo credo che si possa scagionare il clima che, con buona pace di Holland et similia, ha avuto un ruolo, secondo me, marginale nelle vicende che travagliano il mondo contemporaneo.
      Ciao, Donato.

      p.s.: E’ buffo come le cause economiche e le mire espansionistiche delle potenze occidentali che sono sempre state indicate come gli elementi scatenanti delle crisi internazionali dalla stragrande parte degli storici ed analisti, siano state sostituite, ex abrupto, dalle cause ambientali. Mah!

  3. Fabrizio Giudici

    Mah! Gli USA hanno basi navali prevalentemente negli oceani: l’escursione delle maree non è di gran lunga superiore alla peggior previsione di crescita del livello del mare da qui a fine secolo? E poi, la cosa non dovrebbe avere un impatto anche sui porti civili? Il traffico di merci via mare muove cifre spaventosamente alte: com’è che non se ne preoccupano? Oppure se ne preoccupano, e mi sono perso qualcosa?

    • Donato

      Del problema del livello del mare ho la netta impressione che le forze armate USA non si preoccupino affatto. Del resto nell’articolo di Holland la questione è liquidata con un paio di righe e la considerazione che ho riportato nel post.
      Diverso il caso dell’aumento del livello del mare sulla stabilità delle società di cui le forze armate USA si preoccupano molto di più. Sarebbe il combinato disposto, secondo Holland, dell’aumento del livello del mare e dell’aumento degli eventi estremi a destabilizzare aree costiere densamente popolate come quelle del sud-est asiatico. Inutile dire che si tratta solo di scenari e che di reale c’è poco o nulla, ma i piani dei militari in materia di problemi geo-politici legati al cambiamento climatico, sono tutti basati su scenari cui gli stessi militari, mi sembra, credano molto poco.
      Se pianificano e sembrano preoccupati è perché, secondo me, è così che li vogliono i decisori politici USA.
      Ciao, Donato.

  4. Franco Zavatti

    Caro Donato,
    nei comenti e nelle critiche hai descritto benissimo la situazione in cui i cambiamenti climatici di origine antropica non hanno niente a che vedere con il clima. Sono scelte politiche, condivisibili o meno, che si appoggiano su argomenti, decisi a tavolino, che sembrano i più adatti per sostenere le suddette scelte.
    Continuo a complimentarmi per lo stile chiaro e semplici con cui affronti questi temi e ti invito a continuare. Ciao. Franco

  5. alessandro

    Un esperto con tanto di grasso stipendio e figli da mandare nelle migliori scuole con le migliori auto. Ergo totalmente inattendibile-

  6. Luca Rocca

    Ricordo un intervista Rai ad un ricercatore israeliano dell’università del Negev
    L’argomento era il riscaldamento globale e a un certo punto il giornalista italiano fece una domanda un po’ maliziosa : se Israele fosse rimasto a corto di acqua potabile avrebbe dichiarato guerra ai suoi vicini per procurarsela?
    L’intervistato un po’ perplesso rispose che se avessero avuto carenza d’acqua avrebbero costruito dei nuovi dissalatori, sarebbe costato molto meno di una guerra

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