Salta al contenuto

Clima e vulcani: una storia da riscrivere

Che tra vulcani e clima esistesse un legame inscindibile è cosa nota a tutti, ma un recente articolo pubblicato su Geology a firma di G.T.Swindles, E. J. Watson, I.P. Savov, A. Schmidt. A. Hooper, C. L. Cooper, C. B. Connor, M. Gloor e J.L. Carrivick (da ora Swindles el al., 2017), getta una luce nuova sulla problematica.

Climatic control on Icelandic volcanic activity during the mid-Holocen

L’articolo analizza una fase vulcanica che interessò l’Islanda a metà dell’Olocene (circa 5000 anni da oggi). In quel periodo si ebbe un raffreddamento generale del clima che non sfociò, però, in una glaciazione. Vi fu, comunque, un’espansione dei ghiacciai terrestri e marini e, in particolare, di quelli islandesi. Le ricerche effettuate dagli autori dell’articolo, hanno potuto accertare che in quel periodo storico l’attività dei vulcani islandesi pare sia stata piuttosto ridotta. Ciò è stato desunto dall’analisi di varie serie di prossimità che riguardano tanto le eruzioni vulcaniche che i parametri climatici. Swindles e colleghi hanno potuto accertare, inoltre, che tra il massimo accumulo dei ghiacci ed il minimo di attività vulcanica, sia intercorso un lasso temporale di circa sei secoli.

Ciò in rapida sintesi, ma è necessario, a mio modesto parere, soffermarsi un poco in più sulla metodologia usata dai ricercatori e sulle congetture fisico-meccaniche che essi hanno sviluppato.

Il primo aspetto della problematica che Swindles et al. 2017 hanno messo in evidenza, riguarda un possibile legame tra massa glaciale ed attività vulcanica. Poiché la massa glaciale è appoggiata sul terreno, è chiaro che la calotta glaciale determina delle modifiche nella crosta terrestre sottostante a livello di densità. Altrettanto chiaro è che una maggiore massa glaciale, determina variazioni isostatiche della crosta che sprofonda nel mantello sottostante. Appare chiaro, pertanto, che se un’area è coperta da ghiaccio, possono verificarsi una serie di fenomeni che potrebbero influire sull’attività vulcanica dell’area.

Ovviamente affinché tutta questa premessa sia vera, è necessario che si abbiano grosse variazioni della massa glaciale, come si verifica normalmente durante una glaciazione. Nel caso dell’Islanda, stante il modesto spessore della crosta terrestre, le cose potrebbero andare diversamente, ma in ogni caso la variazione climatica, a mio giudizio, non può essere passeggera o effimera. Di diverso avviso sono, però, Swindles e colleghi.

Swindles et al., 2017 analizza in primo luogo l’andamento del clima nel periodo olocenico con riferimento a diverse serie di dati di prossimità, in particolare ai dati relativi alla concentrazione di un isotopo del sodio in una delle carote glaciali del progetto GISP2. Essi possono essere messi in relazione con l’intensità della depressione islandese: alti valori della depressione sono sinonimi di un raffreddamento del clima e, quindi, di un aumento del volume di ghiaccio sull’Islanda. Sulla base dei dati relativi alla concentrazione di sodio nella carota GISP2, Swindles et al., 2017 è del parere che, a partire da 7000 anni fa, si verificò un cambio di circolazione che determinò un approfondimento della depressione d’Islanda ed innescò un periodo di raffreddamento durato fino a circa 5000 anni fa. Tale ipotesi è supportata anche da altri dati come la produttività dei laghi islandesi e varie carote di sedimenti provenienti dalla piattaforma islandese.

indagini geo-morfologiche condotte nel corso degli anni, portano a dire che durante l’optimum olocenico, verificatosi tra 8000 e 5500 anni fa, l’Islanda era quasi del tutto priva di ghiacci tra 8000 e 7000 anni fa. Successivamente a tale data (a partire, quindi da 7000 anni fa), si cominciano a notare indizi di raffreddamento e di avanzamento dei ghiacciai.

Tutti questi dati tendono a confermare che intorno alla metà dell’Olocene si verificò un repentino cambiamento climatico caratterizzato da un raffreddamento globale. Ebbene, utilizzando dati di prossimità, consegnati in diversi record vulcanologici, provenienti da varie carote, Swindles et al., 2017 giunge alla conclusione che questo periodo di raffreddamento coincide (con uno sfasamento di circa 600 anni) con una riduzione dell’attività vulcanica islandese. A ciò si è giunti analizzando il tipo e la concentrazione nei sedimenti e nelle carote glaciali di ceneri specifiche dei vulcani islandesi. Questo fatto è suffragato da molti dati di prossimità ad eccezione di un record relativo ad una carota marina proveniente da un sito a nord dell’Islanda. La scarsa correlazione tra i dati di prossimità desunti da questa carota e quelli derivanti dai sedimenti di altri siti, sono attribuibili, secondo i ricercatori, al fatto che il sito oceanico è puntuale e fortemente influenzato dalla circolazione atmosferica.

Verificata la correlazione tra la riduzione delle temperature, l’aumento dei volumi di ghiaccio terrestre e la riduzione dell’attività vulcanica mediante dei test statistici, gli autori dello studio, giungono alla conclusione che anche modeste variazioni del volume dei ghiacci (paragonabili, con segno inverso, ovviamente, a quelle verificatesi dopo la fine della Piccola Epoca Glaciale o LIA), sono in grado di influenzare le eruzioni vulcaniche.

Questo è tutto. Nell’articolo si possono leggere interpretazioni giustificative del ritardo di circa 600 anni tra inizio della riduzione delle temperature ed inizio della riduzione del numero delle eruzioni e le motivazioni che hanno portato gli autori ad escludere che esse possano essere state determinate da ragioni geologiche e non climatiche: per chi fosse interessato il link all’articolo consente di accedere a tutta la discussione. Per quel che mi riguarda è giunto il momento delle considerazioni.

Le conclusioni degli autori non mi convincono del tutto. In primo luogo mi sembra eccessivo escludere quasi del tutto la componente geologica. Analisi geologiche non consentono di escludere periodicità millenarie o multimillenarie che spieghino alternanze tra periodi di riduzione e di aumento della frequenza delle eruzioni (cosa che Swindles e colleghi riconoscono, ma di cui, però, tengono conto in modo quasi irrilevante). In secondo luogo mi lascia perplesso il fatto che una carota oceanica non dia risultati concordanti con quelli dello studio. Potrebbe essere, ma quando si lavora con i dati di prossimità, questo fatto aumenta notevolmente il margine di incertezza che è già di per sé notevole.

Fatte salve queste obiezioni, lo studio offre una chiave di lettura piuttosto interessante sia delle variazioni climatiche che hanno caratterizzato l’Olocene, sia delle variazioni dell’attività vulcanica: un’ulteriore conferma, qualora ce ne fosse bisogno, della variabilità che caratterizza il mondo in cui viviamo.

Quello che invece non mi è andato assolutamente giù, è stata la chiave di lettura che ne hanno dato le rassegne stampa e gli organi di divulgazione scientifica. Come potete facilmente immaginare, Swindles et al., 2017 ha dato la stura ad un fiume inarrestabile di interpretazioni catastrofistiche: il cambiamento climatico in atto determinerà più eruzioni vulcaniche che in passato, titola “Le Scienze” anche se in forma interrogativa. E, stando a quanto attribuito a Swindles dalla rivista, probabilmente vedremo molta più attività vulcanica in aree del mondo in cui i ghiacciai e i vulcani interagiscono. E poiché le eruzioni vulcaniche sono pericolose per le attività umane (economiche e non), è facile concludere che il riscaldamento climatico in atto, farà aumentare le eruzioni vulcaniche.

In nessun punto di Swindles et al., 2017 ciò è scritto. In nessun punto dell’articolo si paventa un aumento della frequenza delle eruzioni vulcaniche come conseguenza del riscaldamento globale di origine antropica (eccezion fatta per una frase del penultimo paragrafo delle conclusioni che nel contesto ha un significato completamente diverso), eppure esso serve da supporto per l’ennesimo ed ingiustificato grido di allarme, lanciato dai soliti noti, per indurre gli uomini di buona volontà a combattere il mortifero cambiamento climatico di origine antropica. Anche a costo di rovesciare i termini del problema: una volta erano le eruzioni vulcaniche a determinare il clima, ora è il clima a determinare le eruzioni vulcaniche. Mah!

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...Facebooktwitterlinkedinmail
Published inAttualitàClimatologiaMedia Monitor

18 Comments

  1. donato b

    Ringrazio Giovanni e Max per gli importantissimi contributi che hanno dato a questa discussione. Io ho sollevato un problema, ma loro lo hanno discusso, sono entrati nel merito delle tesi degli autori ed hanno esposto in modo qualificato ed impeccabile le loro osservazioni .
    Le loro idee non sono concordi, ma tanto il ragionamento di Max che quello di Giovanni presentano dei punti pienamente condivisibili ed altri parzialmente accettabili.
    Chi ha avuto modo di leggere Swindles et al., 2017, il mio post ed i commenti di Max e Giovanni, credo che a questo punto, abbia le idee molto più chiare su una problematica piuttosto scivolosa.
    Personalmente ho imparato molto tanto dall’articolo, quanto dalla discussione che il post ha suscitato.
    Ciao, Donato.

  2. Fabrizio Giudici

    farà aumentare le eruzioni vulcaniche.

    Propongo, a questo punto, di modificare il classico stereotipo usato per introdurre i sistemi caotici: da “Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo” a “È noto che un peto di vacca è in grado di far eruttare un vulcano dall’altra parte del mondo”.

  3. giovanni geologo

    RIspetto a quanto riportato nel post…..
    Il primo aspetto della problematica che Swindles et al. 2017 hanno messo in evidenza, riguarda un possibile legame tra massa glaciale ed attività vulcanica. Poiché la massa glaciale è appoggiata sul terreno, è chiaro che la calotta glaciale determina delle modifiche nella crosta terrestre sottostante a livello di densità. Altrettanto chiaro è che una maggiore massa glaciale, determina variazioni isostatiche della crosta che sprofonda nel mantello sottostante. Appare chiaro, pertanto, che se un’area è coperta da ghiaccio, possono verificarsi una serie di fenomeni che potrebbero influire sull’attività vulcanica dell’area.

    Bene in allegato una sezione geologica del vulcano Torfajokull, giusto per farsi un’idea di cosa si stia discutendo qui l’articolo pdf http://www.os.is/gogn/unu-gtp-sc/UNU-GTP-SC-10-1103.pdf.

    Bene per farla semplice la struttura vulcanica dell’immagine considera spessori di rocce e magma che ha degli ordini di grandezza plurichilometriche. La densità di queste rocce diciamo che puo variare da 2.7 a 3.2 g/cm³. Ora mi domando ma che spessore di ghiacci con densita 0.9g/cm³ ci devo mettere sopra per avere un effetto di variazione isostatica, subsidenza o inibizione dell’attività vulcanica? Qui mi sembra che si stia dicendo che é possibile schiacciare un elefante mettendogli sul dorso una trapunta matrimoniale.

    Immagine allegata

    • donato b.

      Giovanni, condivido appieno le tue perplessità: mi sembra estremamente difficile che pochi metri di ghiaccio possano determinare variazioni tali da provocare una diminuzione o un aumento della frequenza delle eruzioni vulcaniche. Non sono geologo, ma avendo un’idea 🙂 del legame tra stato tensionale interno ad un materiale e sollecitazioni esterne, non ho difficoltà a comprendere che per variare la densità di una roccia, è necessaria una coltre glaciale di decine e decine di metri di spessore. Ed è proprio per questo motivo che nel post scrivo:
      “…. è necessario che si abbiano grosse variazioni della massa glaciale, come si verifica normalmente durante una glaciazione. Nel caso dell’Islanda, stante il modesto spessore della crosta terrestre, le cose potrebbero andare diversamente, ma in ogni caso la variazione climatica, a mio giudizio, non può essere passeggera o effimera.”
      Ciò che suscita meraviglia è, però, la sicurezza con cui gli autori dell’articolo affermano l’esistenza del legame e l’autorevolezza della rivista che ha pubblicato il lavoro.
      Forse la spiegazione va ricercata in quello che hai scritto nell’altro commento. 🙂
      Ciao, Donato.

    • giovanni geologo

      DOnato volevo rispondere brevemente alle tue considerazioni. QUi il punto è che abbiamo una camera magmatica spessa alcuni chilometri che soggiace ad una copertura rocciosa di 5 km di spessore. IL tutto mosso da un motore astenosferico che sta a 20 km di profondità caratterizzato da uno spessore di probabili decine centinaia km. Eccco con questi numeri devo immaginare ceh per avere effetti sul substrato sulla camera magmatica e sulle pressioni che fanno risalire il magma siano necessari altrettanti chilometri di spessore di ghiaccio in superficie, non metri o centinaia di metri.

    • giovanni geologo

      per dirla in altre parole, il magma astenosferico risale per 20 km attraverso rocce cristalline riesce a creare una camera magmatica a 5-10 km di profondità contrastando pressioni di diversi kbar , si inetta attraverso altri 5 km di rocce cristalline e poi non ce la fa a stappare 10-100 m di ghiaccio posto in superficie. COnsiglio a tutti di provare a disegnare una coltre di ghiacci spessa 100 metri in scala sul profilo che ho allegato, consiglio una penna a punta molto fine…. Diciamo che tutti noi abbiamo smesso di credere alle favole da parecchio tempo

  4. Maurizio Rovati

    Con uno che si chiama “Swindles” il dubbio che sia una truffa per un attimo può venire… 😉

    • donato b

      🙂 🙂
      Ciao, Donato.

  5. giovanni geologo

    Mah queste ricerche e ricercatori mi ricordano alcuni compagni di studio per i quali era normale pensare che una frana creasse delle pieghe in un basamento cristallino costituito da gneiss e anfiboliti, gente che chiaramente ora fa ricerca all’università date le grandi doti. MI ricorda anceh dei colleghi assistenti che si vantavano della loro ignornza in mineralogia mentre facevano gli assistenti agli stessi corsi e che dicevano che l’importante era eseguire cio che il prof chiedeva, altra gente che ha fatto carriera. E mi ricorda anche accesi scontri accesi con eminenti mummie accademiche svizzere sull’interpretazione di strutture di neotettonica quternaria e sulle dinamiche di genesi ed evoluzione di vari fenomeni superficiali, tutto era causato dai ghiacciai (vanto svizzero dopo il formaggio e la cioccolata) anche in presenza di faglie datate come attive in epoca quaternaria. Se l’eredità delllo studio accademico e scientifico é stato lasciato nelle mani di personaggi dello stesso calibro di quelli che ho incrociato durante i miei studi, provenenti da professoroni dello stesso medesimo calibro allora si spiega molto bene il fatto che terremoti, eruzioni vulcaniche e tettonica delle placche siano causati dai cambiamenti climatici ( di origine antropica charamente)

  6. Caro Donato, ho letto l’articolo e devo dire che gli autori sono daapprezzare perché affrontano un problema difficile, caratterizzato da dati scarsi e molto “rumorosi”. Ho anche scaricato i dati che sono chiamati NEVA nell’articolo (strati di cenere vulcanica) e ho notato la povertà del loro numero, certo non aiutata dal fatto che gli autori (correttamente) hanno eliminato le eruzioni non islandesi.
    Ma l’aspetto che più mi ha lasciato perplesso è quanto illustrato in figura 2, dove sono riportate le funzioni di cross-correlazione (CCF) tra GISP2 (Ice core groenlandese) e, rispettivamente, NAVA (a) e le eruzioni europee (b):
    infatti si parla di CCF=+/-0.2, un livello che io definirei di non
    correlazione tout-court -ma capisco che i pochi dati possano far vedere un mondo diverso. In particolare vedo dalla figura 2a un lag (ritardo) di 500 anni di una grandezza rispetto all’altra, più o meno quanto detto nell’articolo; nella figura 2b però, oltre ad un lag di circa 600 anni a CCF=-0.25 circa, vedo anche un anticipo di 500 anni (lag=+5) con un valore della
    CCF inferiore ma non molto diverso da quello segnato in rosso nelle figura.
    Ovviamente sono situazioni possibili che però dovrebbero indurre ad una cautela che non mi è sembrato di aver letto nell’articolo e, da quanto scrivi, neanche nei commenti entusiastici dei “credenti”.
    Nell’apprezzare la tua correttezza di giudizio, non posso che associarmi alle tue perplessità per i risultati ottenuti, pur importanti se considerati per quello che sono: indicazioni di cui tenere conto nelle ulteriori ricerche. Ciao. Franco

    • donato b

      Caro Franco, concordo con te che Swindles et al., 2017 opera su dati piuttosto poveri, ma proprio per questo credo che sia necessaria maggiore prudenza nell’attribuire alla causa climatica le variazioni delle frequenze nelle eruzioni vulcaniche. In merito alla fig. 2 dell’articolo non ti nascondo che mi ha lasciato piuttosto perplesso. Tutti i dati di prossimità desunti da siti terrestri islandesi denotano una fase di crescita della frequenza nelle eruzioni, seguita da una fase di decrescita, culminata con un minimo intorno a 5000 anni fa, seguita, a sua volta, da una nuova fase di crescita che ha portato ad un periodo, relativamente stabile, che dura fino ai nostri giorni. Fa eccezione la serie marina MD99-2275: in questo caso la distribuzione temporale delle frequenze di eruzione è del tutto diversa dalle altre serie. Gli autori hanno deciso di basare le loro analisi sulle altre serie e non su quella discordante adducendo la giustificazione che essa deriverebbe da un sito che non sarebbe stato in grado di riprodurre fedelmente la frequenza delle eruzioni a causa della sua posizione geografica (a nord dell’Islanda). La cosa mi ha notevolmente sorpreso in quanto è difficile che per centinaia di anni le ceneri vengano spinte solo a sud e poco o niente a nord. La serie marina ci racconta tutta un’altra storia rispetto alle altre, per cui qualche dubbio viene.
      .
      Circa lo sfasamento temporale tra GISP2 e NEVA, si giustifica solo con la necessità di trovare un indice CCF accettabile che gli autori giustificano con un’altra ipotesi (ad hoc?): il ghiaccio per formarsi ha bisogno di molti anni, ma si scioglie in modo relativamente più rapido.
      Si tratta di aspetti non secondari che potrebbero rendere piuttosto improbabile l’attribuzione della causa del cambiamento nella frequenza delle eruzioni al cambiamento climatico.
      Cosa che diventa ancora più plausibile se si considera che intorno a 5000 anni fa gli spessori di ghiaccio non erano tali da giustificare una pressione in grado di modificare la distribuzione del fuso nelle rocce alla base dei vulcani.
      Come vedi sono molte e diffuse le criticità, sia dal punto di vista analitico che fisico, riscontrabili nello studio e nessuna di esse viene presa in considerazione nei commenti divulgativi .
      Ciao, Donato.

  7. max pagano

    brevemente: “In primo luogo mi sembra eccessivo escludere quasi del tutto la componente geologica. Analisi geologiche non consentono di escludere periodicità millenarie o multimillenarie che spieghino alternanze tra periodi di riduzione e di aumento della frequenza delle eruzioni (cosa che Swindles e colleghi riconoscono, ma di cui, però, tengono conto in modo quasi irrilevante).”
    il discorso va però contestualizzato: in Islanda l’astenosfera (porzione del mantello terrestre parzialmente fusa e da cui traggono origine la maggior parte dei magmi dei sistemi vulcanici quali dorsali oceaniche), arriva praticamente quasi in superficie; l’Islanda è di fatto un pezzo di dorsale oceanica che, complice la presenza di un cosiddetto hot spot profondo, emerge dal mare; non c’è ragione di supporre periodicità su scala secolare di variazioni dell’attività geologica e vulcanica dell’area, trattandosi di aree più o meno ad attività costante; che poi le manifestazioni in superficie (eruzioni subaeree) di questa situazione, possano o meno verificarsi, poco importa, la storia dell’isola testimonia evidenze in tal senso decisamente più frequenti su scala temporale, che non giustificano l’ipotesi di periodicità millenarie o multimillenarie;

    sul secondo punto, la comunicazione dei media: stendiamo un velo pietoso; se perfino su Le Scienze inventano un titolone ad effetto senza contestualizzare il discorso, siamo messi male;

    nota “di costume” personale: su facebook esiste un gruppo di discussione di Giornalismo Ascientifico, dove vengono messi alla berlina tutti gli articoli che per qualsiasi verso presentano errori/orrori (ad es pochi gg fa le salamandre definite Rettili 🙂 )

    questo gruppo è gestito e frequentato da fior fior di ricercatori e di giornalisti scientifici, che scrivono su National Geographic, su Ansa Scienze etc etc etc; ebbene dopo più di un anno di frequentazione ho potuto trarre due conclusioni:

    la prima: anche in ambito “per addetti ai lavori”, il settore delle Scenze della Terra (Geologia, vulcanologia, geomorfologia, etc) sono a tutt’oggi da tanti “colleghi” di altri settori, considerate scienze di serie B; e questa cosa non mi piace per niente;

    la seconda: guai anche lì, su questo gruppo facebook, a contraddire il mantra del “clima cattivo che cambia e ci ucciderà tutti per colpa nostra”: si viene subito attaccati e etichettati come negazionisti meritevoli della lapidazione pubblica (uno dei più accaniti militanti AGW e che non si fa scrupolo di insultare pesantemente chiunque non la pensa come lui è quel Marco Ferrari, responsabile editoriale di Mondadori, di cui si è parlato qui pochi gg fa in un commento di un altro post);

    ciao
    Max

    • donato b

      Max, il minimo di credibilità che ho dato all’articolo era basato proprio sul fatto che l’Islanda è il caso eccezionale che tu hai chiarito: emersione della dorsale medio-atlantica. Ciò che mi ha molto incuriosito nel tuo commento, però, è altro. Tu reputi superfluo far ricorso a variabilità millenarie o multimillenarie per giustificare la frequenza delle eruzioni in quanto per la peculiare situazione dell’isola, l’attività è pressoché costante. La cosa non mi meraviglia perché nelle dorsali medio oceaniche è questo che accade anche se ammetto che non ci avevo pensato mentre scrivevo il post. Nel tuo commento continui scrivendo:
      “…. che poi le manifestazioni in superficie (eruzioni subaeree) di questa situazione, possano o meno verificarsi, poco importa, la storia dell’isola testimonia evidenze in tal senso decisamente più frequenti su scala temporale, …”
      Da quanto scrivi mi è parso di capire che la variazione di frequenza delle eruzioni non è imputabile a periodicità interna al sistema a bassa frequenza, ma è frutto di oscillazioni di breve periodo. Se ho capito bene, mi farebbe piacere che tu illustrassi brevemente le cause di queste oscillazioni ad alta frequenza. Se non ho capito bene ti prego di chiarire un po’ meglio la questione. Detto in altri termini c’è ancora bisogno di te per capire bene la cosa. 🙂
      Ciao, Donato.

    • max pagano

      ciao Donato, no, mi sono spiegato male;
      quello che intendevo dire, è che un po’ un gioco con i numeri il voler verificare e trovare a tutti i costi una periodicità ciclica nelle manifestazioni vulcaniche (esistono eccezioni nel mondo, una di queste è stromboli, ma è “tutta ‘n ata storia”), nello specifico dell’islanda poi c’è anche da chiarire un’altra cosa:
      il vulcanismo islandese si manifesta in diversi centri o zone di emissione, sparsi su una grande area territoriale, e soprattutto con meccanismi e situazioni diverse anche a pochi km di distanza l’una dall’altra; ad esempio, esistono sistemi vulcanici cosiddetti fissurali, (copio da wikipedia: “Nelle eruzioni fissurali la lava non fuoriesce da un unico cratere ma piuttosto da una spaccatura che si apre nel terreno, una spaccatura che può arrivare ad avere una lunghezza anche di diversi chilometri”); un esempio tra tutti l’eruzione del sistema vulcanico Laki (anzi, più correttamente Lakagígar ) del 1783, o recentemente del Bardabunga (20145/2015), o la grande caldera del Krafla, con allineamenti fissurali estesi per quasi 90 km, nel nord-est dell’isola;
      al contrario, ci sono poi veri e propri edifici vulcanici che richiamano la tipologia più comune, come l’Hekla, tipico stratovulcano alto più di 1400m, che comunque si sviluppa anch’esso, come tutti gli altri, lungo le direttrici principali dei grossi lineamenti del ridge (dorsale medio-atlantica) che attraversano l’isola;
      ecco, posso prendere due esempi per spiegarmi meglio;
      l’Hekla è probabilmente uno dei centri vulcanici più attivi dell’isola: dalla prima eruzione storicamente documentata del 1104 non è passato secolo senza che desse prova della sua vitalità, a volte anche più volte nello stesso secolo (https://en.wikipedia.org/wiki/Hekla#Eruption_history ) ; si può quasi dire che mediamente una volta ogni 50/120 anni ha qualcosa da dire al mondo;
      analoga storia ha il suo cuginetto Katla, forse anche più inquieto e attivo del primo;
      al contrario, il suo vicino Eyjafjöll , simile per genesi e struttura e a pochi km di distanza, racconta che dal 550 dC, prima sua eruzione storicamente documentata, poi si è fatto risentire solo nel 1612, poi nel 1821 e poi con la famosa del 2010;

      potrei continuare con tanti altri esempi, ma……
      che tipo di periodicità dovrei desumere da questa scarsissima serie di dati, su un intervallo di tempo così ristretto, e così contraddittoria tra sistemi vulcanici fratelli (“fratelli”, perché tutti figli della stessa mamma – la dorsale medio oceanica- ), ma di così diverso comportamento?

      la storia geologica dell’isola insegna anche che quanto più ti allontani dal sistema della dorsale, sia verso est che verso ovest, tanto più lo spessore della litosfera rigida aumenta, perché quelle sono ormai le parti più antiche dell’isola che allontanandosi dalla dorsale per l’espansione e l’allontanamento delle due placche (europea e nord americana), si sono raffreddate e via via sempre meno coinvolte da attività vulcanica;

      allora: tornando al lavoro dei ricercatori all’origine del tuo post, e per rispondere parzialmente anche alle obiezioni di Giovanni:
      inizio il mio discorso ricordando che solo 11.000 anni fa, l’islanda era interamente coperta da una calotta glaciale dello spessore, come ordine di grandezza, del km, se non oltre; oggi ne rimangono piccoli lembi, decisamente più contenuti anche in spessore; ricordo anche che 10.000 anni, in termini geologici sono poco più che un battito di ciglia, soprattutto se parliamo di riequilibrio isostatico della litosfera, eppure in tutto il Nord Europa, in particolar modo in Scandinavia, la risposta isostatica delle terre emerse al ritiro dei ghiacciai Würm, è stata di quasi 120 m di risalita, che non è uno scherzo;

      va da se quindi che l’influenza che la copertura glaciale può avere sul carico litostatico al di sopra di camere magmatiche, è tanto più alta quanto le camere magmatiche stesse sono più vicine alla superficie, e in alcune zone d’islanda questa è una situazione reale; non è un caso tra le altre cose, che il 95% di tutte le manifestazioni sismiche, ha profondità ipocentrali mai superiore ai 2-3 km, il che vuol dire che oltre quelle profondità c’è materiale sublitosferico sufficientemente caldo da essere parzialmente fuso e non permettere l’origine e la propagazione di deformazioni rigide (terremoti);

      aggiungo: oltre al peso della copertura glaciale, c’è un altro fenomeno che viene poco considerato: una camera magmatica è come una enorme pentola a pressione, dove gas e fase liquida del magma sono miscelati insieme fintanto che la pressione litostatica è sufficiente a contenere il “desiderio” di espansione dei gas; se avete presente l’effetto “cocacola agitata”, finché non sviti il tappo, rimane tutto lì, ma al primo mezzo giro di tappo, la CO2 inizia a liberarsi, e da lì in poi se non interviene di nuovo il blocco dell’apertura, l’esplosione è assicurata; nei magmi è la stessa cosa: appena il carico litostatico diminuisce, una porzione dei gas si libera dal magma aumentando a dismisura la pressione interna, e appena arriva ad essere sufficiente per rompere la copertura rocciosa sovrastante, si verifica l’eruzione;
      non faccio fatica a credere che da 10.000 anni fa ai secoli/millenni successivi , la rapida scomparsa dei ghiacciai Würm abbia fortemente spostato l’equilibrio pressione litostatica=pressione interna dei magmi, nelle zone dove la porzione parzialmente fusa e ad alta temperatura del mantello staziona a pochi km di profondità;

      faccio sicuramente più fatica a pensarla in termini attuali, dove le variazioni di copertura glaciale sono dell’ordine di qualche metro/decina di metri, però, più di tanto non mi pronuncio, non avendo modo di vedere/fare calcoli alla mano;

      ciao Donato, e grazie ancora comunque per questi interessantissimi spunti di discussione 🙂

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Categorie

Termini di utilizzo

Licenza Creative Commons
Climatemonitor di Guido Guidi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 4.0 Internazionale.
Permessi ulteriori rispetto alle finalità della presente licenza possono essere disponibili presso info@climatemonitor.it.
scrivi a info@climatemonitor.it
Translate »