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Dalla scienza all’apocalisse, senza passare dal via

Come tutti, ma proprio tutti sanno, in questi giorni è in corso l’ennesima Conferenza delle Parti (in breve COP25) dell’UNFCCC, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa di clima. Mentre la conferenza è più o meno a metà strada, i lavoro vanno decisamente a rilento e l’unico sussulto, ammesso che si possa considerare tale, è stata la comparsa dell’icona climatica di questi ultimi mesi, Greta Thumberg. Al termine di una seconda traversata a vela dell’Atlantico (seguita in tempo reale da tutti i media del globo), è arrivata appena in tempo per lamentarsi di non meglio specificati tentativi di silenziare la sua giovane voce in una sala stampa gremita affollata da appena 400 giornalisti, tutti evidentemente dotati di silenziatore ;-).

Non mi dilungherò oltre sulla cronaca della kermesse climatica, in parte perché la trovo mortalmente noiosa, in parte perché, doverosamente, c’è già chi ne parla puntualmente sulle nostre pagine, un lavoraccio di cui non finirò mai di ringraziare l’amico Donato Barone.

L’argomento COP25 è però utile per riflettere su qualcosa che sta emergendo prepotentemente negli ultimi mesi e cioè, che i negoziati vadano o meno a buon fine, che si riesca o meno a trovare un accordo, quali ne possano essere i contenuti, sarà comunque tutto inutile (in termini climatici s’intende), in quanto basato su presupposti che stanno mostrando sempre di più la loro inadeguatezza. Il tema è, forse lo avrete capito, che l’accelerazione che la discussione sui temi del clima ha subito negli ultimi anni, passando dalla ricerca di comprensione del livello di contributo antropico sulle dinamiche del sistema ad annunci ripetuti di catastrofe imminente, nulla ha a che vedere con i temi scientifici – che progrediscono con i loro modi ed i loro tempi – quanto piuttosto attiene in via esclusiva agli ambienti della politica, dell’attivismo e di una cassa di risonanza mediatica sciatta e superficiale, che ha ormai sostituito la divulgazione con la proclamazione.

E’ pur vero, che l’incipit a questa accelerazione lo ha dato proprio l’IPCC, organo che raccoglie risultati scientifici per tradurli in comprensione politica. Come spiega Roger Pielke Jr in uno dei suoi ultimi editoriali su Forbes, è stato proprio l’IPCC, tra il 4° e il 5° Report pubblicati, ha dato il via ad un cambiamento di paradigma sostanziale. Inizialmente e fino appunto al 4AR, l’IPCC, il cui lavoro si basa sulla definizione di diversi scenari climatici associati a diversi scenari di emissione e quindi anche economici e sociali, non aveva mai assegnato maggiore probabilità di occorrenza a nessuno di questi scenari, lasciando quindi spazio all’incertezza. Il tutto nell’impossibilità, tutt’ora esistente, di restringere il range delle probabilità nella determinazione delle reazioni del sistema al persistere, mitigarsi o accrescersi del contributo antropico alle dinamiche del clima. Con il quinto Report (AR5), si è deciso, vista la persistenza di ratei di emissioni elevati, di assegnare maggiore – anzi quasi esclusiva – probabilità di occorrenza al peggiore degli scenari possibili, quello appunto con impatto sul sistema ritenuto più devastante.

Di lì in avanti, siamo stati letteralmente inondati di letteratura che ha proiettato questo impatto in ogni settore dello scibile umano, appunto presagendo disastri, alimentando atteggiamenti di attivismo che invocano il ritorno all’età della pietra e suscitano grande simpatia (purché restino alla dovuta distanza dall’orticello di ognuno di noi) e facendo la fortuna di un sistema della comunicazione letteralmente impazzito.

Ma, si dirà, questi disastri potrebbero anche essere veri…

E qui viene il punto. Lo scenario peggiore, già poco probabile all’atto della sua definizione, è divenuto ad oggi del tutto improponibile se non addirittura impossibile. La crescita economica e le relative emissioni ad esso associate, sono sempre più lontane dalla realtà e sono, con riferimento al futuro, molto ma molto diverse dalle proiezioni più recenti. E’ notizia di questi giorni che le emissioni potrebbero essere all’inizio di un lunga fase di stazionarietà, comunque a livelli elevati, ma non destinate a crescere ai livelli immaginati. In poche parole, le policy su cui si cerca di trovare un accordo, sono basate su un mondo che non esiste.

E, pare, nel prossimo report IPCC la musica sarà la stessa.

Già, ma il clima? Qui piove, tira vento, fa caldo, fa freddo, insomma, uno sfacelo… Bé, la battaglia è anche su questo. Proprio all’inizio della conferenza è uscito un paper fresco fresco che sottolinea come molte delle previsioni fatte dai modelli climatici già venti anni fa si siano rivelate corrette. Quindi, scenari o no, sembra proprio che abbiamo un problema. Probabilmente più d’uno. Il primo è che certamente le attività antropiche hanno – tutte, non solo le emissioni – un peso sul clima, ma il secondo è che non sappiamo quale sia questo peso e attribuire capacità predittive a modelli che riproducono la realtà solo dopo essere stati ri-aggiustati con le osservazioni reali è un esercizio che attira la stampa come la carta moschicida ma respinge la possibilità che si possa arrivare ad una soluzione.

Del resto, senza l’ardire di trovarla questa soluzione, ma ponendosi giustamente una domanda, appena un paio di giorni fa abbiamo visto come, stranamente, la realtà stia seguendo una strada ben diversa da quella delle proiezioni climatiche. Una strada in apparente (ma solo perché inspiegabile) contraddizione, come concludono Luigi Mariani e Franco Zavatti:

I modelli sembrano rappresentare al meglio i dati osservati dal 1986 al 2018 quando si utilizza il loro inviluppo inferiore, anche se non è chiaro il significato di tale inviluppo.

L’inviluppo inferiore, esempio unico tra tutti i casi che abbiamo potuto verificare, ricostruisce anche la pausa, cioè la stasi della temperatura globale tra il 2001-02 e il 2013 (prima che El Nino 2015-16 potesse prendere il sopravvento).

Non siamo in grado di fornire una spiegazione del perché l’inviluppo inferiore fornisca la migliore rappresentazione delle osservazioni. Offriamo questo aspetto dell’analisi del clima come contributo ad eventuali, ulteriori discussioni.

Vi lascio con una previsione, alla COP26 di Glasgow saremo ancora qui a parlarne… ;-).

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Published inAttualità

4 Comments

  1. Andrea

    LUIGI MARIANI la religione del cambiamento climatico o della crisi climatica non potrà far meno di esistere esattamente come tutte le altre religioni di questo mondo..le religioni sono state inventate apposta per controllare la paura della morte o del non controllabile e la moderna religione di cui si parla qui non fa eccezione, fa troppa paura rendersi conto di non contar niente a questo mondo…meglio credere all’impossibile

  2. Luca Maggiolini

    Caro Luigi, temo che la foglia di fico non si toglierà mai, perchè sarebbe complicato sostenere cose tipo: Basta democrazia, ora si passa ad una aristocrazia, ovviamente rappresentata da noi elite finanziaria che sa cosa il genere umano necessita.
    Per cui tutti più ignoranti e poveri, ma soprattutto meno liberi, così che i pochi manovratori possano controllare meglio la massa informe (una versione moderna e, se vogliamo, digitale del latifondo). Non è un caso che il vero nemico sia la classe media – che, per inciso, è quella che ha generato la vera ricchezza diffusa nel mondo occidentale.
    Nel mentre, ogni strumento, ogni lotta – sempre più stupida – va bene. Il nemico può essere la benzina col piombo (mentre gli aromatici nella “verde” sono acqua di violetta…), poi il nucleare, poi il carbone, poi l’olio di palma, ora il demone diesel e la plastica, poi sarà qualcosa d’altro – per tacere degli OGM e compagnia varia. Non importa se sia una battaglia sensata o no, l’importante è trovare un demone – che i sostituti siano peggio dei (presunti) mali non è rilevante.

  3. Luigi Mariani

    Guido,
    mi pare evidente che il dibattito sul clima sia una sovrastruttura e che il vero obiettivo sia quello di cambiare il modello di sviluppo che nel bene o nel male (a mio avviso assai più nel bene che nel male…) ci sta accompagnando dalla fine del secondo conflitto mondiale.
    E se si levasse una buona volta la foglia di fico del cambiamento climatico distruttivo e si iniziasse a ragionare di modelli di sviluppo? Penso però che la cosa spaventi troppi, per cui meglio fermarsi alla demagogia e inscenare ridicole “crociate dei bambini”, anche perchè pescando nel torbido sollevato dalle “tempeste demagogiche” si ottengono spesso grandi risultati come sanno molte lobby attivissime in questo contesto.

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