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Non chiamateli eventi eccezionali

Dopo aver visto accadere a poca distanza dalla propria casa tragedie come l’ennesima alluvione della propria città, la seconda sensazione personale – subito dopo la condivisione del dolore altrui – è la nausea di vedere ripetersi, come negli ultimi trenta/quarant’anni di cui posso dare testimonianza personale, le solite discussioni che probabilmente non porteranno a niente. E’ un evento eccezionale; no, non lo è. Si poteva prevedere, si poteva evitare; no, non si poteva. E così via.

Perdersi in discussioni interminabili, quasi sempre orientate più alla difesa della propria fazione che non alla ricerca di una soluzione, è un vizio italiano secolare, che ci porta guai a tutti i livelli possibili. Siccome la natura umana non si cambia dall’oggi al domani, la mia personale posizione è questa: stroncare le discussioni inutili alla radice o, perlomeno, spostarle su un binario secondario.

Le discussioni sulle cause climatiche di queste tragedie, AGW o no, sono un primo caso eclatante. Io, scettico, posso anche indossare per trenta secondi (beninteso, solo per trenta secondi) i panni del più convinto sostenitore dell’AGW (con la A), della necessità delle emissioni zero di CO2 e delle energie alternative; ma anche in questi panni, non posso nascondermi che ogni conseguenza positiva di comportamenti umani forse virtuosi necessiterà di qualche decennio per attualizzarsi. Nel frattempo? Nel frattempo, come questo blog ripete da tempo, è necessario dare priorità agli interventi di contenimento e di riduzione del danno.

Per prima cosa, smettiamo di definire “eccezionali” questi eventi. In particolare, trovo disgustoso che politici locali e quotidiani nazionali stiano usando il termine “tsunami” per i fatti di Genova. Lo tsunami evocato è un evento di portata millenaria e che coinvolge forze della natura troppo grandi per le nostre attuali capacità. Qualche ora di pioggia è una cosa del tutto diversa. Smettiamo di darci e dare alibi per non agire.

Credo siano quattro i punti importanti da affrontare:

  1. Effettuare le operazioni urgenti sul territorio per ridurre il rischio. Questo vuol dire costruire scolmatori (che, nel caso genovese del Bisagno e del Fereggiano, non sono stati mai fatti nonostante decenni di discussioni) e demolire un certo numero di costruzioni che hanno ridotto lo spazio vitale dei corsi d’acqua. Il dettaglio lo lascio agli esperti, ma secondo me non è il caso di farsi troppe illusioni: se si dovesse tornare ai limiti “naturali” dei corsi d’acqua andrebbero demoliti interi quartieri e migliaia di persone dovrebbero cambiare casa. Un obiettivo non realizzabile, per costi monetari e politici.
  2. Allora bisogna imparare a convivere con il rischio. Nello specifico, a Genova bisogna accettare che alcune aree della città possono diventare pericolose in certe circostanze, ripeto, assolutamente non eccezionali. Pertanto, bisogna dotarsi di sistemi di allarme automatici per la popolazione (pannelli segnalatori, avvisatori acustici), prevedere ed insegnare i comportamenti adeguati da tenere nelle emergenze, eccetera. Certo, il torrente Fereggiano ha un corso di pochi chilometri e non è come il Po, di cui si può anticipare di ore il passaggio della piena. Ma mi chiedo se con dei rilevatori piazzati a monte non sia possibile dare l’allarme almeno con qualche minuto di preavviso. Credo che sia possibile prevedere con precisione di alcune ore la posizione delle cellule temporalesche ed integrare opportunamente questi dati nei sistemi di allarme automatici. I punti a rischio sono ben noti e credo che siano disponibili modelli validi per prevedere quali strade sono interessate dal deflusso delle acque (purtroppo direi che ci sono già anche evidenze sperimentali). Sarebbe sufficiente a salvare le persone, bloccando l’accesso delle auto e approntando passerelle e vie di fuga. E adottando magari delle precauzioni nella costruzione delle case: molte delle vittime di ieri sono morte per essere state trascinate in uno scantinato dall’acqua. Mi chiedo: se l’accesso allo scantinato fosse stato protetto da una porta chiusa, l’acqua avrebbe probabilmente spinto le persone sulla scala che portava al primo piano. Lascio i dettagli agli esperti: ma sottolineo il concetto, che si tratta di interventi “piccoli”, ma “intelligenti”: avrebbero costi limitati, tali quindi da non innescare alibi di comodo per gli amministratori locali.
  3. C’è poi un livello di autoprotezione, come è stato definito dalla Protezione Civile, a cui bisognerebbe educare la gente. Io credo che chi vive in città abbia perso la consapevolezza del territorio. Gli oltre novanta corsi d’acqua che attraversano Genova sono stati in gran parte tombinati e quindi non sono visibili. Molti concittadini non sanno neanche che esistono. Ma se vivete in un posto collinare, come fate a non chiedervi in che modo l’acqua fluisce a valle? Conoscere meglio il posto in cui si vive permetterebbe, anche senza interventi delle autorità, una migliore valutazione del rischio personale.
  4. Oltre alla valutazione personale del rischio, bisogna insegnare i comportamenti da tenere durante un’emergenza. A scuola, tanto per essere chiari. Così come si deve insegnare che durante un terremoto bisogna cercare di mettersi sotto un tavolo, non è possibile insegnare come affrontare una piena di un torrente? Mi ha colpito, nei vari filmati postati su internet, vedere persone in auto prese di sorpresa dall’acqua rimanere fermi senza sapere cosa fare (mentre altri avevano già fatto inversione marcia e si allontanavano). Quanti sanno che può bastare una ventina di centimetri di acqua sopra il fondo dell’auto per farla galleggiare? Testimoni riferiscono che la ragazza morta mentre riaccompagnava a casa il fratello è rimasta per molti preziosi secondi in mezzo alla strada senza reagire, prima di essere travolta da un’auto. Il fratello, invece, si è salvato. Ognuno reagisce in modo diverso nelle emergenze, ma può migliorare se opportunamente educato. Tutte cose che non salveranno le case e gli esercizi commerciali, ma le vite umane sì.

Gli ultimi tre punti non richiedono grandi investimenti, anzi. Penso che siano anche in grado di raccogliere un ampio consenso. Ma richiedono di accettare gli eventi e di smetterla di ragionare sempre solo per i massimi sistemi, come l’AGW. Quindi, ripeto, smettiamo di chiamarli “eventi eccezionali”.

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Published inAttualitàVoce dei lettori

4 Comments

  1. Quando ho mandato il post, l’altro giorno, non avevo letto i documenti del prof. Ortolani, che non erano stati ancora pubblicati qui. Io non ho nessuna particolare competenza in idraulica, ma ho supposto che le cose relative alla prevenzione si possano fare, per quella che è la mia conoscenza generica delle cose. Effettivamente, dai commenti di Ortolani relativi all’andamento temporale delle precipitazioni parrebbe che, sia alle Cinque Terre che a Genova, sarebbe stato possibile dare un allarme tempestivo, ben in anticipo rispetto ai pochi minuti che ipotizzavo.

    A questo punto, vorrei tanto sapere se al Comune di Genova o alla Provincia o la Regione c’è un ufficio tecnico che ha almeno valutato questo tipo di interventi.

    • donato

      Credo che l’Ufficio tecnico (meglio GLI Uffici tecnici) ci sono, che abbiano valutato gli interventi proposti dal prof. Ortolani, lo credo un po’ meno (sono pratico di Uffici tecnici).
      Ciao, Donato.

  2. Guido Botteri

    Per quanto riguarda il punto 4, tenuto conto che la zona dell’alluvione mi sembra limitata (sbaglio ?), forse si potrebbe costruire dei parcheggi, non raggiungibili da un’eventuale alluvione, e vietare la sosta nella zona. In questo modo si limiterebbero i danni, perché anche la perdita di un’auto non è un danno irrilevante, anche perché temo che le assicurazioni… (personalmente ho una disastrosa esperienza, lasciamo perdere).
    La cosa fondamentale è comunque l’organizzazione, che consiste in vari punti:
    . informazione “in tempo reale”
    e cioè in tempo utile per mettersi in salvo. Maggiore è l’organizzazione e la preparazione delle persone, minori sono i tempi strettamente necessari per salvarsi;
    . addestramento
    le persone dovrebbero sapere esattamente cosa fare in caso di pericolo, e questo richiede la creazione di corsi, con un’essenziale fase pratica, in cui le persone possano provare ciò che gli è stato insegnato teoricamente. Se nion sbaglio in Giappone già lo fanno, per i terremoti, e si direbbe che i risultati siano confortanti, a giudicare dal bassissimo numero di vittime in caso di terremoti anche forti (lo tsunami ha determinato le migliaia di vittime, non il terremoto, o le radiazioni, a Fukushima, e evidentemente non erano preparati ad affronatre un simile tsunami);
    . risorse
    è ovvio che la costruzione di parcheggi anti-alluvione richiedono una certa spesa (non credo drammatica, anche a fronte dei benefici), e quindi un impegno anche economico. Anche le auto nelle strade al momento del pericolo dovrebbero essere deviate verso il parcheggio libero più vicino, e questo richiede una coordinazione (che poi non è la fine del mondo) perché qualcuno dovrebbe sapere dove e quanti posti liberi ci siano verso i quali dirottare le auto in transito;
    . vie di fuga
    per chi si trova in paraggi non suoi, deve essere possibile fargli raggiungere in tempi minimi luoghi in sicurezza. L’alluvione è micidiale, ma non raggiunge un’altezza tale che non si possa raggiungere in breve tempo un posto in sicurezza, posto che siano previsti in quantità sufficiente e a distanze ragionevoli.

    Trovo giusto che chiunque abbia altre idee, da aggiungere, o migliori di queste, le esponga. Diciamo che questo mio è solo un primo tentativo di brain storming a cui invito tutti a partecipare.

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