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Mirror posting: Il fallimento del Protocollo di Kyoto

Il 15 febbraio è stata l’annuale giornata dedicata alla manifestazione “M’illumino di meno”, il 16 febbraio è stato l’ottavo anniversario dell’entrata in vigore del “Protocollo di Kyoto”. Dovevano essere due giorni di grande festa per gli ecologisti visto che, secondo il “Dossier Kyoto 2013” della “Fondazione per lo sviluppo sostenibile”, l’Italia ha più che centrato il target nazionale di riduzione delle emissioni di gas serra fissato al 6,5% arrivando a una riduzione del 7%.
Grazie agli incentivi alle fonti rinnovabili, alla delocalizzazione di produzioni inquinanti e soprattutto alla crisi economica quanto richiesto dagli ambientalisti di Kyoto è stato fatto, le emissioni italiane di anidride carbonica si sono ridotte come richiesto dall’Europa (mentre quelle a livello globale sono aumentate).

 

Si sarà invece notato che i due eventi hanno avuto un risalto molto minore rispetto agli scorsi anni. Dell’aver centrato quanto richiesto nessun politico sembra volere il merito, né il centro sinistra che con Prodi si definì “militante di Kyoto”, né il centro destra, né Monti che dovrebbe fregiarsi del merito di aver guidato l’Italia negli ultimi anni.

Cerchiamo di ricordare sommariamente in cosa consisteva il Protocollo di Kyoto. L’11 dicembre 1997 a Kyoto più di 180 stesero, invocando il “Principio di Precauzione”, un protocollo in cui si imponeva solo ai Paesi maggiormente sviluppati d ai Paesi in via di transizione (praticamente USA, Canada, Europa, Russia, Giappone e Australia) di ridurre obbligatoriamente entro il 2008-2012 le loro emissioni di gas serra del 5% rispetto al 1990. Il protocollo non imponeva obblighi sui paesi oggi noti come BRICS e gli USA non hanno mai ratificato l’accordo che è divenuto successivamente operativo nel 2005 con la partecipazione della Russia. Il mancato raggiungimento degli obiettivi non prevedeva sanzioni, per l’Europa queste ultime sono state previste tramite una direttiva comunitaria che ha dato vita anche al un mercato dei “crediti di carbonio” detto EU ETS (UE emissions trading system).

 

Siamo tutti d’accordo sugli scopi di migliorare l’efficienza energetica a livello globale, di evitare gli sprechi e di investire in nuove tecnologie, ma il “protocollo di Kyoto” non ha fatto questo ed era prevedibile fin dall’inizio.
L’Italia dopo l’austerity degli anni ’80 era stata costretta a convertirsi a un apparato produttivo efficiente (prima del 1990). Tutti ricordano ad esempio il passaggio dal riscaldamento centralizzato a combustibile fossile alle caldaie a metano per singolo appartamento. L’Italia è una delle nazioni in Europa con minor emissioni pro capite ed è anche ai vertici per quanto riguarda l’efficienza nel rapporto tra PIL ed emissioni.

 

Il “Protocollo di Kyoto” però non ha scelto un criterio di valutazione che tenesse conto dell’efficienza, ma si è limitato semplicemente a prendere come riferimento le emissioni dell’anno 1990. E’ accaduto come se alcuni gruppi di persone avessero l’obiettivo di diminuire globalmente le calorie ingerite, ma il riferimento utilizzato non è quanto i gruppi consumano procapite e/o quanto consumano per svolgere le loro attività: semplicemente s’impone una riduzione rispetto alle calorie consumate in un dato giorno.

 

Naturalmente per chi quel giorno era a un banchetto sarà facile la riduzione, chi invece era già a dieta avrà enormi problemi a ridurre i consumi. La scelta del 1990 come anno di riferimento nella UE ha agevolato paesi come la Germania o la Russia che in quegli anni dismettevano le tecnologie obsolete e altamente inquinanti dell’ex-URSS (la Russia ed Ucraina hanno diminuito notevolmente l’emissioni e ora sarebbero in grado di vendere le quote di quanto “fatto” in più), come la Svezia che ha una buona dose di energia nucleare e idroelettrica alla quale ha aggiunto centrali a carbone costruite in Polonia, come la Francia che ha un’alta percentuale di energia nucleare, e infine come l’Inghilterra che da una produzione energetica prevalentemente a carbone è passata ad altre modalità proprio a cavallo degli anni ‘90.

 

Gran parte degli altri paesi hanno affrontato grandi difficoltà per raggiungere gli obiettivi per loro fissati dal protocollo, nonostante spesso sono tra le nazioni più efficienti dal punto di vista energetico. Allora per ridurre le emissioni talvolta si è costruito le centrali o portato produzioni a carbone in paesi esteri come l’Albania o Cina, paesi su cui non cadono obblighi dal protocollo di Kyoto (con la ricaduta di una minore possibilità di lavoro in Europa e un’identica quantità di anidride carbonica emessa nell’atmosfera come se la centrale fosse nel nostro continente).

 

Pur partendo da buoni principi, il “protocollo di Kyoto” si è trasformato per gli ecologisti estremi nell’ennesima battaglia ideologica, forse idolatrica, che pur non avendo effetti ambientali concreti sul clima del pianeta (ammesso che sia l’anidride carbonica a modificare il clima) deve essere combattuta per segnare una svolta nell’educazione del popolo.
Raggiunto l’obiettivo della riduzione ci si è accorti che il mercato europeo dei “crediti di carbonio” sta collassando, le aziende più inquinanti europee hanno delocalizzato emettendo talvolta ancor di più di quanto faceva in Europa, le emissioni a livello globale sono aumentate ed è aumentato l’utilizzo di carbone, di petrolio e gas sembra essercene ancora molto specie dopo l’estrazione da scisti, la Cina e i paesi orientali hanno preso la supremazia sulle tecnologie rinnovabili su cui gli europei puntavano.
Forse è per questo che gli ecologisti cominciano a domandarsi il 16 febbraio: “E’ qui la festa”? I cittadini europei da un po’ hanno cominciato a capire che la festa era per gli altri.

 

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Il post originale è uscito su La Nuova Bussola Quotidiana

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Published inAttualitàEnergia

4 Comments

  1. Rinaldo Sorgenti

    Ricordarci della incredibile beffa e fregatura che ci è stata servita (come Paese) da quegli pseudo-ambientalisti e politicanti che avrebbero dovuto meglio difendere gli interessi Paese in Europa, è certamente utile, perchè il tempo spesso è galantuomo e dimostra quanto fuorvianti, costose e dannose siano le ideologie ed i teoremi che imperversano su certi temi, quello del clima che cambia ne è un’esempio eclatante.
    Per chi volesse, anche solo per memoria, analizzare quanto speculativo e dannoso per l’Italia fu tale teorema ed il collegato e conseguente BSA (Burden Sharing Agreement) che fu definito in Europa per distribuire tra gli allora 15 Paesi Ue la riduzione decisa dalla Ue dell’8% (magnanimi) tra i Paesi membri, suggerisco di andare a cercare lo studio elaborato al tempo dalla SSC (Stazione Sperimentale per i Combustibili), dove si dimostra che, ad una ripartizione equa e proporzionale (come avrebbe dovuto essere), all’Italia sarebbero spettati circa 100 milioni di tonn. di CO2 in più di quelli invece assegnatoci. Ad un prezzo “teorico” all’ora scelto come parametro di valutazione per cercare di far partire la speculativa e fuorviante 2Borsa delle Emissioni), cioè 20 Euro x tonn., quella fregatura corrispose a 2 miliardi di Euro sottratti all’Italia per distribuirli (guarda caso in maniera molto “bilanciata” per loro!), a Germania, Francia, U.K. ed Olanda. Si Olanda, che evidentemente in Ue conta più dell’attenta Italia!
    Ed ora cosa ci stanno cercando di cucinare ? Ma il Kyoto 2, che sperano di editare con la COP21 del prossimo Dicembre 2015 a Parigi. La grancassa fuorviante e speculativa ha già cominciato a fare molto rumore e se non ci si sveglia, è molto probabile che la frittata sarà abbondante e saporita, ma non per noi!

  2. Rinaldo Sorgenti

    Egregio Donato,
    ringrazio per l’opportunità di fare un poco di chiarezza sulla “bufala” dell’apparente riduzione delle emissioni ottenuta negli USA con la riduzione dell’utilizzo del Carbone per la produzione elettrica, grazie al massiccio sviluppo dello “Shale-Gas” che ha fatto crollare il prezzo del Metano negli USA.

    Ora, la “bufala” nasce dal fatto, molto speculativo, che si lascia intendere che utilizzando il Gas Metano per produrre l’elettricità si ottenga di emettere circa la metà delle emissioni di CO2 in atmosfera. Questo potrebbe risultare anche vero, se le emissioni di CO2 (e GHG) in atmosfera fossero solo quelle della fase “post-combustione” (vale a dire le emissioni derivate dalla combustione dei vari combustibili fossili, in quanto, evidentemente, il Carbone (si chiama così per questo) contiene una maggiore quantità di Carbonio nella propria molecola rispetto al Metano (CH4).

    Peccato, però, che praticamente nessuno o quasi si preoccupi di andare a monitorare, vedere e conteggiare quelle che sono le emissioni di GHG nella fase “pre-combustione”, vale a dire quando si estraggono i combustibili dal sottosuolo, in particolare gli iderocarburi: petrolio e soprattutto Metano.

    Intanto, per semplicità, è utile considerare che proprio l’estrazione dello “Shale-Gas” comporta emissioni dirette in atmosfera dello stesso Gas e che, in gergo, vanno sotto la definizione di: “Methane Fugitive Emissions”. Vi sono interessanti studi di alcune Università USA che approfondiscono questo tema focalizzando l’attenzione su alcuni dei maggiori giacimenti di Shale-Gas (per esempio: la Cornell University di Ithaca/NY con il Report che va sotto il titolo di: “Methane emissions and GHG footprint from shale formation – 2011), dove si mstimano tali “fugitive emissions” (non dichiarate ne conteggiate però da nessuno ai fini delle emissioni di GHG in atmosfera.
    Quello che in tale Report risulta inoltre ancor più interessante è il “fattore di conversione” ai fini del GWP (Global Warming Potential) dei vari GHG in atmosfera, dove, convenzionalmente (?), la famosa UN-IPCC ha indicato nei propri Assessment Reports di considerare il rapporto: 21-23 volte per la molecola del CH4 rispetto alla molecola della CO2. Peccato che tale rapporto – si precisa da parte UN-IPCC – è quello riferito in un arco temporale di 100 anni (da loro “stranamente” suggerito come da considerare), mentre se si confronti tale aspetto in un arco temporale più ridotto: 20 anni, allora la musica cambia drasticamente ed il coefficiente deve sostanzialmente essere moltiplicato per 3. Ma non basta, infatti nello studio si dice che più recenti approfondimenti danno un coefficionete che non è di 21-23 volte ma bensì 33-35 volte (sempre in 100 anni) e quindi 105 volte nell’arco temporale dei 20 anni.

    Ebbene, non ci stanno costoro dicendo quanto sia urgente intervenire per ridurre e prevenire le emissioni di GHG in atmosfera? Ed allora, non sarebbe “logico” considerare il termine dei 20 anni a tale scopo ???

    Per non dilungarmi troppo, vorrei però brevemente accennare anche ad un altro “marginale” dettaglio, vale a dire che nel sottosuolo, insieme al Metano, Butano, Propano, ecc. vi è sempre presente – in misura variabile, come variabile è la qualità dei vari combustibili nelle diverse aree – anche: H2S, CO2, NO2, che vengono estratti insieme al CH4 in fase di estrazione del combustibile e che da decenni le Compagnie maggiori provvedono a “catturare” (vale a dire separare dal flusso in uscita, perchè considerati dannosi e non desiderati a destino con il Metano, per essere quindi rilasciati (vented) in atmosfera.

    Peccato che tali gas NON siano conteggiati ne attribuiti ad alcuno ed in molti giacimenti la presenza di CO2 sia tutt’altro che marginale. Es. Mar Caspio, Libya, Egitto, ecc. ecc., dove la CO2 arriva a percentuali di concentrazione in giacimento del 30-40%.

    Allora, davvero gli USA hanno ridotto le loro emissioni gi GHG in atmosfera a seguito dello “switching” parziale tra Carbone e Gas ?

    Forse è ora di parlarne ed approfondire.

    • donato

      Ringrazio R. Sorgenti per le sue considerazioni. Devo ammettere che rientro (anzi, no: rientravo 🙂 ) nella folta schiera di coloro che non avevano mai pensato alle emissioni pre combustione del metano. L’intervento di R. Sorgenti, perciò, è stato (almeno per quel che mi riguarda) estremamente istruttivo: dal confronto si esce sempre arricchiti.
      Ciao, Donato.

  3. donato

    A proposito di delocalizzazione e di riduzione delle emissioni “farlocche” su “Le Scienze” di gennaio è apparsa una news in cui si analizza il caso degli USA. Come si legge nel post, gli USA non hanno mai aderito al protocollo di Kyoto, però, aggiungo io, si sono dati parecchio da fare per limitare le emissioni di CO2 e di altri inquinanti. In particolare essi hanno ridotto di molto le loro emissioni convertendo le centrali a carbone in centrali a gas alimentate con il combustibile ricavato dalla fratturazione degli scisti bituminosi. La cosa curiosa è che, nel contempo, non è diminuita la produzione di carbone. Esso, infatti viene prodotto sempre nelle stesse quantità, però, viene esportato in misura sempre maggiore verso i paesi non soggetti alle limitazioni del trattato di Kyoto (Cina, India, ecc.). In poche parole è stato messo in atto lo stesso meccanismo ipocrita e criminale che caratterizza le industrie inquinanti: si pulisce in patria o localmente e si esporta il lerciume nella regione vicina, nel mare, nei paesi sottosviluppati e via cantando. In altri termini ci stiamo prendendo tutti per i fondelli e ce ne rallegriamo pure (almeno gli ambientalisti ideologizzati, quelli solo ambientalisti senza aggettivi, si limitano a divenire verdi…. di rabbia).
    Ciao, Donato.

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