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Chi l’avrebbe mai detto, è stata tutta colpa delle nubi

Molti di voi ricorderanno l’immagine qui sopra. Nell’agosto scorso ha fatto il giro del mondo. Avrebbe potuto essere intitolata “Groenlandia: prima e dopo la cura”, con l’uomo a recitare il ruolo del Dottor Stranamore. Era l’agosto scorso, nel breve volgere di qualche giorno, la patina superficiale del ghiaccio che ricopre la Groenlandia si era sciolta, evento subito ripreso dai sensori satellitari e trasformato in un battibaleno nell’icona estiva della catastrofe climatica.

 

Su CM ne abbiamo parlato qui, dopo aver dedicato qualche minuto ad una ricerca sulla rete, grazie alla quale abbiamo scoperto che l’evento definito senza precedenti accade circa ogni secolo e mezzo, con l’ultimo episodio risalente al 1889. Ma, comunque, faceva caldo, persino in Groenlandia, per cui sotto col riscaldamento globale che scioglie tutto, anche la tosse ai bambini.

 

Ora esce su Nature uno studio di alcuni ricercatori dell’università del Wisconsin che attribuisce quell’episodio di scioglimento alla formazione di nubi basse ma sottili molto comuni alle latitudini settentrionali. Nuvolosità abbastanza sottile da far passare una parte della radiazione solare e abbastanza bassa da trattenere una parte della radiazione riflessa dalla superficie ghiacciata e quindi far aumentare le temperature quel che serviva perché la patina superficiale si sciogliesse.

 

July 2012 Greenland melt extent enhanced by low-level liquid cloudsBennartz at al. 2013

 

Nubi basse allo stato liquido, nubi generate da complesse interazioni tra il profilo termico verticale, l’umidità presente nella bassa troposfera e la turbolenza indotta dalla variazione del vento con la quota. Tutte cose molto meteo, tutte cose che con il clima non hanno niente a che fare, tutte cose di breve periodo. Verrebbe da dire che il tempo non è il clima. Ma non è tutto. Leggiamo anche che queste formazioni nuvolose sono molto comuni, tanto che occupano il cielo della Groenlandia e dell’Artico per il 30-50% del tempo e che le loro dinamiche di formazione sono largamente sottostimate dai modelli di simulazione climatica, che quindi falliscono potenzialmente la definizione dei feedback della temperatura sulle masse glaciali delle latitudini settentrionali.

 

Naturalmente, il primo che dice che le nubi basse sono chiaro segno del clima che cambia non vincerà una bambolina. Sono finite, l’ultima l’abbiamo data alla magica penna che ha scritto il comunicato stampa dell’università, che inizia così:

 

Il ghiaccio della Groenlandia ha conosciuto uno scioglimento record nel 2012.

Se lo strato di ghiaccio che ricopre la Groenlandia dovesse sciogliersi interamente domani, il livello globale dei mari salirebbe di 24 piedi.

 

Per chi non avesse dimestichezza con l’unità di misura sono sette metri. Peccato che non accadrà, anche perché se le temperature dovessero salire con la velocità del peggiore degli scenari IPCC ci vorrebbero 10.000 anni per farlo accadere. Chi di voi stesse progettando di campare così a lungo è pregato di attrezzarsi con un canotto.

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Published inAttualità

3 Comments

  1. Guido Botteri

    Il solito Dessler sostiene che le nuvole darebbero un feedback positivo di 0,5 Watt per metro quadro a fronte di ogni grado di riscaldamento.
    http://www.nasa.gov/topics/earth/features/amplified-warming.html
    Ora però vorrei che ci spiegasse allora come mai, se le nuvole dessero davvero un feedback positivo (tenendo conto degli opposti contributi di riscaldamento e raffreddamento) come sostiene lui, in questi anni, ad onta di un continuo aumento della CO2, la temperatura media non è aumentata ?
    Meno male che ammette qualche difficoltà:
    “The climate effect from clouds is hard to understand and predict because clouds can change rapidly and are difficult to both measure and model with high accuracy.
    Low altitude clouds composed of water droplets (i.e., not ice) typically reflect solar radiation and cool the atmosphere, while high altitude, icy, cirrus clouds typically trap outgoing infrared radiation and creating additional warming.”
    Sarà, ma io ho l’impressione che questo Dessler…. 🙂 (autocensura)

  2. Teo

    Ma no! Non mi dite?! La tipologia di nube può alterare il bilancio superficiale al punto da far avvenire questo fenomeno? Ma no?! e non è riscaldamento globale?! Ma no dai ?! E che fisica e’ mai questa? Termodinamica di baseee???? Ma no, ma dai?! Ma che strano, ma quando qualcuno lo diceva non lo prendevano per il culo?!….oooppsss….scusate non si scrive la parola ‘prendevano’ perdonate…..comunque, ma no, ma dai, strano stu fatto….

  3. Luigi Mariani

    Bè,
    mi pare che tutto riporti al punto iniziale: vapore acqueo e nubi come componenti essenziali dell’effetto serra terreste (che, lo ricordo, è dato per il 50% dal vapore acqueo, per il 25% dalle nubi, per il 20% dalla CO2 e per il restante 5% dal resto – metano, ozono, ossigeno, ecc.). Il comportamento in atmosfera di vapore acqueo e nubi è ancora per molti versi ignoto e non è garantito che si comportino sempre in modo da offrire un feed-back positivo rispetto al ridotto potenziamento dell’effetto serra prodotto dall’incremento di CO2 (parlo di “ridotto potenziamento” perchè per il passaggio dai livelli pre-industriali di 280 ppmv ai valori di 560 ppmv attesi per il 2050, dovremmo avere +1°C nella media troposfera e +0.5°C al suolo -> tutto ciò applicando Stefan e Boltzmann e presupponendo la conservazione del gradiente pseudo-adiabatico). Ed il fatto che il feed-back positivo da VA e nubi rispetto a CO2 non sia affatto una garanzia ce lo dimostrano i dati globali dal 1950 al 1977 e quelli dal 1998 ad oggi, periodi in cui la CO2 aumenta mentre le temperature globali restano al palo).
    Pertanto mi pare che l’articolo di Nature non faccia altro che riconfermare che le nubi (belle e misteriose) hanno sempre il potere di sorprenderci per cui, aldilà di come uno la veda, abbiamo ancora molto ma molto da studiare prima di pensare di aver capito il sistema climatico…
    Luigi

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