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Dalla semantica alla pratica, il movimento salva-pianeta continua la sua metamorfosi

Che la questione climatica sia diventata più un problema semantico che reale, almeno con riferimento a come viene comunicato, ne abbiamo discusso tante volte. Del resto i segnali erano chiari. Il passaggio dal global warming al climate change avvenuto quando il pianeta ha smesso di scaldarsi e l’ulteriore balzo in avanti dal climate change alla climate disruption quando qualcuno ha fatto notare che il clima è sempre cambiato, la dicono lunga su come la necessità di trovare una comunicazione ad effetto abbia finito per prevalere sull’esigenza di dare dei solidi contorni scientifici al problema. Né funziona il pur sagace tentativo di traspondere un problema altrimenti intangibile nella vita reale collegandolo agli eventi estremi, visto che dalle serie storiche non sembrano emergere segnali chiari per la maggior parte di questi.

Eppure, è cosa nota che la maggior parte delle iniziative di policy atte ad affrontare il tema del contributo antropico alle dinamiche del clima, siano basate su di un solo obbiettivo: impedire che l’aumento della temperatura media superficiale del pianeta superi i 2°C rispetto al periodo pre-industriale. Quando questo obbiettivo ha iniziato a farsi largo nelle riunioni della diplomazia climatica, sono successe due cose. La prima è stata l’aver riscosso un grande successo, del resto si trattava di un messaggio chiaro e teoricamente gestibile sia per la comunicazione che per i decisori. La seconda, molto meno nota, ha riguardato il disagio e l’opposizione di quanti sanno che non esiste un termostato regolabile a piacere, che la relazione tra la concentrazione di gas serra e la temperatura non è lineare ma passa attraverso una serie di processi tutt’altro che definiti scientificamente e, infine, che la temperatura di superficie non è l’integrale del sistema.

Inutile dire che quanti hanno anche solo osato sollevare queste obiezioni siano stati subito tacciati di negazionismo e messi di conseguenza alla porta.

Poi la pausa, lo iato, l’interruzione o come si voglia chiamare, il fatto che la temperatura ha smesso di aumentare da un bel pezzo, hanno iniziato ad avere la meglio. Un bell’esempio di realtà che supera l’immaginazione verrebbe da dire. Sicché, ecco che su Nature compare un editoriale dal titolo emblematico: “Abbandonare l’obbiettivo dei 2°C di riscaldamento“. Proprio così, il pilastro di tutte le policy sembra non reggere più il peso della realtà, ma, siccome il problema persiste (e tutti teniamo famiglia), occorre passare ad altro, possibilmente una serie di metriche più affidabili. Il motivo è semplice, scrivono gli autori dell’editoriale, l’obbiettivo dei 2°C non ha basi scientifiche solide e per di più autorizza i decisori ad avvalersene come se stessero facendo qualcosa quando in realtà sin qui hanno fatto poco o niente.

Una tale posizione, è facile immaginarlo, non poteva che suscitare violente reazioni da parte delle vestali del clima, anche se proveniente da Nature, che notoriamente non è e non sarà mai su posizioni invise al mainstream scientifico, essendone di fatto l’incarnazione. Su tutte, la delegittimazione degli autori dell’editoriale, subito etichettati come non aventi titolo a parlare. Di queste critiche e della relativa contro-risposta degli autori dell’editoriale trovate ampia trattazione e messe di link sul post che Judith Curry ha dedicato all’argomento. Io passerei ad altro, e cioè al fatto che nell’editoriale si porti ad esempio di nuova metrica da prendere in considerazione il contenuto di calore dei mari, fattore certamente più rappresentativo della temperatura di superficie, con le profondità oceaniche che avrebbero accolto una buona parte del calore in eccesso, teoria che occupa una posizione molto alta nella classifica delle spiegazioni per la pausa-iato-ferie del global warming. Anche di questo, è capitato di parlare abbastanza spesso sulle nostre pagine.

Però, tale suggerimento non poteva avere una scelta di tempo peggiore, perché, ancora una volta sul blog della Curry, esce un altro post dedicato a due paper recenti che affrontano il tema della misura del contenuto di calore degli oceani e della stima delle sue variazioni, che comincia così: “Nuova ricerca suggerisce che lo strato superiore degli oceani si sia scaldato più di quanto si credeva mentre gli strati più profondi si sono raffreddati piuttosto che scaldati” – e finisce così: “Il punto è che l’incertezza nel contenuto di calore degli oceani è molto ampia e non ci sono evidenze particolarmente convincenti che il ‘calore mancante’ si stia nascondendo negli oceani”.

Ora, nell’editoriale di Nature le nuove metriche dovrebbero essere viste come ‘segni vitali’ del pianeta, al pari di quanto accade per esempio con la valutazione dello stato di salute di una persona. Sarà, ma non vorrei che l’abbandono dell’obbiettivo dei 2°C, che pure non avrebbe mai dovuto essere stabilito, per passare ad altri più evidenti segni di cambiamento (che non ci sono), fosse l’ennesimo tentativo di mantenere in vita un tema altrimenti moribondo, quello della catastrofe climatica.

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Published inAttualità

Un commento

  1. donato

    Leggendo l’articolo di Nature non ho avuto la stessa impressione di G. Guidi.
    I due autori sostengono che la causa del riscaldamento globale è antropica, ma che il discorso dei due gradi centigradi a fine secolo ha poco impatto sui decisori politici e sui cittadini che lo vedono come qualcosa lontano da venire o che, al limite, non verrà mai. Meglio cambiare registro: poniamo un limite alla CO2 in quanto la sua concentrazione è facilmente misurabile, il trend di crescita non presenta pause e, quindi, non presta il fianco a problemi di valutazione (quale scettico potrà mai mettere in dubbio che la concentrazione di CO2 sale?)
    Ho la netta impressione che si voglia solo spostare il bersaglio: invece della temperatura globale che fa le bizze, passiamo alla CO2 e non se ne parli più.
    Anche perché la temperatura globale è troppo lontana dai comuni mortali, mi sembra che dicano gli autori, meglio far riferimento a quella regionale che tutti (decisori e cittadini) possono verificare quasi di persona e porre un limite oggettivo: allerta e contromisure se le anomalie (locali) superano un certo numero di deviazioni standard (da stabilire). Non vedo nessuna retromarcia, solo un cambio di linea per raggiungere lo stesso obbiettivo.
    Voglio fare mio il commento di uno dei lettori di Climate Etc.: se A causa B (per definizione), è inutile che mi preoccupo di B, basta che tenga sotto controllo A ed ho risolto il problema 🙂 .
    In altri termini assunto che CO2 determina la temperatura e più CO2 -> più caldo, lasciamo perdere il termometro e sotto con lo spettrometro! 🙂
    Ciao, Donato.

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