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Psicoclima

A volte mi chiedo se chi scrive certe cose ci fa o ci è. Quasi sempre opto per la prima opzione, perché mi rifiuto di credere che chi ha una cultura accademica e la impiega in una carriera accademica, possa essere…beh, fate voi.

E’ uscito un nuovo paper della categoria la sociologia del clima che cambia: “Seepage: Climate change denial and its effect on the scientific community”, di Sthephen Lewandosky e Naomi Oreskes, già firmatari di almeno altre due incursioni sugli intrecci ai neuroni di chi manifesta anche solo un generico scetticismo rispetto al disastro climatico imminente. Leggiamo dallo stesso autore che Environmental Research Letters avrebbe dovuto pubblicarlo già il 7 maggio, ma ancora non è stato messo il DOI. Comunque, suppongo che tra comunicato stampa e approfondimento dell’autore stesso riuscirete comunque a farvi un’idea.

Io la mia l’ho espressa nelle prime tre righe di questo post, ma vi devo comunque una sommaria descrizione del contenuto.

Il filone direi sia lo stesso della recente esortazione di Nature alla resistenza, ad un certo celodurismo scientifico, se mi perdonate l’ormai desueto accostamento. Infatti, stanchi di cercare nei meandri delle distorte menti scettiche le ragioni del mancato allineamento, i due si concentrano sugli effetti che l’ingiustificato (secondo loro ) scetticismo, può avere sulle deboli personalità degli scienziati più allarmisti. Uomini e donne inoltre già messi alla prova dalla grande pressione politica cui sono sottoposti da quando hanno cominciato a suggerire come andrebbe condotto il mondo.

Tre gli aspetti principali di questo psicodramma climatico:

  • La minaccia dello stereotipo, ovvero quando si ricorda a qualcuno di appartenere ad un gruppo per il quale esiste uno stereotipo, nella fattispecie quello degli allarmisti. Perciò, se additati come tali, è facile che gli scienziati tendano a cercare di evitare di esserlo. Pare sia stato dimostrato che essi tendano ad evitare di mettere in risalto i pericoli allo scopo di non esse visti come allarmisti.
  • L’ignoranza pluralistica, un fenomeno che si innesca quando un’opinione minoritaria riceve grande risalto mediatico, con conseguente convinzione per la maggioranza che le loro opinioni siano marginalizzate. Per cui, un discorso pubblico che asserisca che l’IPCC ha esagerato la minaccia dei cambiamenti climatici potrebbe far sì che gli scienziati in disaccordo con questa affermazione pensino di essere in minoranza e abbiano timore di parlare in pubblico.
  • L’effetto terza persona. E’ noto che una comunicazione persuasiva esercita effetti più significativi sugli altri che su se stessi. Tuttavia, nella realtà, la gente tende ad essere colpita da messaggi ben orchestrati più di quanto pensi. Ciò significa che la comunità scientifica potrebbe essere suscettibile agli argomenti contro il cambiamento climatico anche se pensa che siano sbagliati.

Ora, non ho alcuna esperienza di questo genere di cose. Mi limiterei a sottolineare che:

  • Uno scienziato non dovrebbe appartenere ad alcuno stereotipo, il pensiero di gruppo è l’antitesi della scienza e l’anticamera dell’ideologia. Dal momento che ci vengono comunicati allarmi ingiustificati praticamente ogni giorno forse se ne tirano fuori qualcuno di meno non è grave.
  • Purtroppo – e sottolineo purtroppo – le opinioni minoritarie non ricevono mai grande risalto mediatico, semmai accade il contrario. Se così fosse stato, forse anche l’IPCC si sarebbe risparmiato le figure da cioccolatai fatte ad esempio con la faccenda dei ghiacci dell’Himalaya. Al riguardo, qualche remora a parlare in pubblico più che far danno avrebbe giovato.
  • Un messaggio può essere persuasivo quanto si vuole, ma una persona informata dei fatti dovrebbe finire per crederci solo se quel messaggio ha fondamento. Se questo accade tanto meglio.

E, infine, tutti e tre questi aspetti non tengono conto di una piccola semplicissima cosa: nella scienza esiste il dubbio. Evidentemente coloro a cui Lewandosky e Oreskes si rivolgono non devono averne per definizione. Ho definitivamente deciso, non ci sono, ci fanno.

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Published inAttualità

5 Comments

  1. Guido Botteri

    Di Lewandowsky preferisco decisamente quello che gioca nel Bayern Monaco.
    Ci hanno bombardato con il consenso pressoché totale, ed ora dicono che il 97% sarebbe sommerso e avrebbe paura di parlare perché la gente crederebbe al 3%.
    “Qualquadra non mi cosa”, avrebbe detto qualcuno. Ma se preferite, dite pure che “qualcosa non quadra”.
    Ci stanno raccontando cose poco credibili e imbarazzanti (o almeno credo che uno che dice queste cose dovrebbe provare molto, ma molto imbarazzo).
    La scienza non è questione di schieramenti, non siamo allo stadio (a vedere l’altro Lewandowsky, quello bravo) e non mi pare affatto che finora abbiano evitato di mettere in risalto i pericoli. Sono anni che non leggo altro, profezie Maya comprese.
    Non vedo un 97% di scienziati timidi che non avrebbero il coraggio di dire la verità, perché “additati come allarmisti”.
    Secondo me.

    • donato

      Giusto!
      Ciao, Donato.

  2. Fabio Vomiero

    Interessante interpretazione psicologica di alcuni aspetti che molto spesso si possono effettivamente riscontrare nelle dinamiche sociologiche che sorreggono un certo tipo di dibattito. Tuttavia, quando si parla di scienza, o meglio di metodo scientifico, dal mio punto di vista, ci stiamo già addentrando in un altro livello di ragionamento, una dimensione particolare del pensiero umano, nata proprio per cercare di oltrepassare i limiti logici e concettuali comuni e diffusi invece nelle altre dinamiche sociologiche, tipo bias, stereotipo, opinione ecc. Quindi penso, che francamente, uno scienziato “vero” sostanzialmente non si faccia molto influenzare da questo tipo di prospettiva. Ora, a parte il dibattito sulla questione dei cambiamenti climatici, che per certi versi sta seguendo dinamiche a mio avviso abbastanza peculiari e atipiche e che andrebbero approfondite, uno dei problemi fondamentali in generale della nostra società e che rimane tuttora irrisolto, è la scarsa comprensione di che cosa sia effettivamente la scienza e di come funzioni, purtroppo. Io credo, che se le persone, in generale, fossero abituate a usare la logica e a ricorrere sempre alla prova dei fatti per verificare i propri principi e quelli che gli altri vorrebbero imporre loro, per esempio, saremmo già sulla buona strada. Quindi sostanzialmente condivido le obiezioni di Guidi, però io, dopo quanto detto, se riferito agli autori del lavoro, risponderei “ci sono”, in quanto una formazione accademica in psicologia, a mio avviso, a differenza di una formazione prettamente scientifica, potrebbe anche mancare di alcuni passaggi cognitivi e culturali fondamentali. Saluto sempre tutti cordialmente.

    • Fabio,
      così interpreta (e io quoto) la questione Judith Curry: New paper by Oreskes and Lewandowsky: Climatologists investigate pause because deniers seeped them, not because global warming has inexplicably paused. In other words, the science is settled, so scientists should stop doing science in case it becomes unsettled
      gg

  3. Ci fanno. Non solo perché niente come l’essere allarmisti rende popolari autori di libri, ospiti di TV, eccetera, ma perché come al solito l’analisi è evidentemente parziale: la minaccia dello stereotipo la subiscono anche gli scettici, di qualsiasi gradazione siano, nel momento in cui vengono accusati di prendere soldi dalle multinazionali, eccetera. Perché la personalità degli allarmisti dovrebbe essere più debole di quella degli scettici? Esisteranno personalità fragili e deboli da entrambe le parti, almeno finché non mi fate uno studio che dimostra il contrario. Loro dicono “pare sia stato dimostrato”: dove? A giudicare dagli allarmisti famosi, tutto si può dire tranne che abbiano personalità deboli. Gli stessi autori sono pure d’accordo sul fatto che gli “allarmisti” siano la maggioranza degli scienziati? Ma l’essere una maggioranza non cozza con l’idea di auto-censura?

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