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L’amplificazione artica, questa sconosciuta

Qualche giorno fa, commentando un articolo dell’amico F. Zavatti, riflettevo ad alta voce sulla scarsa conoscenza dei fondamenti fisici del clima terrestre. Appena dopo aver inviato il commento, sono incappato in un recentissimo articolo  pubblicato su Science Advance:

Rapid Atlantification along the Fram Strait at the beginning of the 20th century

L’articolo è firmato da una quindicina di ricercatori, in gran parte italiani e, da ora in avanti, lo indicherò con Tesi et al., 2021 (T. Tesi è la prima firma dell’articolo).

L’amplificazione artica, ovvero la maggior velocità con cui si riscalda la regione artica rispetto al resto del mondo, è considerata da molti la pistola fumante del cambiamento climatico in corso ed è attribuita essenzialmente alle attività umane. Secondo altri si tratta, invece, di un rimbalzo conseguente alla fine della LIA (Little Ice Age o Piccola Era Glaciale) e, quindi, avente cause prettamente naturali. Secondo altri è, infine, il frutto della carenza di stazioni di misura nell’area e, quindi, rappresenta un artefatto conseguente alle pesanti interpolazioni che vengono effettuate, per “coprire” aree del tutto prive di dati strumentali.

Secondo me è frutto di tutte queste cose messe insieme. Esistono, cioè, cause naturali, antropiche ed errori sistematici che hanno creato il problema e noi non siamo in grado di quantificare l’incidenza delle tre cause indicate, nel determinare il fenomeno. Altro aspetto importante della questione riguarda l’incapacità dei modelli climatici di rappresentare il fenomeno.

I dati strumentali a disposizione (misure satellitari, misure a terra ed in mare) risalgono agli anni ’30 del secolo scorso e da allora il trend delle temperature regionali (marine, terrestri ed atmosferiche) è costantemente in salita. Tesi et al., 2021 si è posto il problema di ricostruire il trend del processo di “atlantificazione” del Mar Glaciale Artico (Oceano Artico secondo la tradizione anglosassone) negli anni che precedono la rivoluzione industriale.

Cerchiamo di capire, ora, il concetto di atlantificazione. Con tale termine si intende il processo attraverso il quale le condizioni del Mar Glaciale Artico, evolvono verso quelle tipiche dell’Oceano Atantico.

L’Artico è un mare caratterizzato da sue specifiche peculiarità: è più freddo e meno salato del resto dell’Atlantico e ciò a causa di particolari condizioni idrografiche che tendono ad isolarlo dal resto dell’Oceano Atlantico. Nel corso del tempo le condizioni del Mar Glaciale Artico sono cambiate e, in particolare, esso si sta scaldando e la sua salinità sta aumentando, in altre parole sta assumendo caratteristiche che lo portano a somigliare sempre di più all’Oceano Atlantico. Secondo la vulgata corrente, il processo di atlantificazione dell’Artico è iniziato durante il secolo scorso e, precisamente, intorno alla sua metà.

Secondo alcuni studi che abbiamo avuto modo di commentare in modo esteso su queste pagine qualche anno fa, applicando l’analisi di Granger ai dati delle temperature, condizionate dalla concentrazione atmosferica del diossido di carbonio e della radiazione solare, si scopre che, fino alla metà del 20° secolo, è la variazione della radiazione solare a determinare le temperature, mentre a partire dalla metà del secolo le cose cambiano e, quindi, le temperature sono determinate dalla concentrazione atmosferica di anidride carbonica. A questo punto possiamo fare tutte le obiezioni del caso: che correlazione non è causazione, che la causalità di Granger non è causa fisica, ecc., ecc..

Resta, però, questo cambiamento nel comportamento della variabile temperatura rispetto alle altre due variabili che deve far riflettere.

Un semplice sguardo ai grafici delle temperature globali o regionali (come quello elaborato da F. Zavatti e L. Mariani e visibile nella pagina principale di CM), consente di renderci conto che è proprio in quel periodo che si è avuta una variazione nella pendenza della curva delle temperature in funzione del tempo e, quindi, è a partire da quel periodo che si inizia a parlare di riscaldamento globale o, in modo ancor più generale, di Antropocene.

Ed è proprio a partire da quel periodo che il livello di concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera comincia ad assumere valori preoccupanti, in quanto supera quelli che si considerano valori normali.

Spostare più indietro i segnali di un riscaldamento, anche se regionale, dell’area artica, renderebbe molto più deboli le argomentazioni di chi attribuisce esclusivamente all’azione dell’uomo il fenomeno  del riscaldamento in atto. Ebbene, ciò è quanto farebbe supporre Tesi et al., 2021. Secondo l’articolo, infatti, è dagli inizi del secolo scorso che è iniziata l’atlantificazione e, quindi, il riscaldamento del Mar Glaciale Artico e gli autori danno anche una spiegazione del fenomeno: è una conseguenza della fine della LIA.

Cercherò, ora, di spiegare brevemente il modo in cui è stato condotto lo studio e le metodologie utilizzate dai ricercatori. Tesi e colleghi hanno condotto una ricerca su diversi dati di prossimità, per poter individuare le condizioni che caratterizzavano il Mar Glaciale Artico nel corso degli ultimi ottocento anni e, precisamente, a partire dalla fine del 1200. L’area indagata è quella dello stretto di Farm, un braccio di mare compreso tra la maggiore delle isole Svalbard e la Groenlandia. Tale stretto si trova in un punto particolare del Mar Glaciale Artico: in esso confluisce una corrente calda che si dirama dalla Corrente del Golfo, detta West Spitsbergen Current (WSC) e due correnti fredde (la Corrente della Groenlandia Orientale e la Corrente dello Spitsebergen Orientale). Esso è collocato, infine, poco a nord del vortice sub polare atlantico.  E’ proprio la corrente calda dello Spitsbergen occidentale a rendere lo stretto di Fram libero dai ghiacci per gran parte dell’anno. In quest’area, inoltre, il processo di sedimentazione è caratterizzato da una velocità di deposizione dei sedimenti relativamente alta e, quindi, è possibile individuare una precisa stratigrafia con risoluzione quinquennale o decennale. La datazione precisa è stata possibile grazie all’individuazione di una sostanza organica (retene) legata alla produzione di carbone in una miniera locale aperta nel 1916.

Tesi et al., 2021 ha studiato una carota estratta dai sedimenti depositatisi a poca distanza dalla costa occidentale dell’isola di Spitsbergen, sul lato orientale dello stretto. In tale carota sono relativamente  abbondanti alcuni elementi che rappresentano dati di prossimità di diversi parametri marini, idonei a determinare il grado di atlantificazione di questo particolare settore del Mar Glaciale Artico.

Lo studio ha campionato la presenza di diverse componenti organiche dei sedimenti: il tasso di lipidi provenienti da un particolare microrganismo  (Thaumarchaeota), il tasso di un alchenone derivante da un’alga unicellulare (Emiliania huxleyi)  ed alcuni foraminiferi bentonici (Adercotryma glomeratum e Nonionellina labradorica).

I lipidi di  Thaumarchaeota possono essere considerati una specie di termometro biologico delle acque polari e sub polari. La quantità di lipidi è direttamente collegata all’abbondanza dei microrganismi e questa dipende, a sua volta, dalle condizioni marine, in particolare dalla quantità di luce e dalla temperatura della massa liquida che è una conseguenza del grado di rimescolamento delle acque. Quando le acque sono rimescolate, infatti, cala la quantità di lipidi contenuta nei campioni, per cui abbondanza di lipidi è sinonimo di acque poco rimescolate e ciò corrisponde ai periodi in cui il ghiaccio copre la superficie del mare, ovvero i periodi invernali. La concentrazione di lipidi di  Thaumarchaeota è piuttosto abbondante, fino alla fine del 1800, poi tende a diminuire, segno che la copertura glaciale è diminuita.

Allo scopo di  confermare queste ipotesi, gli autori hanno studiato un alchenone proveniente dall’alga Emiliania huxleyi che è sensibile alle temperature superficiali del mare nel periodo primaverile/estivo. Confrontando le temperature ricostruite sulla base dei lipidi originati da Thaumarchaeota, con quelle ottenute a partire dall’alchenone, si vede che le prime sono più basse delle seconde e ciò conferma che Thaumarchaeota ha misurato le temperature invernali.

Un’ulteriore conferma che la copertura dei ghiacci influenza la presenza di Thaumarchaeota, è stata fornita dal confronto tra la copertura dei ghiacci desunta da resoconti di navi mercantili e le temperature desunte dai lipidi: in corrispondenza di una maggiore copertura glaciale si registra un aumento della concentrazione di lipidi e, quindi, a temperature più alte della massa d’acqua, in conseguenza di minori perdite di calore a causa dell’isolamento termico garantito dal ghiaccio.

Altro aspetto interessante di tutta la vicenda è che mentre le temperature desunte dai lipidi sono più o meno costanti nel corso del tempo fino alla fine della LIA, quelle desunte dall’alchenone sono costantemente in diminuzione per tutta la durata della LIA. Ciò porterebbe a concludere che durante la LIA i ghiacci marini erano più estesi e permanevano per più tempo: la cosa non sorprende in un periodo freddo come quello che stiamo considerando.

Alla fine della Piccola Era Glaciale tutto diventa molto più instabile. Tanto le temperature dedotte dai lipidi che quelle dedotte dall’alchenone presentano forti oscillazioni che non erano presenti nei secoli precedenti in forma così marcata.

Ed a questo punto ho fatto un salto sulla sedia, ho dovuto leggere diverse volte il passo e guardare attentamente i dati: i dati di prossimità NON evidenziano alcun riscaldamento delle acque dell’Oceano Artico!

Il riscaldamento si nota, invece, nelle temperature atmosferiche ricostruite da una carota di ghiaccio proveniente dalle isole Svalbard. Che cosa è successo?

Tesi et al., 2021 avanzano una spiegazione che sembra plausibile, ma mi lascia un po’ scettico: l’arretramento del fronte glaciale determina un raffreddamento delle acque superficiali a causa dell’acqua proveniente dalla fusione dei ghiacci marini, più fredda di quella del mare, creando le condizioni per un forte rimescolamento delle acque lungo la colonna stratigrafica e determinando anomalie nella fioritura di alghe che si ripercuotono nelle oscillazioni delle percentuali di lipidi ed alchenoni che si rinvengono nei sedimenti. Detto in altre parole, potremmo trovarci di fronte ad un’incongruenza dovuta alle variazioni delle condizioni ambientali conseguenti, a loro volta, alle mutate condizioni idrografiche verificatesi alla fine della LIA.

Potrebbe essere, ma chi ci garantisce che nel passato le cose siano andate diversamente? Nel passato tanto le ricostruzioni con gli alchenoni che quelle desunte dalla carota di ghiaccio concordano, perché cominciano a divergere proprio alla fine della LIA?

Detto fuori dai denti il tarlo del dubbio si è insinuato nel mio cervello, per cui ho continuato a leggere l’articolo, ma con uno spirito diverso: per prima cosa ho cambiato il titolo di questo post.

E veniamo, ora, ai foraminiferi.  A. glomeratum è un micro crostaceo la cui abbondanza rappresenta un dato di prossimità della salinità del mare. Nella carota sedimentaria l’abbondanza del crostaceo si mantiene grossomodo costante per centinaia d’anni, poi all’inizio del 20° secolo cresce in modo repentino, segno che è aumentata la salinità dell’acqua, ovvero che è iniziato il processo di atlantizzazione del Mar Glaciale Artico. Per quel che riguarda le temperature, Tesi et al., 2021 ha fatto ricorso al foraminifero N. labradorica e, in particolare all’isotopo 18 dell’ossigeno presente nel suo guscio: esso, come sappiamo, è un dato di prossimità della temperatura. Sulla scorta di tale indagine è risultato un aumento della temperatura del mare: un’ulteriore conferma dell’atlantificazione. Quello che si desume dall’analisi dei dati di prossimità desunti dai foraminiferi, differisce, però, da quanto risulta dall’esame dei lipidi e dell’alchenone, per cui i dubbi circa i risultati conseguiti restano.

A questo punto, assodato, secondo Tesi e collaboratori che l’atlantificazione dell’Artico è iniziata con la fine della LIA, resta da stabilirne le cause. Secondo i ricercatori esse vanno individuate nell’indebolimento dell’AMOC e del Vortice Sub Polare. In particolare l’indebolimento del Vortice Sub Polare avrebbe consentito alle acque calde, veicolate dalla Corrente del Golfo, di penetrare più in profondità nell’Artico, accelerando la fusione dei ghiacci polari marini.  Nell’articolo non viene chiarito il motivo per cui si sarebbe verificato un rallentamento di AMOC: gli autori si limitano a rinviare a tre articoli in cui ciò sarebbe spiegato. Tra questi l’articolo di S. Rahmstorf et al., 2015 che pochi giorni fa ha  commentato l’amico F. Zavatti, evidenziando tutta una serie di dubbi e perplessità che non ho avuto difficoltà a condividere.

Alla fine di tutto, come è consueto nel mondo della climatologia, Tesi e colleghi, hanno cercato di validare con un paio di modelli climatici i risultati del loro studio, ma i modelli hanno fatto fiasco: dell’atlantificazione precoce dell’Artico, non vi è traccia nei loro output. I ricercatori hanno concluso che, probabilmente, i modelli non tengono conto in modo opportuno della circolazione atlantica e io mi sento di condividere pienamente questa loro conclusione. In altre parole non siamo ancora in grado di capire quali sono le cause della famigerata amplificazione artica che, pertanto, continua a restare una sconosciuta.  Nel frattempo centinaia di ricercatori si ostinano a modellare il sistema climatico terrestre, tracciando scenari sempre pià apocalittici: ci restano dieci anni per fermare il riscaldamento globale, poi sarà la catastrofe, ce lo dicono gli scienziati. Questo è il ritornello che per giorni e giorni si è sentito a Glasgow e che continua a sentirsi a destra ed a manca. Eppure ogni tanto si scopre che questo o quel pezzo del puzzle climatico, ci sfugge. Eppure, vittime della sindrome della mosca cocchiera,  siamo talmente presuntuosi da reputarci in grado di modellare matematicamente ciò che non conosciamo.

Per chiudere il discorso qualche considerazione personale. Tesi et al., 2021 descrive una ricerca piuttosto complessa, in cui gli scienziati hanno cercato di comprendere con l’uso di diversi dati di prossimità, le complesse dinamiche del clima artico. Hanno individuato diverse incongruenze e con grandissima onestà intellettuale non ne hanno nascosta nessuna: non capita spesso negli articoli scientifici che si occupano di climatologia.  Hanno cercato di conciliare le loro conclusioni con delle ipotesi che non mi sento di condividere fino in fondo, ma che non sono peregrine. Hanno riconosciuto, infine, che non siamo ancora in grado di comprendere appieno l’entità del contributo antropico e naturale alle dinamiche climatiche (relativamente all’Artico, nel nostro caso) e, quindi, ci hanno messo in guardia sulle conclusioni erronee cui potremmo giungere, se non consideriamo tutti questi limiti. In complesso un buon lavoro che mi ha conciliato con una parte della ricerca scientifica in ambito climatologico.

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Published inAttualitàClimatologia

19 Comments

  1. marco56

    Scusate il “fuori tema”…….ma……

    Il sito del nsidc.org, – alla pagina : https://nsidc.org/arcticseaicenews/ del 2 dicembre 2021 – indica un chiaro esempio di “amplificazione” della riduzione dei ghiacci dell’Artide.

    Infatti, riporto fedelmente :

    The November 2021 monthly average extent was 9.77 million square kilometers (3.77 million square miles), which ranked tenth lowest in the satellite record. The 2021 extent was 930,000 million square kilometers (359,000 million square miles) below the 1981 to 2010 long-term average. Extent was higher than average in the Bering Sea, but is extremely low in Hudson Bay.

    La frase che mi colpisce particolarmente è :

    ……. The 2021 extent was 930,000 million square kilometers (359,000 million square miles) below the 1981 to 2010 long-term average………..

    Ora il mio inglese non è propriamente dei migliori ma, se non erro, la frase all’incirca vuol dire :

    L’estensione 2021 era di 930.000 milioni di chilometri quadrati (359.000 milioni di miglia quadrate) al di sotto della media a lungo termine dal 1981 al 2010.

    Quindi, secondo il nsidc, i ghiacci Artici, rispetto alla media a lungo termine dal 1981 al 2010, risultano diminuiti di ben 930.000 (novecentotrentamila) MILIONI di chilometri quadrati.

    Poichè mi risulterebbe che l’intera superficie del globo terracqueo sia intorno ai 510 milioni di chilometri quadrati ………… trovo la riduzione dei ghiacciai artici rispetto alla media di lungo periodo 1981-2010, veramente eccezionale (anzi come direbbe Diego Abatantuono ….. Eccezzzzionunale veramente…).

    Insomma aveva ragione Michael Moore i ghiacci Artici sono evidentemente scomparsi …… in quanto risultano (?) diminuiti di una superficie pari a circa 1800 volte l’intera superficie terrestre (insomma una sorta di “buco nero”).

    Anche se ipotizzassimo una “incomprensione” con il separatore delle migliaia utilizzato negli USA (…..la virgola…..) e si dovesse intendere “solo” 930 milioni di chilometri quadrati avremmo sempre un riduzione dei ghiacci Artici pari a “solo” 1,8 volte dell’intera superficie terrestre.

    Per completezza di informazione allego uno “screen shot” della pagina citata.

    Spero che qualcuno di voi mi corregga e mi dica che non ho capito nulla perchè, se invece ho capito bene, non mi sembrerebbe accettabile che un sito che si fregia del logo della NASA possa scrivere le stupidaggini che ho capito io, perchè poi qualcuno le cita pure.

    Cordialità

    Immagine allegata

    • maurizio rovati

      Un refuso… Penso che sia di troppo la parola “million”, togliendola infatti,
      “930,000 million square kilometers below…” diventa un più normale “930,000 square kilometers below…”

  2. ALESSANDRO MUZII

    Continua a sfuggirmi come l’aumento di CO2, gas più pesante di ossigeno, azoto, e ozono, possa produrre stratificazioni in alta quota tali da influire sull’effetto serra.

    • Alessandro,
      la tua domanda è breve, ma la risposta è lunghissima.
      Non credo che possa essere condensata in un commento, per cui mi limiterò a dei cenni che, ovviamente, devono essere approfonditi.
      Innanzitutto non è la sola CO2 che determina “l’effetto serra”: la parte del leone la fa il vapore acqueo, ma contribuiscono in modo rilevante anche il metano, l’ozono, ecc..
      Tutte queste molecole sono distribuite nell’atmosfera o, per essere più precisi, in quella zona dell’atmosfera compresa tra il TOA (Top Of Atmosphere) e la superficie terrestre.
      Già sulla posizione del TOA ci sono varie interpretazioni, ma sorvoliamo.
      Ognuna di queste molecole occupa la posizione che il suo stato fisico le consente e che è condizionato dai movimenti delle masse atmosferiche, determinati dai moti che la caratterizzano (venti, correnti ascensionali e via cantando). Diciamo che la CO2 tenderebbe a stare in basso, ma il rimescolamento atmosferico è notevole.
      Ciò interessa, però, fino ad un certo punto, in quanto ciò che conta è il comportamento globale del sistema.
      .
      La radiazione infrarossa emessa dal Sole, raggiunge l’atmosfera terrestre e, qui, una parte viene riflessa ed un’altra attraversa l’atmosfera stessa. La radiazione solare nell’atmosfera interagisce in parte con le molecole che la costituiscono e per la restante parte, raggiunge la superficie terrestre, riscaldandola. La superficie terrestre (terraferma e mari) la restituisce sotto forma di radiazione infrarossa che ha una lunghezza d’onda tale da farla interagire in modo particolare con le molecole dei cosiddetti gas serra, tra cui H2O e CO2.
      Queste molecole assorbono la radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre e dalle altre molecole dell’atmosfera e ciò determina una modifica dello stato energetico degli elettroni degli atomi che le costituiscono. Tali elettroni tendono ad acquistare energia, per cui passano a livelli energetici più alti. Queste configurazioni sono, però, instabili, per cui gli elettroni spontaneamente si riportano sui livelli energetici che sono loro congeniali ed emettono radiazione infrarossa in tutte le direzioni, tra cui quella diretta verso la superficie .
      .
      Questa radiazione emessa dalle molecole di CO2, H2O e via cantando, determina lo squilibrio radiativo al top dell’atmosfera e, quindi, l’aumento delle temperature globali.
      E’ a causa di questo fenomeno che la temperatura terrestre è tale, da consentire l’esistenza della vita. Questo è un fatto.

      Come si vede, in tutto ciò conta poco la posizione delle molecole di CO2 nell’atmosfera, conta il loro numero. Il problema che mi rende scettico rispetto alle cause del riscaldamento globale, non è la fisica alla base del sistema che io non metto in dubbio, ma l’impossibilità di quantificare in modo accettabile le numerosissime variabili del sistema climatico. E’ un’impresa che supera il limite delle attuali possibilità umane, secondo me, e la vicenda documentata da Tesi e collaboratori, ne è un esempio eclatante. I dati non riescono ad essere simulati dai modelli matematici che, invece, sono stati sintonizzati su di un sistema che attribuisce alla sola CO2 la responsabilità del cambiamento climatico. L’incapacità dei modelli climatici a simulare gli scenari climatici delineati dai dati di prossimità, ha, secondo me, un unico significato: il sistema non dipende dalla sola CO2, ma esistono altre variabili che lo condizionano e che ancora non sono state quantificate in modo accettabile.
      Analoghe considerazioni possono essere svolte circa il livello del mare, la sensibilità climatica all’equilibrio e quella transitoria. Qui su CM esistono migliaia di post e decine di migliaia di commenti, in cui questi temi sono stati trattati, ecco perché ho premesso che una discussione esaustiva non era possibile. E sono anche convinto che nessuno oggi sia in grado di spiegare il funzionamento del sistema climatico terrestre. Eppure si legifera come se tutto fosse chiaro e la conoscenza del sistema climatico, ormai, acquisita. Qualcuno ne è convinto, io no e non ho ancora trovato nessuno che sia stato in grado di convincermi.
      Ciao, Donato.

  3. Alberto

    Buongiorno.. bellissimo articolo.. nonkè molto interessante come sempre.. volevo però sapere.. se possibile.. se verrà fatto l’outlook inverno 21/22 dal famoso signor Colarieti Tosti.. grazie sin d’ora.. Alberto (VR).

  4. rocco

    a me sembra un po’ poco una sola carota estratta da un ramo laterale della corrente per stabilre il destino dell’intera corrente.
    Magari, è solo un effetto locale, specifico dello stretto di Farm.
    Ma se vi è un rallentamento, vuol forse dire che trasporta meno calore?
    Se è così, vi sarà più ghiaccio in quella zona.
    Ma forse rallentamento è inteso come portata e, forse, ciò può dipendere dalla diversa salinità causata dallo scioglimento (che in gran parte è estivo, mentre in inverno vi è sempre accumulo.
    Diciamo che rimangono valide tutte le ipotesi, segno di una scarsa comprensione del funzionamento, ma, proprio per questo, nessuna ipotesi può essere decretata come l’unica.

    • donato b.

      Rocco,
      concordo con te circa il fatto che un’unica carota è un po’ poco, per desumere tutto quanto è scritto nell’articolo di Tesi e collaboratori, ma questo è lo stato dell’arte; anche in altri articoli, da una carota si desume il tutto.
      Per quel che riguarda il rallentamento della Corrente del Golfo, credo che con il termine rallentamento ci si riferisca tanto al flusso idrico che a quello termico che, trattandosi di un liquido, dovrebbero essere intimamente connessi.
      Ciao, Donato.

  5. Andrea Brescianini

    Buongiorno
    “Eppure, vittime della sindrome della mosca cocchiera, siamo talmente presuntuosi da reputarci in grado di modellare matematicamente ciò che non conosciamo.”
    Il punto secondo me è proprio questo!! Siamo così presuntuosi e arroganti da credere di sapere e di poter avere tutto sotto il nostro controllo. Ma non è così!!
    Lo ripeto tante volte: la terra è restata miliardi di anni senza di noi, ha visto cose che per noi sono fantascienza, perché dovremmo sentirci così onnipotenti? Boh! Io non ne vedo le ragioni!
    Dovremmo studiare, capire e soprattutto rispettare il nostro pianeta, non sentirci onnipotenti!
    È solo il punto di vista di una persona che per prima ammette di non sapere!
    IL VERO SAPERE È SAPERE DI NON SAPERE.
    Un saluto

    • donato b.

      Concordo.
      Ciao, Donato.

  6. Ale69

    Interessantissimo!! I dati di prossimità, come ulteriore riprova che per arrivare a delle conclusioni molto plausibili e per nulla, aggiungerei, di poco conto, anzi.. , spesso è necessario partire da lontano. Io, personalmente, non ho mai sentito parlare di dati di prossimità da parte di personaggi, oramai noti, spesso invitati nei rotocalchi tv, che ci raccontano la verità, la loro! Ma come!? gli autori di questo articoli, quasi mai tralasciati dalla propaganda univoca sulle cause climatiche di natura antropica, loro stessi dicevo, propongono cautela nell’assumere conclusioni affrettate riguardo, in questo caso, l’amplificazione artica, “acque calde al polo nord”, ovvero, uno dei principali cavalli di battaglia dei climacatastrofisti, che ricordo anche io, come ricorda nel post il Prof. Barone, tra 10 anni circa, per loro, l’artico sarà grosso modo privo di ghiacci. Poi questi poveri organismi sottomarini, che colpe mai avranno, se non quella di esistere e ricordarci che esistono anche loro, e possono dare un contributo fondamentale alla ricerca. La ricerca! quella vera!! Quella che si addentra nei meandri dell’improbabile. Serve coraggio, passione e soprattutto la consapevolezza di mettersi sempre in dubbio. La verità, soprattutto in questo campo, la climatologia ( complessissima da comprendere ) non può essere solo una , come ci raccontano. Ottimo pezzo. A.

    • donato b.

      Ringrazio Ale69 per le lusinghiere considerazioni. Per il resto condivido gran parte di quanto egli scrive a proposito della ricerca e delle polemiche che caratterizzano le “apparizioni” televisive di molti ricercatori. Nel caso dell’articolo di Tesi e colleghi però non ravviso la visione dogmatica di molti imbonitori televisivi e non solo: riportano tanto i dati a favore che quelli a sfavore e non tacciono circa l’incapacità dei modelli di generare output coerenti con i dati sperimentali che loro hanno individuato.
      Ciao, Donato.

  7. LucaRocca

    Buongiorno ,Ii foraminiferi sono protozoi e non crostacei e l’ A. Glomeratus già citato in molti articoli sul sito mi sembra fosse un corallo. Il che non è influente sul senso dell’ articolo ma la maledetta abitudine di verificare le fonti mi porta ad essere pignolo in modo antipatico. Per il resto dell’ articolo poso solo ringraziarla per la chiarezza con cui completa l’articolo del dott. Zavatti che mi aveva fatto sorgere grandi dubbi sulle relazioni fra correnti oceaniche e riscaldamento.

    • donato b.

      Luca,
      grazie per la precisazione. Effettivamente sono stato infelice nel definire A. Glomeratus un ” micro crostaceo”. Volevo dire in maniera spiccia, ma ahimè fortemente scorretta che si trattava di un microrganismo con esoscheletro.
      In merito alla corretta classificazione tassonomica di A. Glomeratus, ho fatto una ricerca e da essa è scaturito che esso appartiene al Philum dei Foraminifera: http://www.marinespecies.org/foraminifera/aphia.php?p=taxdetails&id=113837
      Ciao, Donato.

    • Luca Racca

      Pardon, confusa con l’anthozoa globulatum che è un corallo

  8. Caro Donato,
    e non ci hai fatto neanche aspettare tanto, praticamente poche ore! Chiarissima disamina dell’artico di Tesi et al. e le tue conclusioni finali non sono affatto fuori luogo; e poi se questo lavoro non suscitasse almeno un minimo di discussione e di diversità di opinioni avrebbe poco valore, il che non è.
    Certo, l’aumento improvviso delle temperature nel 1900 (qui stiamo parlando di oceano, con tempi di reazione più lunghi rispetto a quelli dell’atmosfera) non è compatibile con l’ipotesi AGW (l’aumento graduale dello sviluppo industriale e l’inerzia del mare richiedono aumenti non improvvisi) e bene fanno gli autori a porre l’accento sui dubbi
    rispetto ad un “tutto antropogenico”. Però anche l’ipotesi di uscita dalla LIA richiede una gradualità che difficilmente vedo nei dati prodotti.
    Come scrive Brigante in un commento al mio post precedente (p=56116), la circolazione oceanica delle alte latitudini è estremamente complessa e non mi meraviglierei se le interazioni tra le diverse componenti producessero risultati per ora non troppo comprensibili.
    Come scrivi, il d18O da N.Labrodonica mostra il riscaldamento dal 1900, e lo fanno anche, tra i foraminiferi, Ag (Adercotryma glomeratum) e Gps (C. Reniforme + E. Excavatum) seppure con modalità diverse tra loro e rispetto a d18O, ma TEX86L (proxy per la temperatura marina invernale) mostra, al contrario, una diminuzione marcata dal 1900 o poco prima. Aumenta l’escursione termica annuale (la differenza di temperatura tra estate e inverno) o cos’altro? Se ci fosse più ghiaccio, mi aspetterei che funzionasse come una “coperta” , evitando dispersione di calore verso l’atmosfera e quindi tenendo al caldo le acque sottostanti, cioè il contrario di quanto si osserva. (i grafici sono qui, definiti dal fondo blu).
    Comunque, anche confortato dal tuo giudizio, ribadisco la validità dell’artico di Tesi e colleghi. Ciao. Franco

    • donato b.

      Caro Franco,
      che dire: il tuo contributo al mio post è di importanza fondamentale e chiarisce in modo inequivocabile alcuni concetti che, mi rendo conto, sono stati espressi in modo piuttosto criptico per contenere la lunghezza dell’articolo. Hai lavorato più tu che io, mi sembra. Grazie per aver arricchito con i tuoi chiarissimi grafici il mio lavoro.
      Proprio guardando i tuoi grafici, soprattutto quelli relativi ai foraminiferi, emergono in maniera prepotente quelle incongruenze di cui parlavo nell’articolo: alcuni dati di prossimità suggeriscono che le temperature sono aumentate a partire dalla fine del 1800, altri sembrerebbe che lo escludano. Tesi et al., 2021 hanno riportato tutti i dati, quelli che portavano acqua al proprio mulino e quelli che non lo facevano. Hanno creato materiale adatto per successivi approfondimenti e fornito spunti per ulteriori ricerche.
      .
      Condivido, infine, il fatto che il repentino incremento di temperatura di inizio ‘900, mal si concilia con il rimbalzo post-LIA o con il contributo antropogenico. L’ipotesi degli Autori è proprio di tipo circolatorio: con la fine della PEG lo scioglimento dei ghiaccia galleggianti in misura maggiore rispetto al passato, ha determinato cambi nel regime circolatorio artico che spiegherebbero le variazioni di temperatura e salinità riscontrate.
      Ciò che mi lascia perplesso, però, è il lungo periodo durante il quale le temperature restano costanti: veramente ci sono degli alti e bassi, ma ciò che meraviglia è la mancanza di qualsiasi trend. Come mai solo alla fine della PEG si registrano tassi di variazione così elevati e per un tempo così lungo? Si dovrebbe indagare anche il periodo precedente per poter stabilire se quanto accaduto a fine 800 sia un fatto eccezionale o già si èsia verificato nel passato. C’è bisogno, in altre parole, di ulteriori studi.
      Ciao, Donato.

  9. Guido Botteri

    vorrei evidenziare questa frase che condivido assolutamente
    /* siamo talmente presuntuosi da reputarci in grado di modellare matematicamente ciò che non conosciamo */
    o per lo meno che non conosciamo ad un livello tale da poter garantire di modellarlo in maniera adeguata.

    • donato b.

      Innanzitutto un caro saluto a G. Botteri, compagno di tante discussioni e conterraneo: siamo entrambi campani.
      Ti ringrazio di cuore per la precisazione. Hai perfettamente ragione: “non conosciamo ad un livello tale da poter garantire di modellarlo in maniera adeguata” è meglio di come ho scritto io.
      Ciao, Donato.

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