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Il catalogo HURDAT revisionato: uragani, tempeste, landfall nord-atlantici tra il 1851 e il 2018

Il catalogo HURDAT (Hurricane Database) per il Nord-Atlantico, e la sua versione HURDAT2 per il Pacifico, del National Hurricane Center (NHC), nasce negli anni ’60 del secolo scorso come supporto alle missioni Apollo, essenzialmente per le fasi di lancio e di recupero in mare delle navicelle.
Nei decenni successivi le sue informazioni sono state utilizzate per una varietà di scopi per i quali il catalogo non stato pensato e progettato: dalla progettazione di edifici nelle zone costiere alla previsione dei danni a fini assicurativi, dalla guida (e definizione danni) per i gestori delle emergenze agli studi sui cambiamenti climatici.
Per questo negli anni ’90 si sono messi a punto i motivi e le modalità per una revisione del database che includesse sia le nuove esigenze osservative (ad esempio le tempeste tropicali “nominate”, cioè con un nome, erano rare nei decenni precedenti rispetto a quelle attuali) che l’estensione indietro negli anni, dal 1878 al, attualmente, 1851 degli eventi registrati. Quest’ultima operazione ha richiesto, da parte dell’NHC, un lungo e faticoso esame di una grande varietà e quantità di documenti, dai resoconti meteo di molte singole stazioni, ai diari di bordo delle navi, agli articoli della stampa locale (degli stati attorno al Golfo del Messico) e un’attenta revisione dei parametri meteo (velocità del vento, pressione nell’occhio, luogo e velocità di atterraggio).
L’impresa è stata molto impegnativa e condotta in sezioni successive: attualmente il database Revised Nord Atlantic Hurricane Database, che chiamerò qui rev-h, riporta i dati dal 1851 al 2018 e li confronta con i dati originali di HURDAT in questa tabella che ho usato nel post come dataset di base.

Uno dei motivi per cui descrivo questo dataset è che, a causa dei cambiamenti nel “nominare” le tempeste tropicali, queste ultime risultavano in enorme crescita rispetto alla fine dell’800, quando in realtà la crescita era una funzione delle scelte tecniche e non del riscaldamento globale, come scrivono Chris Landsea (il capo del Tropical Analysis and Forecast Branch al National Weather Service’s National Hurricane Center) e Eric Blake (un senior hurricane specialist) in un articolo sul sito NHC, ripreso da WUWT.
La revisione è servita anche a questo: assegnare un nome, in base ai criteri recenti, anche a tempeste del passato, bilanciando così l’artefatto presente nel dataset originale.

Il database rev-h si confronta con l’originale HURDAT in cinque casi: tempeste con nome, uragani (classi da F1 a F5), forti uragani (classi da F3 a F5), uragani atterrati in USA e ACE, l’energia accumulata degli uragani, qui misurata in nodi al quadrato (l’energia è proporzionale al quadrato della velocità).

Mostro le serie revisionate, sia come grafico complessivo (con ogni serie smussata da un filtro passa-basso di finestra 20 anni) in figura 1 (qui insieme ai parametri dei fit lineari), che in forma di istogrammi (sempre con il filtro passa-basso) in figura 2.

Fig.1: Le serie revisionate del catalogo HURDAT. Il valori osservati e l’andamento più generale dato da un filtro passa-basso di finestra 20 anni. In basso ACE (accumulated cyclone energy) che ha unità di misura diversa da quella delle altre serie.
Fig.2: Le serie di figura 1 in forma di istogrammi, raggruppati insieme, sempre con il filtro passa-basso di finestra 20 anni. Nel sito di supporto sono disponibili i grafici delle singole serie, più leggibili.

In queste due figure si evidenzia la crescita media, con ampie oscillazioni, sia delle tempeste tropicali con nome che degli uragani (da F1 a F5 e da F3 a F5) e una diminuzione degli uragani che hanno toccato il suolo degli Stati Uniti. Anche l’energia cumulata cresce, sempre con oscillazioni.

Dal punto di vista dell’occorrenza degli eventi estremi, questo dell’URDAT revisionato è il primo caso, tra i molti che ho analizzato, a mostrare con chiarezza un aumento mediamente continuo del numero di eventi dall’avvento della rivoluzione industriale (dall’inizio del database).
Spero, senza commettere un sacrilegio, che sia possibile dire anche dall’uscita della PEG (o LIA) (Piccola Era Glaciale), ipotesi che meglio si adatta alle numerose oscillazioni nel numero di eventi rispetto ad una crescita costante della temperatura (che non si osserva), guidata dall’aumento continuo della concentrazione di CO2.
E’ appena il caso di osservare che gli eventi estremi che hanno colpito il territorio degli Stati Uniti, che poi sono quelli che fanno gridare al disastro prossimo venturo, sono in diminuzione (mediamente di 0.003 eventi l’anno, rispetto, ad esempio, all’aumento di 0.04 eventi/anno delle tempeste tropicali) per cui ci aspetterebbe, se non grida di gioia, almeno un composto silenzio che però ascoltiamo con molta, molta difficoltà.

Gli spettri delle cinque serie “riviste” sono mostrati insieme, in figura 3, con l’indicazione di alcuni massimi e l’evidente mancanza di riferimenti alla “selva” di picchi, sulla sinistra di ogni grafico, che corrisponde ai periodi tipo ENSO, tra 3 e 9 anni.

Fig.3: Lo spettro MEM delle serie di figura 2. Gli spettri delle singole serie, più dettagliati, sono disponibili nel sito di supporto.

Per un maggiore dettaglio rimando ai grafici dei singoli spettri, disponibili nel sito di supporto; quello che si può notare dall’insieme è la notevole somiglianza tra le diverse serie e la presenza del periodo di 60 anni, osservato e identificato in numerose serie diverse, in AMO (Atlantic Multidecadal Oscillation) e più debole, in PDO (Pacific Decadal Oscillation), che in tre su cinque serie è il massimo principale, alla pari, a volte, con il principale massimo della zona tipo-ENSO, a sinistra nello spettro.
Per poter tenere in conto questi ultimi (ENSO-like), ho suddiviso tutti i massimi spettrali in bin di 5 anni e mostro la loro distribuzione in figura 4, dove appare nettamente che i picchi spettrali si raggruppano in soli 4 insiemi, su due gruppi contigui di periodi, dei quali 2 ascrivibili all’influenza delle grandi oscillazioni oceaniche e atmosferiche atlantiche, solo debolmente legate al Pacifico.

Fig.4: Distribuzione dei massimi spettrali complessivi delle cinque serie, da Named Storms ad ACE. I quattro gruppi di massimi, indicati dalle scritte rosse, dovrebbero essere considerati indicativi e non attributivi (ad esempio ENSO, SUN dovrebbero essere intesi come tipo-ENSO, ecc)

Conclusioni
Il dataset HURDAT, anche nella sua versione rivista e integrata, mostra un aumento del numero delle tempeste tropicali identificate con un nome e degli uragani, totali e forti (F1-F5 e F3-F5 rispettivamente), in tutto l’intervallo considerato, dal 1851 al 2018.
Questo fatto viene attribuito all’AGW, il riscaldamento del pianeta provocato dall’attività umana, e quindi all’aumento di concentrazione dei gas serra, in particolare dell’anidride carbonica CO2. L’aumento costante di CO2 implica però un aumento costante di temperatura, mentre l’aumento medio del numero di eventi è caratterizzato da una serie di aumenti e diminuzioni (oscillazioni) nel corso del tempo. A me sembra che questa situazione sia maggiormente compatibile con il riscaldamento complessivo del pianeta come conseguenza dell’uscita dal periodo mediamente freddo detto Piccola Era Glaciale il cui termine grosso modo coincide con l’inizio della rivoluzione industriale.

Sempre all’interno della revisione di HURDAT si osserva una debole diminuzione media (0.003 eventi/anno, in ogni caso non un aumento) degli uragani che hanno interessato il territorio USA.

Bisogna sottolineare che il sito di Ryan N. Maue, luogo di riferimento per chiunque tratti uragani, cicloni, tempeste tropicali mostra

  • per gli uragani con vento maggiore di 64 nodi e per quelli più intensi, con vento maggiore di 94 nodi, frequenza costante nel tempo, a partire dal 1980;
  • ACE costante dal 1970 per i cicloni tropicali sia globali che dell’emisfero nord;
  • frequenza costante per le tempeste tropicali e gli uragani, a partire dal 1970.

Certamente dall’analisi di questi dati si può dedurre che le notizie del disastro climatico annunciato sempre, da oltre 50 anni, entro un tempo molto breve (8-20 anni) sono, come minimo, da ridimensionare e da considerare con cautela e molto scetticismo.

Alcuni giorni dopo la stesura di questo post (luglio 2021) è uscito un lavoro (Vecchi et al., 2021, visto da me a metà ottobre) in cui si studia lo stesso database HURDAT, preoccupandosi di verificare se la crescita del numero di eventi fosse da legare al cambiamento climatico: sulla base di attente considerazioni anche relative alle rotte delle navi che avevano registrato gli uragani all’inizio delle osservazioni, gli autori derivano una omogeneizzazione dei dati relativi agli uragani atterrati negli USA e alla totalità degli eventi del nord Atlantico, e affermano che la crescita è solo apparente in quanto si osserva un minimo iniziato attorno agli anni ’60 e una crescita successiva (dall’abstract: After homogenization, increases in basin-wide hurricane and major hurricane activity since the 1970s are not part of a century-scale increase, but a recovery from a deep minimum in the 1960s–1980s).
••E’ curioso che il database degli eventi estremi in USA (CEI, http://www.climatemonitor.it/?p=51305) mostri per tutte le aree geografiche un minimo (più o meno accentuato) centrato negli anni ’60, simile a quello dichiarato da Vecchi e colleghi.••Questa nota aggiuntiva non vuole essere un tentativo di negare l crescita presente nel database, anche perché il lavoro di Vecchi et al. si basa su una serie di assunzioni della cui correttezza non sono sicuro, ma solo un modo di presentare ai lettori un panorama più ampio sull’argomento.
Tutti i dati e i grafici di questo post sono disponibili al sito di supporto e sono riferiti alle linee in verde su fondo celeste
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Published inAttualitàClimatologia

9 Comments

  1. @Mario
    No, non sbaglia. Questo catalogo registra una diminuzione degli eventi, dopo il 2005 circa, in tutti i casi tranne in quello degli atterrati negli USA, ma, sempre con l’esclusione di quest’ultimo, anche un aumento medio del numero di eventi dal 1850. Come ho scritto, a mio parere questo aumento è più compatibile con l’uscita dalla LIA (PEG), con tutte le oscillazioni che mostra, che con l’aumento dovuto a cause antropiche, basate su un aumento costante della CO2 ma, a prescindere dalle cause, l’aumento si osserva. Franco

  2. donato b.

    Noto che, a volte e senza alcun coordinamento, si verificano delle strane coincidenze: ultimamente sono stati pubblicati due post (uno da me ed uno da F. Zavatti), in cui vengono trattati fenomeni climatici la cui origine coincide con la fine della PEG o LIA che dir si voglia. Nel mio caso si trattava dell’atlantificazione dell’Artico, nel secondo caso dei cicloni ed uragani atlantici.
    Tralasciando l’accidente che ha portato alla pubblicazione quasi consecutiva di questi due post, quello che mi ha fatto riflettere, è la retro datazione di fenomeni che sono considerati strettamente legati al cambiamento climatico di origine antropica, ovvero ne rappresenterebbero la prova.
    I due articoli pubblicati, invece, dimostrano che processi complessi come l’atlantificazione dell’Artico e la formazione ed evoluzione dei cicloni, precedono di molto quello che sembra essere stato il momento in cui il clima, da elemento che condizionava l’attività umana, è diventato elemento condizionato dall’attività umana. Momento che viene posto, grossomodo, in corrispondenza della metà del secolo scorso.
    .
    Focalizzando il discorso sull’articolo di F. Zavatti, prendo atto che tutti i principali indicatori dell’attività ciclonica sono mediamente in crescita a partire dalla metà del 19° secolo, ma non posso fare a meno di constatare, come del resto ha fatto L. Rocca, il drastico “crollo” fatto registrare da tali indicatori negli ultimi venti anni. Analizzando i grafici lisciati, infatti, si vede che quasi tutti gli indicatori sono tornati ai livelli della metà del secolo 19°.
    A questo punto ci incamminiamo, però, in un terreno minato: secondo la vulgata bisogna considerare solo il trend di lungo periodo e non quello di breve periodo, perché solo il primo è significativo. Secondo me però non si può trascurare un periodo ventennale in cui i principali indicatori dell’attività ciclonica sono in vertiginosa discesa.
    La cosa fa riflettere perché se esistesse la relazione tra temperature terrestri ed eventi estremi (e gli uragani sono eventi estremi), oggi ci dovremmo trovare di fronte ad un massimo e non ad un minimo. Invece ciò non è. Ed i dati lo dimostrano. Resta da capire il perché.
    .
    F. Zavatti ha individuato dei periodi che caratterizzano l’attività ciclonica. Tali periodi sono, in genere, indice di variabilità naturale all’interno del sistema. Si potrebbe pensare, pertanto, ad un’influenza antropica che determina il trend e ad una causa naturale che modula gli eventi. Dall’esame dei grafici si nota, comunque, che la variabilità naturale è di gran lunga più incisiva di quella antropica. Ciò confermerebbe quanto vado sostenendo da tempo, ovvero che le cause che determinano i cambiamenti climatici sono prevalentemente naturali, ma l’attività umana non è del tutto estranea ad essi. Il problema è, però, sempre lo stesso: quanto pesano, rispettivamente, tali cause sul cambiamento climatico? Quanta responsabilita cioè ricade sull’uomo e quanta sulla natura?
    Fino a che non riusciremo a quantificare questi due aspetti del problema, non potremo dire di aver capito il clima terrestre. E, secondo il mio insignificante parere, siamo ben lontani dallo scoprirlo.
    Ciao, Donato.

    • Caro Donato,
      non posso fare altro che sottoscrivere le tue considerazioni, parola per parola, e aggiungere un paio di considerazioni:
      1) La concomitanza tra i post è certamente casuale: come si vede dalla data sui grafici, ho calcolato e scritto il post a luglio 2021, ben prima del tuo sull’atlantizzazione, la cui esistenza non avrei potuto neanche immaginare.
      2) Il problema è quello del rapporto tra le influenze naturale e antropica, e anche io credo che la seconda sia nettamente meno importante della prima, ma continuo a pensare che il vero problema, certo scientifico ma soprattutto politico, sia quello dei feedback praticamente solo positivi nei modelli (e nelle scelte politiche che derivano da questi) o, se preferisci, nella corretta comprensione -e applicazione- dei meccanismi che regolano il clima.
      E poi l’aria da “mille e non più mille” di memoria alto-medievale, condita con la salsa moderna del “non abbiamo un pianeta B” non aiuta a discutere con la serenità necessaria di questi argomenti, purtroppo. Ciao. Franco

    • donato b.

      “La concomitanza tra i post è certamente casuale…”
      .
      Appunto. Ed è proprio questa casualità che mi intriga. E che mi fa riflettere.
      Quanta casualità è presente nella nostra vita e nelle vicende del mondo? E quanta casualità caratterizza le vicende umane e naturali, in genere? E quanta casualità è insita nelle vicende climatiche?
      A volte, pensando a queste cose, mi chiedo quanto abbiamo capito del sistema climatico e mi cadono le braccia. Poi, penso, che la nostra missione è cercare di capire, scovare le minime regolarità che caratterizzano questo sistema stocastico e mi rimetto di nuovo alla ricerca. E’ il bello dello studio.
      Ciao, Donato.

  3. rocco

    ho appena terminato di leggere “rosso di sera” un libro che parla di meteorologia.
    Ebbene, lo si dice chiaramente: i dati non sono mai quelli reali, sono sempre “ricalibrati”.
    In pratica, quella misurata è una realtà virtuale, un misto di osservazioni anche con operatori in carne ed ossa e previsioni modellistiche.
    Ossia, se mi sto bagnando che piove, mi devo convincere, invece, che è sereno perchè così è uscito fuori dall’atmosfera virtuale.
    Vale più quello che viene elaborato dal computer piuttosto che ciò che si osserva realmente.

  4. Luca Rocca

    Mi sembra che ci sia una corrispondenza fra il grafico del Dataset di CM delle temperature Europee ( quello della barra laterale) e gli eventi estremi del HURDAT, non ho gli strumenti per confrontarli ma mi sembra che i picchi di temperatura degli anni 40-50 e degli anni 80-90 si riflettano negli incrementi di eventi estremi negli stessi periodi. Quello che mi sfugge è il crollo degli eventi negli ultimi 20 anni . Un idea me la sono fatta ma sarebbe legata alla sua recente pubblicazione sulla riduzione della portata dell’ AMOC e sarebbe pura speculazione.
    Una curiosità nel calcolo della pressione del vento la costante di densità dell’ aria dovrebbe essere 10^-4 nel sistema americano ma ho visto che spesso lo indicano come 10^4 , lo fanno per non gestire numeri troppo grandi ?

    • Riproduco nel grafico in basso la figura 1 del post con aggiunta ETA
      (European Temperature Anomaly) della barra laterale, scalata arbitrariamente.
      E’ in blu, con linea del filtro a 20 anni rossa in alto e verde in basso.
      Qualche vaga analogia si vede, ma anche opposizione di fase (1860 e 1920 e dopo il 2005). Se confrontiamo le linee smussate, mi sembra che le analogie non siano molte.
      Il crollo degli ultimi 20 anni è spiegabile, almeno in parte, con i 12 anni di mancanza di “atterraggi” sul suolo americano che hanno preceduto l’ultima stagione.
      Per la domanda sulla costante di densità dell’aria, spero risponda qualcun altro più ferrato di me. Franco

      Immagine allegata

  5. AleD


    Il dataset HURDAT, anche nella sua versione rivista e integrata, mostra un aumento del numero delle tempeste tropicali identificate con un nome e degli uragani, totali e forti (F1-F5 e F3-F5 rispettivamente), in tutto l’intervallo considerato, dal 1851 al 2018.

    quindi questo è un vostro cambio di conclusioni rispetto al passato dove ribadivate la non veridicità circa l’aumento degli eventi estremi?

    • Mario

      Buongiorno.
      Non sono un esperto nella lettura dei grafici, anzi; però, così, ad occhio e croce sembra che negli ultimi 15 anni ci sia una forte diminuzione (a fronte di un previsto forte aumento) negli “eventi estremi”. O no? sbaglio io ? saluti 🙂

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