Salta al contenuto

So’ due etti e venti di clima Signò, che faccio lascio?

Da qualche giorno mi è presa così, scivolo sull’idioma. Abbiate pazienza, sono sicuro che la simpatica attitudine del salumiere di turno di abbondare in fase di taglio esiste ovunque, perciò, poco male. Ma, il clima a etti? Non necessariamente, anche chili o quintali se credete, purché sia a peso. Tranquilli, non sono ammattito, non più di quanto non lo fossi già ieri, anche se riconosco che questa non è una garanzia. Queste apparentemente sconclusionate riflessioni fanno parte di quanto mi è venuto in mente qualche giorno fa durante un giro di blog.

L’argomento è, tanto per cambiare, il clima che cambia o dovrebbe cambiare e noi che cerchiamo di riprodurne le evoluzioni. Lo strumento, si sa, sono i modelli climatici. Ora, quale sia il processo che si intende simulare, il modello perfetto è quello che contiene tutte le variabili in gioco e le loro relazioni. Non so quanti ne esistano di modelli del genere, di sicuro, per forza di cose, non ce ne sono tra quelli meteorologici e/o climatici. Mancano informazioni su parecchie variabili, infatti, e su parecchi processi. Anche per quelli tra questi per i quali si ha un buon livello di conoscenza e dati sufficienti, se hanno dinamiche che occupano una scala spaziale inferiore alla risoluzione del modello, si rendono necessarie delle operazioni di aggiustamento tecnicamente definite tuning. Il termine, pur rozzo, è però molto azzeccato, perché di fatto si tratta di virtuali manopole che vengono girate un po’ di qua e un po’ di la’ finche non si raggiunge un equilibrio soddisfacente, cioè finché il modello non riproduce con efficacia il termine di riferimento del sistema o della sua parte oggetto di simulazione.

Lo scopo del tuning, quindi, è di colmare le lacune di conoscenza delle dinamiche del sistema facendo uso del libero arbitrio. La verifica iniziale, ovvero il confronto con il termine di riferimento dirà se quell’arbitrio è stato troppo libero. La verifica finale, cioè il confronto con la realtà dirà se il modello è efficace. Sicché, in un sistema complesso come quello terra-oceani-atmosfera, che in genere chiamiamo clima, il tuning necessario è davvero pesante e può avere l’effetto di condizionare altrettanto pesantemente gli output delle simulazioni. Negli ultimi tempi, in effetti, ne parliamo molto spesso. I modelli climatici sono stati grossomodo in grado di riprodurre quanto accaduto nelle ultime decadi del secolo scorso, ma si sono rivelati sin qui del tutto inefficaci per quanto è accaduto negli ultimi 15 anni o poco più. Purtroppo però, quello che accaduto alla fine del secolo lo sapevamo già, si trattava di riprodurlo e basta. Quello che accaduto dopo avrebbero dovuto dircelo i modelli, si trattava quindi di prevederlo, cioè di utilizzare la pratica della simulazione per il suo scopo principale. Uno scopo sin qui miseramente fallito.

Appare chiaro che a quei modelli manca qualcosa. Possono essere dei processi naturali di cui non si è tenuto conto, può essere una sovrastima degli effetti del forcing antropico – che di fatto li domina – possono essere anche errori di tuning, che poi come abbiamo detto serve a supplire le lacune dei primi o a introdurre reazioni che si suppone il sistema possa avere in relazione ai secondi.

Ora, prendiamo per esempio gli oceani, il più grande serbatoio e scambiatore di calore del sistema climatico. Quelli che vedete qui sotto sono grafici che rappresentano l’efficacia dei modelli climatici di riprodurre la variabilità multidecadale (per cui a scala climatica) del comportamento delle temperature di superficie. La prima riguarda il l’Atlantico settentrionale, la seconda il Pacifico settentrionale, rispettivamente teatro delle oscillazioni multidecadali definite PDO e AMO (fonte).

 

figure-7 figure-8

Le curve partiranno e arriveranno anche quasi insieme, ma non sembra proprio che ci sia grande efficacia nel riprodurre le modifiche a scala multidecadale dei pattern delle temperature di superficie. Per intenderci, multidecadale, per esempio 25 anni circa, è il periodo del global warming ruggente, mentre quello di stasi delle temperature medie del pianeta, sarà maggiorenne tra qualche mese. Sono spazi temporali ai quali non si può rinunciare, evidentemente. Però, multidecadale, è stato anche il periodo dal quale sono stati estratti i valori per applicare il tuning ai modelli. Quale periodo? Uno a caso, 1976-2005, un periodo in cui, evidentemente, il sistema andava verso il caldo. Questo lo si evince da una pubblicazione scientifica molto interessante dal titolo “Tuning the climate of a climate model” (Mauritsen et al, 2012 – qui a pagamento, qui in preprint). Qui sotto, per chiarire, la rappresentazione grafica di questo concetto.

 

figure-9 figure-10

In pratica il tuning ha intercettato ‘casualmente’ un periodo in cui il sistema si scaldava, il modello non è in grado di riprodurre la variabilità multidecadale, non ci sono chances che possa prevedere una successiva inversione di tendenza. Esattamente quello che è accaduto.

Quindi il sistema ha virato, ma i modelli lo indirizzano diversamente. Per cui, ai fini delle policy climatiche che dovrebbero basarsi sulle previsioni, che faccio Signò, lascio?

 

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...Facebooktwitterlinkedinmail
Published inAttualità

2 Comments

  1. donato

    L’aperiodicità degli output dei modelli è, secondo me, il loro tallone di Achille. La variabilità decadale e multidecadale che caratterizza le misure reali purtroppo, sparisce nelle elaborazioni modellistiche (i diagrammi proposti da G. Guidi ne sono una dimostrazione lampante).
    N. Scafetta lo ha messo chiaramente in evidenza in uno dei suoi ultimi lavori basato sull’analisi dei risultati di ben 48 modelli climatici (circa la metà): http://www.climatemonitor.it/?p=34811
    Gira e rigira arriviamo sempre al punto di partenza: la scarsa conoscenza della fisica del sistema o, per essere più precisi, l’approssimativa modellazione matematica delle grandezze fisiche che caratterizzano il sistema climatico terrestre conseguente ad una scarsa comprensione delle relazioni tra le stesse. L’eccesso di tuning, come scrive anche G. Guidi, è una conseguenza di questa conoscenza approssimativa. Alcuni studiosi, tra cui N. Scafetta, hanno proposto di aggirare l’ostacolo facendo ricorso ai modelli empirici e semi-empirici. Questa soluzione se, da un lato, ha il vantaggio di scollegarsi dalla modellazione matematica esatta delle relazioni tra le grandezze fisiche in gioco, dall’altro ha il grande difetto di legare l’evoluzione del sistema ad un’unica grandezza. Oggi come oggi i modelli empirici o semi-empirici maggiormente in voga sono tutti CO2-dipendenti e, quindi, legano l’evoluzione delle varie grandezze fisiche che caratterizzano il clima terrestre (livello dei mari, temperature superficiali, ghiacci marini e via cantando) al fattore antropico. Anche per essi, comunque, l’overfitting di cui parla agrimensore g. è la norma. 🙂
    Ciao, Donato.

  2. agrimensore g

    Ecco, mi sembra che il problema di fondo sul tema del clima sia proprio quello evidenziato nel post. In sostanza, i modelli sono affetti da overfitting? C’è una cosa che trovo sorprendente: a volte le stesse persone che hanno estrema fiducia sulla robustezza dei risultati dei modelli, sono pronti a rimetterli in discussione se c’è qualche studio che li critica, purchè l’asticella si sposti verso l’alto…

Rispondi a donato Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Categorie

Termini di utilizzo

Licenza Creative Commons
Climatemonitor di Guido Guidi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 4.0 Internazionale.
Permessi ulteriori rispetto alle finalità della presente licenza possono essere disponibili presso info@climatemonitor.it.
scrivi a info@climatemonitor.it
Translate »