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C’era una volta la nebbia in Val Padana

Ieri l’altro mi è capitato per le mani il comunicato stampa del CNR che vi riporto qui sotto (fonte):

Val Padana, la nebbia si dimezza

I dati di uno studio condotto dall’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Isac-Cnr) di Bologna, pubblicato sulla rivista internazionaleAtmospheric Environment, confermano che la nebbia in Val Padana è diminuita della metà

Dai primi anni ’90 ad oggi, sono diminuiti di circa il 50% gli episodi di nebbia, si è abbassata la concentrazione di inquinanti in essa contenuta e ridotta di 10 volte l’acidità che oggi è prossima alla neutralità. Sono i primi risultati di uno studio ventennale, condotto dall’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Isac-Cnr) di Bologna, pubblicato sulla rivista internazionale ‘Atmospheric Environment’.

La Pianura Padana è una delle aree più inquinate d’Europa; l’orografia del territorio favorisce, durante la stagione invernale, la stagnazione dell’aria intrappolando gli inquinanti nei bassi strati dell’atmosfera.

Con la nebbia, l’alta concentrazione di microscopiche goccioline di acqua riduce sensibilmente la visibilità, con pesanti ricadute su traffico e viabilità. “Le stesse goccioline agiscono, inoltre, come veri e propri assorbitori e concentratori degli inquinanti presenti nell’aria, che in tal modo sono più facilmente trasportati nell’atmosfera, depositati sulla vegetazione e inalati nelle nostre vie respiratorie”, spiega Sandro Fuzzi, ricercatore dell’Isac-Cnr  e responsabile della ricerca.

Lo studio, in dettaglio, evidenzia una tendenza alla diminuzione della frequenza degli episodi di nebbia in Val Padana del 47%. Secondo i ricercatori tale diminuzione va di pari passo con l’aumento della temperatura dovuto al riscaldamento climatico.

“La notizia buona è che negli ultimi decenni anche la concentrazione di inquinanti nelle goccioline di nebbia si è parallelamente ridotta, di circa l’80%, riflettendo una riduzione delle emissioni dei principali inquinanti: anidride solforosa, ossidi di azoto, ammoniaca, rispettivamente del 90%, 44% e 31%, e”, aggiunge Fuzzi, “soprattutto sono diminuite le emissioni acidificanti portando l’acidità della nebbia in condizioni prossime alla neutralità.”

Addio alle nebbie acide in Val Padana quindi, a beneficio della vegetazione e dei beni artistici esposti alle intemperie? “Sembrerebbe di sì”, continua Fuzzi, “tuttavia, persiste la presenza di componenti dannosi per la salute dell’uomo, in particolare per la presenza di un’elevata concentrazione di particelle carboniose”.  Nelle goccioline d’acqua i ricercatori hanno infatti rilevato un contenuto medio di 1 mg per litro di particolato carbonioso originato da processi di combustione (riscaldamento domestico, combustione di legna e residui agricoli, produzione di energia, traffico).

L’Organizzazione mondiale della sanità ha da tempo dato l’allarme sui possibili effetti di questi composti che potrebbero essere responsabili delle affezioni respiratorie e cardiovascolari e, in alcuni casi, di insorgenza di tumori.

Roma, 27 novembre 2014

_______________________

Non mi sembrano proprio cattive notizie, ma c’è qualcosa che non mi torna. Non si fa nessun accenno all’ormai consolidata transizione dal gasolio e dal legname al gas naturale per il riscaldamento domestico, che per l’area più densamente popolata del Paese non è un fattore trascurabile. Una transizione che ha sottratto grandi quantità di particolato ai bassi strati dell’atmosfera, probabilmente influendo non poco sulla nucleazione, cioè sulla formazione delle goccioline di piccolissime dimensioni di cui è fatta la nebbia. E mi pare che di questo ci siano prove tangibili anche in questo comunicato stampa.

E’ noto che la quantità di acqua allo stato gassoso che una massa d’aria dipende dalla sua temperatura e, se questa aumenta, si raggiunge meno facilmente la saturazione; ma possibile che il cambiamento sia tutto da imputare all’aumento delle temperature? E, ancora, quanto influiscono sulla frequenza di occorrenza della nebbia l’effetto isola di calore, il cambiamento nell’uso del suolo e l’urbanizzazione, che incidono in larga misura sugli apporti di umidità negli strati più bassi dell’atmosfera?

Se vi interessano le risposte a questi quesiti, vi consiglio la lettura di questo articolo dell’amico Luigi Mariani, che chiarisce e contestualizza la questione. Vi accorgerete che il ruolo del “riscaldamento climatico” (interessante neologismo), se c’è, è parecchio indietro in classifica e tutt’altro che direttamente riconducibile alla frequenza di occorrenza della nebbia.

Buona fine settimana.

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Published inAttualità

8 Comments

  1. Un giorno non cambia la statistica… ma si può dire che questi studi sembrano tirarsi addosso un meteo bastiancontrario? In questi giorni io sto fisso a Genova e non posso valutare direttamente, ma da quanto vedo sul giornale a Milano c’è stato un bel nebbiun, fino in piazza Duomo…

    • Maurizio Rovati

      E’ in atto una fase nebbiosa persistente nell’area lombarda, ma non determina una riduzione della visuale a meno di 50m, almeno dalle mie parti. E’ invece piuttosto persistente e non se ne va del tutto nemmeno nelle ore centrali.

  2. donato

    Scrive M. Rovati. “E qui qualcuno dovrebbe spiegarmi come si fa a definire pulito ed ecologico, secondo i criteri vigenti, un combustibile “sporchino” come la legna e i suoi derivati.”
    .
    Domanda estremamente interessante che mi sono fatto diverse volte. Eppure sembra che siamo in pochi a porcela. Ho davanti agli occhi una rivista tecnica: Quaderni di legislazione tecnica – n° 3/2014. Uno degli articoli più importanti, tanto da essere richiamato anche in copertina con tanto di foto di un ambiente comune interno, si intitola:
    Produzione energetica da fonte rinnovabile negli edifici: richiesta normativa e risposte tecnologiche – Best practice di Domenico D’Olimpio.
    .
    L’articolo descrive il quadro normativo che regola la progettazione di nuovi edifici e le ristrutturazioni rilevanti, alla luce dei limiti (piuttosto stringenti) fissati dall’UE per rispettare i famigerati obiettivi 20-20-20.
    La normativa stabilisce, infatti, che, a regime, il 50% del fabbisogno energetico del fabbricato (consumo di acqua calda e riscaldamento) deve essere ottenuto da fonti rinnovabili e una percentuale significativa dell’energia elettrica richiesta (1/50 della superficie in pianta del fabbricato) deve essere autoprodotta (da fonti rinnovabili, ovviamente).
    L’articolo elenca, inoltre, una serie di sistemi e tecnologie che possono essere integrate nel fabbricato per soddisfare gli obblighi di legge: ebbene, tra tali tecnologie fanno bella mostra di sé le caldaie a biomassa e la cogenerazione da biomasse. Si tratta di tecnologie che, secondo l’autore, hanno capacità medio-alta (caldaie a biomassa) e alta (cogenerazione da biomassa) di soddisfare le richieste di legge.
    .
    A titolo di esempio di best practice l’autore cita il caso di un complesso immobiliare costituito da 20 edifici per oltre 900 appartamenti in grado di ospitare circa 3000 abitanti alla periferia di Roma (rione Rinascimento terzo). In questo insediamento è stata prevista la produzione centralizzata di energia mediante la realizzazione di una centrale interrata estesa circa 1300 mq e caratterizzata da una volumetria di ben 7700 mc. I generatori sono costituiti da pompe di calore geotermiche (utilizzano campi geotermici, cioè ampie superfici di terreno in cui si scavano centinaia di pozzi verticali profondi centinaia di metri in grado di utilizzare un gigantesco volume di terreno come pozzo o sorgente termica), cogeneratori a biomassa (che utilizzano olio vegetale come combustibile) ed altre strutture secondarie.
    Non mi risulta che vi siano stati movimenti contrari alla realizzazione di questa centrale energetica: di sicuro ci sarebbero stati se la centrale fosse stata alimentata a gas e non inquadrata in un’operazione di marketing con il “bollino verde”.
    Eppure possiamo essere piuttosto sicuri che le emissioni inquinanti degli oli vegetali sono sicuramente maggiori di quelle del metano. Perchè si privilegia, invece, la biomassa? Semplice: innanzitutto per il prefisso bio- (se è bio, sicuramente è biologico e, quindi, non fa male 🙂 ) e poi perché non altera il bilancio del carbonio e, quindi, non contribuisce all’effetto serra ed all’AGW. I costi? Nell’articolo non se ne parla, ma credo che sono stati enormi in termini di capitali investiti e saranno ancora enormi in fase di gestione. Importa a qualcuno? Certamente a chi dovrà sottoscrivere il mutuo per acquistare uno dei novecento appartamenti, però, questo maggior sacrificio economico vale la pena di farlo: è per una buona, anzi ottima, causa. Niente po’ po’ di meno che la salvezza del pianeta! 🙂
    Ciao, Donato.

  3. luca

    Con tutto il rispetto, si dovrebbe prendere in considerazione l’attività solare ed interazione raggi cosmici in questo studio, ma agw è sempre un porto sicuro x ogni ricerca. Per di più, dagli anni 80 è andata gradualmente diminuendo in autunno ed inverno soprattutto, l’azione retrograda delle correnti orientali a dispetto di quelle sud-occidentali. Tutto ciò a mio modesto parere, influisce sul processo di formazione del classico strato di inversione termica. Se quindi vogliamo trovare una risposta nell’aumento delle temperature, è da spiegarsi secondo me nella predominanza e perseveranza di correnti più miti a discapito di quelle più fredde, più che nell’agw. Sarebbe interessante allargare lo studio, anche alle altre zone del globo interessate dal fenomeno, in questo modo si otterrebbero risposte sicuramente più efficienti. Un saluto

  4. Maurizio Rovati

    Quantificazioni numeriche non ne posso fare ma posso affidarmi ai ricordi.
    Cinquant’anni fa gli inverni erano più freddi a Milano e dintorni, e le nebbie in valpadana regnavano sovrane nella stagione fredda. In casa avevamo la stufa a carbone, poi sostituita dall’impianto centralizzato a gasolio, e così come la nostra, tante altre case e palazzi di Milano. Praticamente tutti i nostri parenti e conoscenti erano nelle stesse condizioni, si riscaldavano a carbone e cucinavano col “gas di città” una miscela di gas, alcuni tossici, soprattutto il monossido di carbonio, prodotto anch’esso a partire dal carbone e dal cracking del petrolio, pochi altri invece usavano ancora la legna. Il Carbonaio (Sciustrè o Sciustree in meneghino) era un’attività commerciale importante e mi ricordo ancora questi uomini anneriti dal lavoro, col sacco di juta in testa a mo’di cappuccio portare sulla schiena il carbone nelle case. Noi lo si teneva in cantina e bisognava poi portarlo di volta in volta in casa coi secchi su e giù per quattro piani di scale.
    L’aria d’inverno era molto sporca in assenza di vento, cosa normale da queste parti, tanto che nessuno s’è ancora azzardato ad installare un campo eolico. Era unta e pregna di acri odori causati dalla combustione, lasciava depositi neri che con la pioggia causavano lunghe striature verticali sulle pareti esterne degli edifici e, ovviamente, patinava di nerofumo i nostri polmoni.
    In quell’aria galleggiava la nebbia, la “Scighera”, grigia e oleosa. Il traffico cittadino era ancora scarso, almeno in periferia, e le poche auto parcheggiate in strada venivano ricoperte e trasfigurate dalla nebbia nel giro di una notte.
    La nebbia era una cosa palpabile che ti bagnava di una rugiada scura, scendeva alla sera, molto presto e rapidamente avvolgeva tutto fino ad attutire i rumori, come fa la neve. Ai bambini metteva un po’ paura e causava disorientamento, ma poi ci si abituava. La visibilità calava drasticamente, attraversare le strade era più rischioso del normale tanto che sono stato investito da un ciclista di cui non avevo visto il debole fanalino, mentre anche lui non si era accorto di me.
    Al risveglio la mattina ritrovavamo la scighera nel pieno delle forze, in città tra i palazzi era leggermente meno densa che nell’estrema periferia dove nel frattempo ci eravamo trasferiti in una casa nuova più grande e dotata di riscaldamento centralizzato a gasolio. Andare a scuola significava apprezzare quella variazione di densità tra centro e periferia, l’autobus, quasi sempre alla stessa fermata, lasciava alle spalle l’impalpabile muro grigio e la visibilità passava da 10 o 15 metri a 50 o 100. La stessa cosa succedeva al ritorno, in ordine inverso.
    Abitando al quinto piano, spesso mi capitava di osservare la nebbia scorrere come un fiume, inghiottire strade, auto, lampioni e due o tre dei piani bassi, mentre sopra si vedevano benissimo le stelle e le case circostanti parevano isole in un mare lattiginoso.
    Da ragazzo andavo a scuola a piedi, per risparmiare sul costo del bus, e percorrevo tre chilometri di nebbia assoluta essendo l’istituto tecnico posto anch’esso in periferia, l’ultimo tratto di strada non era nemmeno asfaltato. Allora mi è capitato di osservare, grazie alla nebbia che filtrava la luce solare, un enorme complesso di macchie solari, talmente grande che è rimasto visibile a occhio nudo per circa due mesi compiendo almeno due rotazioni sul sole.
    La nebbia, quella fitta, si presentava in pianura a banchi, intervallati da aree in cui era meno fitta o assente. In città e nell’hinterland sembrava invece essere più omogenea anche se esistevano fluttuazioni di densità da luogo a luogo, e ciò mi sembra abbastanza spiegabile con la conformazione del territorio cittadino che ostacola le correnti d’aria e favorisce la formazione dell’isola di calore.
    Qundo ho iniziato a guidare era il 1971 e anche in quei primi anni settanta ricordo terribili rientri notturni dall’hinterland a causa della nebbia, una volta in particolare fui costretto ad andare a passo d’uomo per 10 km, non riuscivo nemmeno a vedere la segnaletica che incrociavo per la strada. Poi la nebbia da queste parti s’è fatta meno pesante, quasi di colpo, forse a partire dal 1975.
    Contemporaneamente il carbone da riscaldamento è stato abbandonato in massa a favore del gasolio e quest’ultimo è stato poi sostituito negli anni ottanta e novanta dal metano che già aveva rimpiazzato il tossicissimo gas di città usato per la cucina.
    Di questo avvicendamento si ha traccia evidente nella qualità dell’aria che è decisamente migliore oggi anche se gli impianti di riscaldamento sono forse raddoppiati rispetto agli anni cinquanta e il traffico è decuplicato.
    Concludo la tirata con una considerazione.
    Sull’onda della sostenibilità, oggi proliferano le stufe a pellet e a legna da ardere, forse non proprio in città dove gli amanti del caminetto bruciano legna più che altro a scopo estetico. Nelle villette a schiera suburbane invece, il pellet oggi è competitivo economicamente col metano e molti si stanno installando una stufa a pellet in parallelo al riscaldamento a gas che sperano di ammortizzare in qualche anno risparmiando sul metano… Se il pellet non sale di prezzo e se la manutenzione non è troppo onerosa; infatti le stufe a pellet sono abbastanza sofisticate e presentano parti elettromeccaniche soggette a usura, ventole, sensori, motori, etc.
    Forse poi queste stufe a pellet emettono anche parecchio particolato dai camini direttamente in atmosfera, ma non ho mai visto pubblicare dati in proposito.

    • Maurizio Rovati

      Mi sono messo a cercare e ho in effetti trovato che la combustione della legna in varie forme (biomassa) produce importanti quantitativi di particolato.
      Mi sono soffermato su sito dell’ARPA Lombardia dove si legge:

      -Il riscaldamento domestico è responsabile di poco meno di un terzo delle emissioni totali di PM10 e PM2,5 primario in Lombardia su base annua, e la combustione della legna è a sua volta responsabile di più del 90% di tali emissioni. –

      Esporre i dati in questo modo rischia di confondere le idee, per cui tento di fare chiarezza.
      Intanto si paragona il riscaldamento con tutto il resto senza indicare meglio lo specifico, tipo traffico, attività agricole, industriali, commerciali etc. Comunque:

      1- Il riscaldamento domestico produce il 30% (poco meno di un terzo) delle emissioni di particolato per anno in Lombardia.
      2- Il resto delle attività produce quindi il 70% del particolato su base annua.
      3- Il riscaldamento domestico dura circa 4 mesi (un terzo di anno) mentre è pari a zero per circa 8 mesi con buona approssimazione.
      4- Il resto delle attività invece è abbastanza costante nell’anno (cala solo a ferragosto per due o tre settimane).
      5- Il resto produce allora durante i mesi invernali il 70%/3=23,3% di particolato mentre il 30% è prodotto dal riscaldamento
      6- Sommando le percentuali si ha che nei mesi invernali si produce il 53,3% del particolato annuale
      7- Da cui si ricava che solo nei mesi invernali il 56% viene dal riscaldamento domestico e il 44% da altro.
      8- Il 90% del 56% cioè il 50,4% è a sua volta causato dalla sola combustione della legna!

      Ma poi si legge ancora:

      -Nei mesi invernali il contributo della legna bruciata in ambito domestico supera il 40% del totale delle emissioni di polveri a livello regionale, ma tale contributo è anche più elevato nelle zone in cui il consumo della legna è più diffuso.-

      Secondo me supera il 50%, come ho dimostrato al punto 8, ma siccome il 50,4% supera anche il 40% vedo che sono d’accordo con me 🙂

      E qui qualcuno dovrebbe spiegarmi come si fa a definire pulito ed ecologico, secondo i criteri vigenti, un combustibile “sporchino” come la legna e i suoi derivati.

  5. donato

    Una volta un buontempone che partecipò al programma televisivo “Portobello” condotto dal compianto E. Tortora, per eliminare la nebbia in Valpadana, propose di spianare il Colle del Turchino in Liguria: si sarebbero venute a creare delle correnti d’aria che avrebbero risolto il problema una volta per tutte! 🙂
    Oggi sembra che la cosa non sia più necessaria visto che la nebbia se ne sta andando via per fatti suoi.
    .
    In merito alle cause condivido l’analisi che L. Mariani ha fatto nell’articolo segnalato da G. Guidi. In proposito già nel 2009 L. Mariani citava dati che mi portano a pensare che la nebbia in Valpadana era piuttosto latitante forse dalla metà degli anni ’80 del XX secolo: è da circa trent’anni, quindi, che la nebbia si è diradata nella valle del Po.
    Sempre dall’articolo di L. Mariani: tra il decennio 1960-1969 ed il successivo la nebbia a Milano-centro passò da 151 giorni all’anno a 136 (circa il 10% in meno) e nel decennio 1991-2000 a soli 72 giorni all’anno. In altri termini già negli anni ’90 del secolo scorso le giornate di nebbia al centro di Milano erano fortemente diminuite (il 50% in meno rispetto agli anni ’70.
    Ciò fa propendere l’ago della bilancia verso le cause indicate da L. Mariani nel suo articolo piuttosto che verso il GW (con o senza A 🙂 ) anche in considerazione del fatto che l’inquinamento atmosferico è fortemente diminuito proprio a cominciare dagli anni ’80 del 1900 con la crescita della consapevolezza da parte dell’opinione pubblica che tale inquinamento costituiva un grosso pericolo per la salute umana.
    Ciao, Donato.

  6. Mario

    Allora il riscald…… Ehm, pardon, il cambiamento climatico a qualcosa serve.
    🙂

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