Il fatto che l’acqua degli oceani stia diventando meno basica ( -0,1 unità di pH dall’era pre-industriale su di un valore di 8,2 pH) è uno degli spin-off più gettonati della discussione sui cambiamenti climatici e sulla loro presunta totale origine antropica.
Tra gli organismi che potenzialmente soffrirebbero di più questo cambiamento, ci sono senz’altro i coralli e, con essi, l’intero ecosistema delle barriere coralline. Di queste ultime, tra l’altro, abbiamo parlato recentemente in un post che si occupava delle dimensioni degli atolli delle aree tropicali, senza peraltro trovare molte conferme dell’imminente disastro. L’equazione, molto semplificata, è piuttosto intuibile: più CO2 in atmosfera, acque meno basiche (non più acide, almeno fino a quando non si dovesse scendere sotto le 7 unità di pH), coralli in sofferenza prima e estinzione poi, con tutto quello che ne potrebbe derivare.
Come tutte le equazioni, sebbene la scienza del clima che cambia (non quella del clima) vada spesso in deroga, la conferma può venire solo da adeguate verifiche, nella fattispecie misurazioni delle variazioni del pH degli ambienti corallini e del loro stato di salute. Così un gruppo di ricerca che ha recentemente pubblicato i risultati del proprio lavoro sui PNAS, ha tenuto sotto osservazione la chimica delle acque di una barriera delle Isole Bermuda per cinque anni, riscontrando nel periodo due importanti picchi di variazione in negativo del pH di ampiezza ben superiore a quelli attesi secondo gli scenari climatici futuri. In entrambi i casi, le variazioni sono state accompagnate da accelerazioni nella crescita dei coralli – che quindi non solo li hanno ben sopportati ma ne hanno giovato (anni 2010 e 2011). Non solo, proprio la crescita dei coralli pare contribuisca a far diminuire ulteriormente il pH dell’area circostante, nel contesto di un impulso alla buona salute dell’ecosistema che avrebbe origine in aumenti della disponibilità di fitoplancton a loro volta innescati da dinamiche atmosferiche e oceaniche di larga scala. Nello specifico dell’area interessata dalla ricerca, studi precedenti hanno collegato gli aumenti della produttività del fitoplancton con le fasi negative della NAO (North Atlantic Oscillation), l’indice che descrive la posizione dei centri di massa atmosferici nel Nord Atlantico.
Shifts in coral reef biogeochemistry and resulting acidification linked to offshore productivity
Per cui, non solo si sovverte l’equazione acque meno basiche – coralli ed ecosistemi associati in sofferenza, ma si collegano dinamiche della biosfera oceanica alle variazioni della massa atmosferica…che ancora nessuno ha collegato alla CO2! 😉
allora (secondo tentativo di pubblicazione 🙂 )
l’equazione di cui parli direi che ancora ben lungi dall’essere compresa, sia in un senso che nell’altro;
intanto: (cit. CORALS, Bornemann)
Calcificazione e crescita scheletrica.
La Calcificazione è quel complesso processo mediante il quale i coralli assorbono calcio dall’acqua marina
e lo trasformano in aragonite o calcite da usare nella Scheletogenesi.
La Scheletogenesi è il processo mediante il quale si forma lo scheletro calcareo. Calcificazione e scheletogenesi sono intimamente relati, ma non sono la stessa cosa e possono regredire per vari processi.
Il Carbonato di Calcio (CaCO3) è formato dai coralli in due forme primarie:
Calcite e Aragonite.
La maggior parte dei coralli duri crea il proprio scheletro in aragonite, sebbene l’aragonite può essere cambiata nel tempo in calcite mediante processi geochimici.
Di contro, la presenza di citrato, solfato e di ioni di ammonio, così come un pH basso, favoriscono la formazione di calcite invece che aragonite.
Questo può avere implicazioni nella calcificazione dei coralli in dipendenza del livello degli ioni presenti.
Al contrario, le inclusioni scheletriche e le strutture di supporto di Octocorallia e zoantidi sono formate primariamente da calcite, con occasionale presenza di aragonite.
Le conclusioni a cui giungono i ricercatori del lavoro da te menzionato, in realtà non sono una novità, ma è bene precisare che non si riferiscono a tutte le specie di corallo esistenti, ma solo alle specie che accrescono il loro scheletro sotto forma di aragonite (Porites, e tanti altri) :
già nel 2012, un altro gruppo di ricerca, nel lavoro
– http://www.nature.com/nclimate/journal/v2/n8/full/nclimate1473.html –
evidenziarono come per alcune specie di coralli, generalmente a scheletro aragonitico, risultasse una capacità di mitigare i cambiamenti ambientali, con una specie di meccanismo tampone che gli permette di continuare a crescere con gli stessi ritmi indipendentemente dalle variazioni di pH ambientale;
è quindi probabile che in molte specie di coralli, l’evoluzione di decine di milioni di anni, e la conseguente mutevolezza degli ambienti a cui si sono adattati via via nel corso delle ere, li abbia forniti nel patrimonio genetico di una innata capacità di resistenza, e di resilienza, tali da renderli in grado oggi di adattarsi all’eventuale diminuzione del pH marino;
Altri ricercatori sostengono però che questa capacità di tamponare le variazioni ambientali del pH, vada a discapito delle riserve energetiche dell’organismo, quindi alla lunga si ipotizza che il meccanismo potrebbe comunque inficiare la crescita della colonia;
D’altro canto è anche vero che un oceano più caldo (sempre se di riscaldamento in conseguenza del GW si parla), favorisce in ogni caso la crescita dei coralli;
quindi la questione come al solito è ben complicata, ancora lontana dall’essere compresa a pieno, e come sempre ricca di meccanismi di feedback ancora difficili da valutare analiticamente;
I ricercatori del lavoro del 2012 concludono in ogni caso dicendo:
“Although our results indicate that up-regulation of pH at the site of calcification provides corals with enhanced resilience to the effects of ocean acidification, the overall health of coral reef systems is still largely dependent on the compounding effects of increasing thermal stress from global warming and local environmental impacts, such as terrestrial runoff, pollution and overfishing.”
Si riconosce quindi che le condizioni locali, attività antropiche, inquinamento, pesca indiscriminata e superiore alla capacità di rigenerazione delle riserve ittiche, soprattutto se condotta con metodologie distruttive per i fondali, sono determinanti nel definire lo stato di salute degli ecosistemi corallini;
ricordo bene per altro un articolo pubblicato sul National geographic di qualche anno fa, dove si faceva un’attenta analisi di un tratto di grande barriera corallina ad Est dell’Oceania, facendo notare che, da quando in quella zona (non ricordo esattamente il nome) fu istituita una riserva marina, con il divieto di pesca, nel giro di pochi anni la barriera tornò a rifiorire splendidamente, al contrario di prima, a testimonianza che una pesca indiscriminata con tecniche per altro a strascico fu, per fortuna temporaneamente, la causa di un impoverimento drastico del reef, molto più di un ipotetico AGW e acidificazioni varie del mare…
😀