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La copertura nevosa nell’emisfero nord

di Franco Zavatti e Luigi Mariani

La Rutgers University mantiene un dataset sulla estensione della copertura nevosa nell’emisfero boreale, diviso in quattro zone geografiche, il cui link (reso disponibile inizialmente da RobertoK06 in un commento su CM) è: https://climate.rutgers.edu/snowcover/table_area.php?ui_set=1
Lo stesso URL, con ui_set=2 porta ai file numerici della copertura nevosa dell’emisfro nord (NH), dell’Eurasia (EA) e del continente nord americano in due forme: solo Nord America (NA1) e Nord America + Groenlandia (NA2).

In realtà nel sito della Rutgers gli ultimi due dataset sono indicati come “N.America” e “N.America (no Greenland)” e questo ci ha fatto pensare che il primo comprendesse la Groenlandia e il secondo no, salvo scoprire che la copertura nevosa media invernale del primo è di circa 15 milioni di km2 mentre quella del secondo è di circa 17 milioni di km2. Scomparivano in questo modo i 2 milioni di km2 che sono il contributo della Groenlandia.

Abbiamo scaricato i dati e selezionato, per ognuna delle aree geografiche, i mesi (messi direttamente a confronto, gennaio e agosto; febbraio e luglio, settembre e dicembre, scalando opportunamente la copertura estiva) e abbiamo calcolato gli spettri MEM dei due mesi di ogni selezione.
Come esempio usiamo in figura 1 l’emisfero nord (NH) e i mesi di gennaio(1) e agosto(8), che hanno la maggiore e la minore copertura nevosa.

Fig.1: Copertura nevosa del 1967 al 2019 (febbraio) di gennaio (blu) e agosto (rosso). I valori di agosto sono stati scalati aggiungendo 40•106km2. I grafici per le altre regioni o altri mesi sono nel sito di supporto. Nello spettro di agosto i valori sono stati moltiplicati per 7.

I dati di copertura nevosa
Un riassunto completo è raccolto nella figura 2 (pdf) che mostra i tre mesi invernali (DJF) e i tre mesi estivi (LAS) per NH e EA e per NA1 e NA2.

Fig.2: Confronto fra la copertura nevosa delle quattro zone geografiche e dei due periodi (inverno ed estate). Questo è il primo dei grafici per i quali si consiglia di usare il link alla versione pdf per una migliore visione.

Complessivamente, la copertura invernale delle 4 zone appare mediamente costante dal 1967 al 1995, seguita da un leggero aumento che sembra continuare attualmente, pur con ampie oscillazioni.
La copertura estiva mostra un comportamento diverso tra luglio-agosto e settembre: quella di settembre è nettamente superiore a quella di luglio e agosto, presenta maggiori oscillazioni e di fatto dimostra che settembre si inserisce meglio nel periodo autunnale che in quello estivo.
I due mesi estivi restanti hanno lo stesso comportamento generale nel tempo e nello spazio: una quasi costanza fino al 1980 e poi, dal 1981, una brusca discesa che termina nel 1982 seguita da un periodo di copertura costante fino a circa il 2007, quando luglio si differenzia da agosto, mostrando una diminuzione di quasi 1 milione di km2, di fatto allineandosi ai valori di agosto e, insieme a questi, partecipando ad una leggera salita che dura tutt’ora.
Anche in questo caso estivo, la Groenlandia contribuisce alla copertura media con ~2•106km2, mantenendo inalterata la copertura nel tempo.

Gli spettri
La figura 3 (pdf) permette di confrontare gli spettri invernali ed estivi di tutte le zone geografiche e di mettere in evidenza le differenze tra i massimi spettrali di inverno ed estate, sempre con settembre che si distingue da luglio e agosto.

Fig.3: Confronto tra gli spettri MEM di inverno (blu) ed estate (rosso) delle zone geografiche selezionate. Questo è il 2.o grafico per cui è preferibile usare la versione pdf.

Da questa figura si deduce che:

  1. la diversità degli spettri nelle diverse aree geografiche;
  2. gli spettri invernali (in blu) mostrano tutti, tranne i settembre-dicembre (indicati dalla sigla 912xx), picchi a 8 anni (debole a febbraio in Eurasia), a 6-7 anni, a 2-3 anni, di varia intensità, e un massimo a 26-30 anni con periodo e intensità più articolati, cioè di periodo diverso nelle varie zone geografiche;
  3. gli spettri di dicembre hanno struttura nettamente diversa da quelli di gennaio e febbraio, ma sono simili nelle 4 zone geografiche;
  4. gli spettri estivi (in rosso) mostrano massimi simili (ma non uguali) a quelli invernali, e più variegati: ad esempio, per agosto, 4-5 e 6 anni più un leggero accenno a 8-9 anni. Un massimo più forte è presente a 16-18 anni (ma gli spettri estivi sono stati moltiplicati per 3, 6 e 7 per una migliore visibilità). Per luglio il massimo principale è posizionato attorno a 9.5 anni ed è seguito da uno a 20-22 anni;
  5. gli spettri di settembre si presentano ancora diversi da quelli estivi, con massimi a 3, 5, 8 anni e un largo picco a 20-22 anni (ma non negli spettri americani NA1 e NA2)

Cercando di raccogliere le idee nella situazione variegata degli spettri, crediamo si possa dire che le serie invernali emisferica ed euroasiatica siano caratterizzate dai massimi spettrali a 6 e 8 anni, con una possibile presenza (non sempre ben definita) a circa 30 anni, come da tabella 1

Tabella 1: Massimi spettrali invernali (in anni). In prima colonna l’area geografica e i mesi. In rosso quando gli spettri appaiono diversi da quelli degli altri mesi. Il simbolo “~” indica molta incertezza nell’identificazione dei massimi, soprattuto a causa della loro bassa potenza.

Winter 4 6 8 26 30
NH 1 x x x
EA 1 x x x
NA1 1 x x x
NA2 1 x x x
NH 2 x x x
EA 2 x x x
NA1 2 x x x
NA2 2 x x x
Winter 4 6 8 10
NH 12 ~ ~ ~
EA 12 ~ ~
NA1 12 ~ ~
NA1 12 ~ ~
NA2 12 ~ ~

Le serie estive, per agosto, mostrano picchi a 4 e 6 e a 17-18 anni mentre per luglio è prevalente il picco a 9.5 anni, come si vede in tabella 2.

Tabella 2: Massimi spettrali estivi. In prima colonna area geografica e mese; in rosso settembre che non può essere considerato mese estivo. L’ultima colonna riporta il fattore per cui sono stati moltiplicati gli spettri estivi.

Summer 4 6 8 9.5 17 18 20 *
NH 7 x x 3
EA 7 x 3
NA1 7 x ~x
NA2 7 x x 3
NH 8 x x x 7
EA 8 x x x
NA1 8 x x x 7
NA2 8 x x x 6
NH 9 x x x x
EA 9 x x x x x
NA1 9 x x x
NA2 9 x x x

La figura 4 (pdf) raggruppa i dati invernali ed estivi, per zone geografiche e mette in evidenza la maggiore dispersione nella zona euroasiatica che nelle zone americane e il fatto che settembre è diverso e va trattato a parte, rispetto agli altri due mesi estivi.

Fig.4: Serie invernali ed estive, separate, per le diverse zone geografiche. Da notare come la maggiore variabilità dell’Eurasia si trasmette alle serie emisferiche e come settembre si discosti nettamente da luglio e agosto. Questa è la terza figura in cui è preferibile usare la versione pdf per una migliore visione.

Conclusioni
Da questo lavoro si deduce che la copertura nevosa invernale dell’emisfero boreale aumenta, in media, dal 1995 circa, supportata dalla crescita dell’Eurasia e dalla costanza (o forse da una vaga, debole crescita) della copertura del continente nord americano, con o senza il contributo della Groenlandia.

Nei due mesi estivi di luglio e agosto si osserva una diminuzione praticamente costante (gli accenni di risalita dal 2010 andrebbero analizzati con attenzione, come non è stato fatto qui).
Il mese di settembre, in tutte le aree geografiche, mostra un periodo costante iniziale, seguito da un netto aumento dal 2010.
Dalle tabelle, gli spettri mostrano nette caratterizzazioni e importanti incertezze per dicembre.

Qualche giorno dopo la fine dei calcoli per questo post, su WUWT è uscita la riproduzione di un articolo scientifico che confronta gli stessi dati usati qui (organizzati in medie annuali e stagionali) con tutti i modelli CMIP5 disponibili. Consigliamo la lettura di questo articolo e riportiamo alcune righe dell’abstract, tradotte: “I modelli climatici spiegano male gli andamenti osservati. Mentre i modelli suggeriscono che la copertura nevosa dovrebbe decrescere in modo stazionario nelle quattro stagioni, soltanto primavera ed estate hanno mostrato una decrescita di lungo termine, e l’aspetto della decrescita osservata è abbastanza differente da quanto previsto dai modelli”. Al riguardo non si può fare a meno di rilevare che la copertura neviosa è una variabile complessa in quanto partecipa non solo della complessità delle precipitazioni (si pensi ai contributi al fenomeno derivanti da processi attivi su una vastissima gamma di scale e che i modelli faticano non poco a descrivere) ma anche della complessità insita nei diversi termini del bilancio energetico di superficie che sono coinvolti nell’evoluzione del manto nevoso al suolo.

Il grafico e i dati relativi a questo post si trovano nel sito di supporto qui.
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Published inAttualità

5 Comments

  1. robertok06

    Giusto per ribadire:

    “Northern Hemisphere Snow-Cover Trends (1967–2018): A Comparison between Climate Models and Observations”, Geosciences 9 2019 135

    https://t.co/ePMW70WT9f

    … come se la cavano i modelli rispetto alle misure?… che quando dico e scrivo che sono “farlocchi”, i modellini, mi dicono che offendo il lavoro di tanti seri professionisti del clima… 🙂

    “Abstract:
    Observed changes in Northern Hemisphere snow cover from satellite records were compared to those predicted by all available Coupled Model Intercomparison Project Phase 5 (“CMIP5”) climate models over the duration of the satellite’s records, i.e., 1967–2018.
    A total of 196 climate model runs were analyzed (taken from 24 climate models).

    The climate models were found to poorly explain the observed trends.

    While the models suggest snow cover should have steadily decreased for all four seasons, only spring and summer exhibited a long-term decrease, and the pattern of the observed decreases for these seasons was quite different from the modelled predictions.”

    Saluti.

  2. @gferrari
    ha ragione lei: quel grafico è la prova del contrario e cioè che temperatura e CO2 sono semmai legate al contrario, nel senso che prima cresce la temperatura e poi la CO2. In realtà le cose credo siano un po’ più complesse, con sufficienti “scambi di ruolo” da far pensare che l’una e l’altra si comportino da separati in casa e facciano ognuno gli affari propri.
    Le consiglio la lettura di un articolo di Javier sul sito di Judith Curry

    https://judithcurry.com/2017/02/17/nature-unbound-ii-the-dansgaard-oeschger-cycle/#more-22832

    in genere è molto chiaro e dettagliato.
    Io ho scritto tre post sui periodi glaciali e interglaciali

    http://www.climatemonitor.it/?p=43843

    http://www.climatemonitor.it/?p=43968

    http://www.climatemonitor.it/?p=43999

    che non trattano la relazione CO2 temperatura ma forse servono per un quadro generale, anche guardando i grafici sul sito di supporto.

    Devo dire che il grafico che lei ha postato non è una visione tanto frequente sui libri di scuola, anche se qui viene usato per dire il contrario di quanto si vede. Sarebbe importante far notare agli studenti (anche se notoriamente refrattari, come ci ha detto in altre occasioni) cosa mostra quel grafico, non cosa dicono gli autori, forse SENZA far notare che mentono sapendo di mentire. I miei migliori auguri. Franco

  3. gferrari

    Vi riporto uno screenshot del libro di testo di Scienze della Terra adottato dalla mia scuola, dal titolo Scienze della Terra – Volume Unico – la geodinamica endogena, di Elvidio Lupia Palmieri e Maurizio Parotto, ed. Zanichelli.
    Il grafico che ho allegato dovrebbe essere la prova, secondo gli autori, della stretta correlazione tra aumento di anidride carbonica e aumento di temperatura, negli ultimi 650.000 anni.
    Non è indicata la fonte del grafico; io l’ho guardato attentamente, e per me è palese che, se fosse giusto, la relazione tra anidride carbonica e aumento di temperatura esiste, ma è AL CONTRARIO di quello che vogliono suggerire gli stessi autori; cioè per me è evidente che in molte zone vi è prima un aumento di temperatura (in rosso) ed in seguito un aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera (in grigio); oppure, ad una discesa marcata della temperatura non fa eco, se non in ritardo, una marcata discesa della CO2; in altre zone sembra addirittura che ad un innalzamento della temperatura corrisponda una diminuzione di CO2.
    Gradirei sapere un vostro parere su questo grafico. Accenno solo ad un lavoro di Scafetta (dal titolo I cambiamenti Climatici, pubblicato su 21°Secolo Scienza e Tecnologia n.4-2017) in cui avevo letto:”Durante gli ultimi 100,000 anni, la variazione della temperatura globale ha preceduto la variazione di CO2 [6,7]. Durante l’Olocene, la temperatura globale è anche diminuita di circa 1°C una volta raggiunto quello che è conosciuto come il Massimo dell’Olocene circa 8000 anni fa. Tuttavia, la concentrazione atmosferica di CO2 è aumentata durante lo stesso periodo e i modelli climatici hanno previsto un riscaldamento di circa 1°C contraddicendo le osservazioni durante lo stesso periodo [8]: si vedano le Figure 4 e 5.”
    Vorrei chiedervi inoltre se ha senso ipotizzare che questa eventuale correlazione inversa (cioè prima aumenta la temperatura e poi la CO2, oppure prima diminuisce la temperatura e poi segue una diminuzione di CO2) dipenda dalla diversa solubilità dellanidride carbonica negli oceani; e quindi un aumento di temperatura (dovuto principalmente ad altri fattori, come la variabilità solare), provochi un aumento di CO2 rilasciata dal mare che si accumula nell’atmosfera; o se esistono eventualmente altre spiegazioni.
    Grazie

    Immagine allegata

  4. luca rocca

    Buongiorno.
    Avrei una domanda da porle. mi ricordo di aver letto che le precipitazioni nevose avvengono in una limitata gamma di temperature intorno allo zero . Un riscaldamento dell’ atmosfera alle basse latitudini dovrebbe aumentare le precipitazioni mentre alle alte latitudini dovrebbe ridurle.
    Potrebbe essere interessante valutare le differenze anziché sull’ intero emisfero su almeno due parti rispetto ad una latitudine media

    • Sì, sarebbe interessante, ma i dati che ho sono quelli pubblicati e non so dove trovarne altri per seguire il suo suggerimento.
      C’è anche da dire che la copertura nevosa è una “bestia” strana perché la differenza tra neve e pioggia in certe zone dipende da variazioni piccole delle condizioni meteo. Oltre all’ovvia considerazione che, ad esempio, i modelli non seguono (e non potrebbero) fluttuazioni spazio-temporali così piccole, c’è anche il fatto che queste condizioni di variazioni minime provocherebbe grandi fluttuazioni su brevi periodi di tempo rendendo incerta la misura. Credo sia per questo che si preferisce un’area maggiore (Nord America, Eurasia), in pratica misurando zone diverse in longitudine e non in latitudine. Ma non saprei dirle di più … Franco

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