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Agli amici i sondaggi si fanno, ai nemici si interpretano

Un paio di mesi fa sono stati pubblicati i risultati di un sondaggio fatto negli Stati Uniti circa l’atteggiamento della popolazione nei confronti di tutta la problematica dei cambiamenti climatici. Su CM abbiamo riportato i risultati di questo sondaggio con un breve commento.

Venerdì scorso è uscito con L’espresso un articolo a firma di Mark Hertsgaard, un giornalista indipendente molto quotato che a quanto sembra ha un’idea molto precisa riguardo l’intera querelle del clima. Quelli che sostengono la teoria AGW sono i buoni e quelli che la obbiettano sono i cattivi. L’ultima malefatta di questi ultimi pare siano stati proprio questi sondaggi, che la Gallup avrebbe intenzionalmente organizzato per mettere in risalto qualcosa che in realtà non esiste, seguendo una tecnica a suo dire molto in voga tra chi è uso indagare l’orientamento dei cittadini per mezzo dei sondaggi.

Il sondaggio chiariva che l’opinione pubblica americana comincia ad avere più di qualche dubbio circa il fatto che ci si trovi di fronte ad un’emergenza planetaria. Beh, certo, per chi la causa dell’emergenza l’ha sposata queste non sono buone notizie. Per cui, dagli all’untore, nella fattispecie la Gallup, rea di aver posto le domande in modo da ottenere in risposta quel che più gli aggrada. Io non so se la Gallup sia parte in causa, o se agisca in nome e per conto di qualcuno, quel che so è che se si digita “climate change” nel search del loro sito, di sondaggi che riguardano questo argomento ce ne sono moltissimi e non mi sembra di carpire alcun particolare orientamento. Non capisco perché, se Hertsgaard ne sa di più (cosa probabile), non abbia elevato la stesa critica quando altri sondaggi mettevano in risalto il rischio del clima che cambia, piuttosto che magari fargli un po’ d’ombra come accaduto nell’ultimo caso. Ma quelle erano buone notizie, per cui inutile indagare la tecnica con cui erano state poste le domande no?

O magari, tanta attenzione alla deontologia sarebbe potuta uscire dopo qualche roboante e mistica arringa di Al Gore, o dopo i risibili tentativi di minimizzare lo scivolone di Pachauri sui ghiacciai dell’Himalaya (qualcuno ricorda che disse voodoo science rivolto a coloro che poi si è scoperto che avevano ragione?). Già, ma anche quelle erano buone notizie.

Trovo piuttosto furbo criticare le opinioni altrui denunciando un uso distorto della comunicazione e poi distorcerla a propria volta, ma non si scrivono centinaia di articoli su testate così importanti se non si ha almeno un po’ di pelo sullo stomaco. Questo quindi non è un problema. Il problema è un altro e sta nella chiusura dell’articolo di Herstgaard: questo uso distorto dell’informazione, secondo lui, avrebbe “regalato una vittoria immeritata ai negazionisti del cambiamento climatico, una vittoria che il nostro pianeta non può permettersi”. Nè, aggiungo io, può permetterselo il mondo dei buoni, autoelettisi tali ormai da parecchio (troppo) tempo.

Questa gente, che di clima non sa, ma che sa di avere molto ascendente, si sente in guerra e combatte, non per salvare il pianeta, che se ne infischia di loro, della Gallup, di Al Gore, di Pachauri e pure di noi, ma per mantenere il ruolo dei buoni, anche quando la sceneggiatura del film è cambiata da un pezzo.

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Published inIn breve

2 Comments

  1. Alvaro de Orleans-B.

    Ringrazio l’autore per questo articolo a mio avviso molto importante, e mi permetto di commentarlo.

    1. In tutta la faccenda dell’AGW mi sembra vi siano due piani principali di discussione,:

    — a. La scienza: la superficie del nostro pianeta si sta scaldando o no? E se si, lo è in misura determinante per cause umane?

    — b. La politica: come gestire il problema ancor prima di vederne provati gli effetti? In che misura “machiavellizzare” un tema scientifico, se necessario anche manipolando l’opinione pubblica onde farne accettare precauzionalmente delle misure mitiganti coercitive?

    Come vedremo, mi fa molta più paura, ma non per il clima, il punto b. — procediamo con ordine.

    Su a. — la scienza — sappiamo per certo che la CO2 sta crescendo. Sappiamo anche che la temperatura media è cresciuta nell’ultimo secolo, forse anche nelle ultime decadi, anche se, per toglierci qualche dubbio, cominciamo, per esempio, a verificare ex-novo l’intero set di dati termometrici.

    Abbiamo anche molte teorie sulla correlazione CO2 – temperatura media planetaria, ed abbiamo sviluppato molti modelli che ipotizzano le evoluzioni future del clima a seconda delle teorie ed ipotesi applicate.

    Inoltre, abbiamo anche molti altri modelli che aiutano a proiettare le conseguenze future di un aumento di temperatura su parametri ambientali importanti — impatti biosferici, livello dei mari, ecc.

    Per ultimo, ingenti risorse sono già a disposizione per la ricerca su questi temi — fin qui, tutto bene.

    Su b. — la politica — la situazione mi sembra assai diversa.

    Sappiamo per certo che vi è un notevole allineamento di interessi tra “i consulenti” — l’establishment scientifico che studia i fatti climatici e proietta le evoluzioni future — ed i governi di alcuni paesi avanzati, le cui finanze sono estremamente compromesse, e per i quali una “tassa salvapianeta” rappresenta un modo politicamente dolce e bipartisan per riequilibrare i conti.

    Sappiamo anche certamente, da una oggettiva quanto fortuita lettura dei messaggi trafugati dal server della CRU, che almeno parte dell’establishment climatologico tendeva con ogni mezzo a non perdere il controllo del “mercato dei finanziamenti” per la ricerca sul clima –adottando comportamenti che, se fossero avvenuti nel mondo industriale, sarebbero stati velocemente sanzionati dalle autorità anti-trust nazionali o, in Europa, comunitarie.

    Questo, come chiunque può riscontrare leggendo quei messaggi, avveniva tessendo una rete chiusa “di mutua ammirazione” nell’ambito delle pubblicazioni scientifiche, screditando energicamente le opinioni divergenti, e rendendo inaccessibili per lungo tempo (a volte per sempre) i dati primari che avrebbero permesso una verifica scientifica in senso classico.

    Se poi tale comportamento fosse derivato da genuina disperazione dovuta ad un senso di urgenza in base ai risultati, o dovuto ad interessi micro-politici dei leaders dei singoli dipartimenti di ricerca — o ambedue — non sono in grado di valutarlo.

    Ma fin qui, almeno per quanto mi concerne, poco male — déjà vu altrove, e generalmente col tempo queste situazioni, dal flogiston a Lisenko, si autocorreggono — lamento solo, e molto, il malessere di molti ricercatori seri, costretti a vivere in ambienti temporaneamente, come dire, un pò spiacevoli.

    2. Tuttavia credo che l’aspetto b. — la politica — sia, per me, per noi tutti, molto più “tecnicamente” pericoloso di quanto appaia a prima vista — vediamo perché.

    Ricordiamo come in un paio di generazioni siamo passati da meno di 2 a oltre 6 miliardi di persone — per ogni persona che esisteva quando sono nato oggi ve ne sono altre due in più… e vivono tutti comparativamente meglio di prima, e molto.

    Si tratta di un “miracolo” storico unico, per il quale ciascuno saprà dare la sua spiegazione preferita.

    La mia è molto prosaica: da circa tre generazioni abbiamo messo in moto un ciclo sempre più efficace, basato sulla ricerca e l’innovazione, che in parole molto povere funziona così:

    — la ricerca è l’uso dei soldi per creare nuova conoscenza, e

    — l’innovazione è l’uso di questa conoscenza per creare nuovi soldi.

    Adesso, mentre la ricerca è un processo relativamente privo di rischi, quello dell’innovazione esige un protagonista che decide di rischiare, in base a tutte le informazioni in suo possesso, per intraprendere, o migliorare una attività economica e creare così un surplus economico a sua volta disponibile per ulteriore ricerca, che permetterà ulteriore innovazione, ecc.

    Qui la parola chiave, non tanto ovvia, è: “rischio”.

    La gestione efficace di questo rischio, che da un secolo ci protegge da un eccessivo spreco di risorse spese per troppe innovazioni sbagliate, lo visualizzo, semplificandlo all’estremo, come un silenzioso e sparso esercito di ragionieri e contabili che preparano studi di fattibilità, budgets, flussi di cassa, analisi rischi/benefici, proposte di investimento — tutto un “back office” che compila il “due diligence” che poi permette all’imprenditore, alla piccola, o alla grande società di decidere se innovare, investendo o no in una nuova opportunità la conoscenza ottenuta tramite una ricerca.

    Torniamo al punto b. — la politica: valutando il rischio inerente ai risultati di una ricerca, in sede industriale ho spesso sentito chiedere “avranno ragione?”, ma mai, proprio mai, ricordo un “ma… staranno dicendo la verità?”

    Se, come routine, dovessimo cominciare a fare anche un check addizionale sulla integrità dei ricercatori prima di poter contemplare industrialmente l’utilizzo dei loro risultati, vi lascio immaginare cosa significherebbe per la efficacia del ciclo ricerca innovazione.

    O, detto con altre parole, se il comportamento etico di una parte dell’establishment climatologico infettasse altre comunità di ricercatori in altri campi, penso che dovremmo contemplare un futuro, per ognuno di noi, molto meno roseo.

    Perdonatemi per un commento la cui lunghezza costituisce un vero abuso di ospitalità… ma l’articolo di Guido Guidi è un potente invito a meditare su di un rischio forse ben più grande di quello climatico.

    • duepassi

      Caro Alvaro de Orleans-B., è proprio la consapevolezza di questo rischio che ci spinge a impegnarci perché prevalga la Scienza che guarda ai fatti.

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