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Tropicalizzazione, desertificazione, estremizzazione e meridionalizzazione – Parte II

Nella prima parte di questo post ci siamo occupati di tropicalizzazione, di che cosa si percepisce comunemente con questo parolone, di quale sia il probabile punto di vista degli iniziati e se la realtà si avvicini a ciò che è verosimile. Nella seconda parte ci occupiamo di:

Desertificazione

Questa è una delle parole ad effetto dirompente che alcuni, forse i soliti e questa volta a livello internazionale, hanno scelto per stuzzicare l’immaginario comune: l’azione dell’uomo che rende deserto ciò che prima era fertile; dune di sabbia dove prima scorrevano fiumi di latte e miele; il paradiso trasformato in inferno; insomma, la fine del mondo o poco ci manca.
La parola è talmente entrata nell’uso comune, anche e sopratutto tra i sapienti, che se provi a rifiutare il suo utilizzo, favorendo termini più adatti, sei visto come o un eretico senza seguito o come un semplice ignorante.
Se da una parte certe pratiche di uso dei suoli in zone semi-aride possono effettivamente distruggere le barriere naturali di vegetazione che confinano i deserti, favorendone l’espansione (o “desertizzazione”), la qual cosa avviene ed è avvenuta anche per processi naturali, è anche vero che, quando si viene a parlare di desertificazione in Italia, la cosa assume aspetti quasi comici. Da quando sono cominciate le campagne martellanti, infatti, quelle regioni meridionali che già vent’anni fa erano destinate al deserto, sono diventate più piovose, in barba alle previsioni dei catastrofisti e dei modelli climatici, che al momento e in questo caso mi pare che non servono a molto (vedi figura 5.6 del rapporto dell’ISPRA, riportata qui sotto per comodità).

Quando poi la siccità si è fatta sentire nell’ultimo decennio anche nelle regioni settentrionali, mi riferisco nello specifico all’Emilia Romagna nel 2007 e dintorni, anche da queste parti s’è fatto un gran parlare di “siccità e desertificazione“. Nella migliore tradizione di Madre Natura, che ama divertirsi nel prendersi gioco di noi, piccoli esseri, negli ultimi anni anche le regioni settentrionali hanno dovuto affrontare piuttosto i disagi dovuti a nevicate invernali misurate nell’ordine della decina di metri sulle Alpi e a precipitazioni anche troppo generose.

Torniamo al Meridione e vediamo come ci si occupa del problema.

In questo sito della Regione Sicilia è presente una mappa della vulnerabilità dei suoli alla desertificazione:

Appena ho visto questa mappa sono saltato sulla sedia. Così come ci ricordano, la desertificazione è definita come un “processo che porta ad una riduzione irreversibile della capacità del suolo di produrre risorse e servizi (FAO-UNEP-UNESCO, 1979)…”.

Prima di porre la vostra attenzione sulle aree rosse, guardate in che categoria è finita l’area dell’Etna, in quella a rischio medio-alto. Se qualcuno di voi non conoscesse quella zona vulcanica potrebbe anche ritenere la cosa plausibile, ma per chi vive da quelle parti, come gli autori del rapporto, pensare all’Etna come a un territorio a rischio di desertificazione, be’, preferisco sospendere il giudizio.

Proprio quel vulcano c’insegna che dopo un disastro massimo, ad esempio una colata di materiale ad oltre 1000 gradi di temperatura, la vita lussureggiante riesce ad avere il sopravvento. In molte di quelle zone, oltretutto, cade in media fino ad un metro di pioggia l’anno, anche violenta in molti casi, ma vi posso assicurare che il deserto è quanto di più lontano ci possa essere a livello visivo, se non andando davvero in alto e vicino alle bocche eruttive.

Per quanto riguarda le zone rosse, alcune di queste sono più che altro legate a zone a forte pendenza e con rocce affioranti, che non hanno mai prodotto un granché. E nei miei decenni di vita vissuta ne ho viste di queste aree abbastanza brulle diventare verdi una volta che si è applicata quella “complicatissima” tecnica di recupero dei suoli nota come piantare gli alberi. Nel caso della Sicilia, per motivi climatici, l’afforestazione consiste nella messa a dimora di essenze resistenti alla lunga siccità estiva, quali pini d’Aleppo, domestici o cipressi. E’ anche vero che alcune zone boschive sono state devastate dagli incendi, ma è anche vero che le stesse tornano a riempirsi di alberi, per via spontanea, grazie alla caratteristica di quelle essenze, che hanno nel fuoco una parte fondamentale del loro ciclo.
Tutto questo discorso mi serve per dire che il metodo usato per ricavare quella della Sicilia e altrove ha grossi problemi pratici, anche perché gli unici studi che andrebbero fatti sono quelli di valutazione diretta, cioè misura, della fertilità del suolo (che, d’inciso, nelle zone di mia conoscenza è ottima come sempre). Inoltre, se piove a sufficienza, tutti i terreni possono essere messi a produzione di biomassa nel giro di una generazione al più. Ecco che la definizione voluta dai sapienti nel 1979, che parla di irreversibilità del processo, non è applicabile alla Sicilia e penso neanche al resto dell’Italia. Localmente potranno esserci problemi di degrado, di inaridimento, ma ostinarsi a parlare di desertificazione è ridicolo.

Questo non vuol dire che non ci siano stati momenti di grave crisi (ad esempio nel 2001), né che non se ne avranno di nuovi. Ma da qui al deserto c’è di mezzo il mare (Mediterraneo) e parlare di aridità o inaridimento, piuttosto che di desertificazione, mi pare il modo giusto per affrontare il problema. Il termine aridità, infatti, oltre a collegarsi a parziale scarsezza di pioggia, può benissimo legarsi al concetto di degrado o iper-sfruttamento che rende un suolo meno produttivo, appunto più arido. Mettiamo al bando la desertificazione!

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Published inAmbienteAttualitàNews

10 Comments

  1. Grazie a tutti ancora per gli “input”.

    Il problema portato in evidenza da Guido, le ambiguità generate dall’uso di termini tecnici con il vasto pubblico, è ben conosciuto e andrebbe sempre tenuto in conto.
    E questo è solo un aspetto di quello di cui ho cercato di parlare qui.
    In effetti e soprattutto, la mia critica è rivolta agli esperti.

    Luigi, per il quale nutro una stima immutata e immutabile, oltre che una simpatia viscerale, avendolo conosciuto di persona, è, a mio modestissimo avviso, un grande esperto di questi e tanti altri temi.

    Il fine del mio post non è stato di cercare di ridurre il concetto ad “espediente a fini catastrofistici”.
    Questo è un aspetto presente ma, come dicevo, m’interessa capire perché gli esperti abbiano usato la radice “deserto”, per indicare qualcosa che non ha niente a che fare col deserto.

    Il fatto è, Luigi, che il calanco è un calanco, il deserto è un deserto, pur avendo in comune la scarsezza produttiva; un terreno inquinato da qualche schifezza è un terreno inquinato, un deserto è un deserto; un’area asfaltata è un’area asfaltata, un deserto è un deserto.
    Sono fenomeni o processi che non hanno niente in comune nelle cause per cui non vedo il motivo per accomunarli nella definizione.
    Poi ci sono processi di degrado in clima secco che possono portare al deserto con tutti i canoni previsti, ma lasciamo da parte il resto e l’Italia, almeno finché la pioggia non scenderà sotto una certa soglia.
    Potrebbe non piacere il termine inaridimento, anche se adesso mi sembra il più adatto perché arido non vuol dire solo “senza acqua”, tutt’altro.

    Io non sono contro i termini tecnici, anche se vanno usati con cautela come detto, ma visto l’errore alla radice e il cattivo uso, non avrei nessuna remora a cancellarne l’esistenza.
    Tanto lo so che non succederà mai, ma per adesso mi pare che l’unica giustificazione per il suo mantenimento sia di abitudine affettiva, quando non d’intenzione d’allarmare (non certo qui).

    • Luigi Mariani

      Come radici ideali del termine “desertificazione” ci metterei:

      1. quel fenomeno unico, con caratteri di vera catastrofe, che fu la dust-bowl degli anni 30 negli Usa. In quel caso pratiche colturali non idonee ed una serie di annate siccitose che sono a tutt’oggi un unicum mai più superato negli Usa, portarono alla perdita di superfici enormi che vennero riportate all’uso agricolo solo con grande sacrifico (consiglio di cercare in rete le immagini per rendersi conto dello sconquasso).

      2. il problema della perdita di suolo come assillo costante per gli agronomi: 1.4 miliardi di ettari di arativi servono oggi per sfamare 6.7 miliardi di abitanti, il che vuol dire che ognuno di noi mangia con il prodotto di meno di 1/4 di ettaro.

      Come ulteriore elemento di riflessione segnalo che recenti studi del professor Ortolani (ordinario di Geologia Napoli) hanno messo in luce in diversi areali del Sud Italia la presenza di paleodune che l’autore ha datato al Medioevo, fase caldo-arida che portò a desertificazione estesa. Ortolani fra l’altro attribuisce a tale fase arida la responsabilità (almeno parziale) della costruzione di centri abitati in montagna avvenuta in molte parti d’Italia durate il medioevo (le aree montane sono più ricche d’acqua).

  2. luigi mariani

    Convengo con quanto scrive Guido Botteri: esiste un problema di terminologie, che se usate in ambito tecnico professionale funzionano benissimo mentre se volgarizzate in modo non corretto causano disastri. E’ questo il caso del termine ciclone: il grande Andrea Baroni durante un corso ci raccontò un aneddoto su quella volta che gli scappò detto in TV la parola “ciclone” per designare un comunissimo sistema frontale delle medie latitudini (in termini tecnici: ciclone extratropicale); ne uscì un tale pandemonio che mai e poi mai, ci disse, avrebbe di nuovo usato tale termine con un pubblico di non addetti ai lavori.

    Circa la considerazione di Tore Cocco, in effetti esiste il tema delle successioni ecologiche e da questo punto di vista il deserto è un ecosistema complesso, in perfetto equilibrio con il clima che l’ha generato e popolato di specie animali e vegetali caratteristiche e con adattamenti meravigliosi (mi è capitato di trovarmi nel Negev a primavera e di vedere splendide fioriture dopo che era piovuta la pochissima acqua che da quelle parti cade).
    Desertificazione invece (e qui ripeto in parte quanto già scritto prima) non è da leggersi solo come inaridimento. Può esserci infatti anche molta acqua in un suolo desertificato ma altre condizioni (es. l’accumulo di sostanze tossiche o di cloruro di sodio o un’erosione persistente) inibiscono la crescita della vegetazione.

    L’esempio più lampante di ambiti desertificati nel Nord Italia è dato dai calanchi appenninici (reperibili dalla Lombardia alla Sicilia) che si sviluppano su terreni argillosi una volta che l’asportazione della copertura vegetale (tipicamente il bosco) abbia messo a nudo il suolo esponendolo all’erosione dovuta alla pioggia e all’alternanza gelo-disgelo. In tal modo si generano forme erosive imponenti che molto spesso non si rimarginano più (abbiamo calanchi ancor oggi attivi e noti fin dal medioevo). Per avere un’idea visiva dei calanchi basta cercare in rete.
    Concordo anche con il fatto, indicato da Paolo, che occorra fare delle verifiche in campo per validare quanto i modelli ci indicano (mai fidarsi dei modelli!).

    Ritengo infine necessario spiegarvi che per me quello della desertificazione è tema sensibile perché mi occupo di questa materia dal 1984 (quando partecipai ad un corso sull’argomento a Erice, nell’ambito della scuola di Meteorologia del Mediterraneo) mentre più recentemente ho avuto la ventura di partecipare al progetto internazionale MEDALUS (Mediterranean Desertification and Land Use) e, come revisore, alla stesura del capitolo “Agrometeorological aspects of desertification” della Guide to agrometeorological practices del WMO (WMO n. 134), che trovate all’indirizzo http://www.wmo.int/pages/prog/wcp/agm/gamp/documents/chap10-draft.pdf e che consiglierei gli interessati di leggere per acquisire dimestichezza con i concetti di cui si è qui discusso.

    Preciso che non riporto queste vicende personali per vanagloria ma per ricordare che in queste attività ho conosciuto molti colleghi (agronomi, pedologi, climatologi, agrometeorologi, botanici, ecc.) che hanno trattato il tema della desertificazione con competenza e correttezza; in particolare ci tengo a citarne uno, il professor John Thornes, del Kings College di Londra, che è mancato alcuni anni fa e che ricordo con particolare affetto.

    Per questo insieme di ragioni professionali e umane ritengo non corretto ridurre il concetto di “desertificazione” ad un “espediente a fini catastrofistici”, fermo restando che ognuno è alla fine libero di pensarla come vuole.

  3. Guido Botteri

    Se posso aggiungere il mio commento di uomo della strada [ ricordate la canzone “sono un ragazzo di strada” ? 🙂 ], credo, in tutta umiltà, che ci siano due piani da considerare.
    Uno è il discorso tra tecnici, dove si possono (e devono) usare i termini tecnici e gergali del caso, ma credo che sia diverso quando si va a far comunicazione di massa, come quando venne Lord Nicholas Stern of Brentford in RAI (senza par condicio, ovviamente) a dirci che l’Italia si stava desertificando, perché la massa, ignorante dei termini gergali del caso, capisce tutt’altra cosa.
    Del resto non tutti sanno che in ferrovia il treno si chiama “materiale” e NON “treno”, e che esistono migliaia e migliaia di termini gergali in ogni ambito, che il pubblico non può conoscere, e che non può essere tenuto a conoscere.
    Per questo, quando ci si rivolge al pubblico bisognerebbe parlare in un linguaggio che non generi ambiguità e fraintendimenti.
    Per esempio, il pubblico considera la parola “anomalia” qualcosa che descriva eventi anomali, e cioè rari e straordinari, mentre correggetemi se sbaglio, in meteorologia le anomalie sono all’ordine del giorno, e si contano normalmente anche molte anomalie contemporanee di temperatura, di umidità e via dicendo.
    Un messaggio arrivato in maniera fuorviante al pubblico può determinare gravi fraintendimenti, con deprecabili conseguenze pratiche.
    Secondo me.

  4. Tore Cocco

    Cari Luigi e Paolo,

    vorrei un pò mediare tra le vostre posizioni.
    Ricordiamo che uno dei conceti cardine dell’ecologia è la successione ecologica; un’isola vulcanica di pura roccia, se lasciata a se stessa viene colonizzata dai licheni e poi dai muschi, che attaccano chimicamente le rocce disgregandole e dando origine alla prima fase del processo di pedogenesi, poi in una seconda fase vengono le varie piante erbacee che amplificano il lavoro e iniziano a produrre anche il primo humus, ed il processo prosegue fino al climax adatto per la località geografica ed il tipo di colonizzazione vegetale che l’isola puo subire.
    Questo rapidissimo sunto non certo per voi ma per chi ci legge, è per ricordare che forse è utile specificare due differenti punti di vista, quello naturale e quello antropico. Nle primo punto di vista non posso non convenire con Paolo che se si prendono aree come quelle delle nostre terre, che se a seguito degli usi umani sono inaridite, una volta abbandonate a se stesse, non potranno far altro che evolvere con una classica successione ecologica, verso un ambiente naturale indistinguibile dalle aree limitrofe (ricordiamoci che intere citta dell’antica roma con strade e case ora sono al di sotto di terreni agrari o boschivi), in questo senso ha ragione Paolo, quando dice che non potranno mai evolvere verso il deserto. Da un altro punto di vista più prettamente antropico ha ragione Luigi, dicendo che un irrazionale uso del suolo conduce inevitabilmente verso una magiore aridità dello stesso, con ridotte capacità produttive, a tal riguardo sono secoli o meglio millenni che nella nostra agricoltura si pratica la famosa rotazione delle colture e la pratica del maggese.
    Un’altra questione che divide i vostri punti di vista è l’ordine temporale; come giustamente dice Luigi se guardiamo al calendario in maniera fiscale o meglio umana, allora si che possiamo considerare in un certo senso un terreno desertificato se in un qualche modo ne abiamo alterato le normali condizioni di fertilità. Se invece consideriamo le scale temporali della natura, allora anche se asfaltassimo l’intera sicilia per desertificarla, dopo qualche secolo la ritroveremmo ricca di vegetazione come prima, proprio perchè un deserto vero e proprio in un’isola nel mezzo del mediterraneo non potrebbe mai esservi.
    Un caro saluto

    • Grazie Tore per il tuo contributo.
      A dire il vero, non mi trovo in disaccordo con niente che tu attribuisci a me nè, tantomeno, a Luigi.

      Il mio disaccordo è, ad esempio, con quanto fatto dai tecnici siciliani che, invece di fare la cosa più sensata e, cioè, andare a MISURARE il livello di fertilità in varie zone dell’isola, si sono limitati ad usare un po’ dati e di modelli nei loro uffici, dimenticando di verificare i risultati sul campo. Ci vuole anche la parte teorica, ovvio, ma andare a fare un po’ di misure in loco, noo? Siamo in Sicilia, tutto sommato, mica in mezzo alla foresta amazzonica.
      I problemi d’inaridimento ci possono essere, vanno studiati e affrontati e, con l’ottimismo che mi contraddistingue, anche superati.
      L’uomo produce danni spesso, ma il suo ingegno è forse superiore. Pensa alla zona di Pachino, per esempio, zona abbastanza arida nella quale, usando l’acqua salmastra del sottosuolo, sono riusciti a ricavarne una fortuna con i famosi pomodorini. Se questo poi porterà a disastri successivi non lo so, ma per questo abbiamo studiosi che possono dare una mano.
      Però, insomma, lasciamo il deserto dove compete.
      Se qualcuno poi vuole sapere cosa succederà in un meridione d’Italia dove dovesse dimezzarsi la piovosità, che lo faccia pure.
      Al momento mi pare uno sperpero di risorse anche se porta fortuna, visto l’incremento consistente delle pioggie di recente!

  5. luigi mariani

    Caro Paolo,

    mi spiace non sono d’accordo con te, e le ragioni le trovi in quanto ti ho prima scritto. Sto lavorando su questi temi da tanti anni e faccio uso la nomenclatura internazionalmente accettata, senza proclami e cercando il più possibile di farne un uso non ideologico. In proposito debbo dirti che fra gli studiosi del settore c’è convergenza diffusa su questo tipo di nomenclatura e non trovo motivi per abrogarla. Sarebbe un po’ come se si abrogasse il termine ciclone perché spaventa la gente….
    Ciao.

    Luigi

    • Caro Luigi,
      la convergenza diffusa, altrimenti detta consenso, non è che m’impressioni più di tanto, anzi 🙂
      Sono arciconvinto che tu usi la parola desertificazione senza proclami e ideologia.

      Questo non toglie che le parole di cui sto trattando in questi post sono usate dalla nomenclatura diversamente da te, almeno questa è la mia visione.
      Questo ancora non toglie che desertificazione è usato nel senso di inaridimento e, quindi, non vedo il motivo per introdurre nuovi termini.
      Se esistesse un termine “ciclonizzazione” applicato ad un fenomeno che porta alla formazione di un ciclone, al di là della bruttezza della parola, non avrei niente da dire (lo so, esiste: ciclogenesi).
      Fare riferimento al deserto, qualcosa di abbastanza definito, nel caso di un territorio dove cade un metro di acqua, per me ha solo risvolti comici al meno, fuorvianti e allarmistici nel caso generale.
      Questo è per me.

  6. Caro Luigi,
    credo di essere un po’ all’antica.
    Come hai notato, ho voluto riportare la differenza tra desertificazione e desertizzazione ma, col dovuto rispetto, non m’interessa per nulla quello che comunemente s’intende con queste due parole, dove il “comunemente” sta per “persone del settore”.
    La distinzione è pretestuosa, ingannevole, si potrebbe dire un sofisma.
    La radice delle due parole è la medesima ed evocare il deserto sulle colline emiliane dove piovono circa 800 mm di pioggia in un anno è, lo ribadisco, comico.
    I calanchi non sono deserto, sono improduttivi, e andrebbero definiti semplicemente suoli aridi.
    Tralasciando al momento situazioni limite e trascurabili, quali i calanchi o le saline, come ho scritto sopra gli altri tipi di suoli marginali e poco sfruttabili per l’agricoltura moderna in Italia riescono a produrre biomassa nel giro di poco, al più una generazione, bastando la messa a dimora delle essenze più adatte, falesie e similari escluse.
    Nel caso le precipitazioni dovessero calare, ad esempio sotto i 250 mm, potremmo riparlarne, ma non voglio perdere tempo dietro agli scenari futuribili e fantascientifici dei modelli climatici.
    La mia provenienza dal sud che più profondo non potrebbe essere, i proclami catastrofistici che si cerca d’inculcare da ormai 25-30 anni, l’osservazione che il deserto non è ancora arrivato, anzi, mi hanno portato ad un livello alto di disgusto per certe forme fossilizzate d’affrontare le questioni atte solo a creare allarme.
    Credo che tu ed io siamo abbastanza d’accordo sulla sostanza ed anche sulla forma, anche sul fatto che i problemi, in questo caso di iper-sfruttamento o inaridimento, vanno trattati con la dovuta serietà e competenza, senza proclami ad effetto che, spesso, hanno l’effetto contrario data la natura umana che, alla lunga, crea assuefazione e distacco dai problemi se portati all’iperbole.

    Ciao

  7. Luigi Mariani

    Caro Paolo,

    credo che per affrontare il problema da te posto occorra distinguere – come del resto tu fai ad un certo punto del tuo intervento – due concetti e cioè quello di desertizzazione (che è il processo di formazione di un deserto vero e proprio) e quello di desertificazione, per il quale può essere usata la seguente definizione della United Nations Convention to Combat Desertification (Art.1 – http://www.unccd.int):
    “desertification means land degradation in arid, semi-arid and dry sub-humid areas resulting from various factors, including climatic variations and human activities.” In tale definizione si parla dunque di processi propri di climi aridi, semiaridi e subumidi (i deserti artici, ove piove pochissimo ma le temperature sono bassissime sono comunque esclusi ma restano incluse le medie latitudini) che portano il suolo a perdere la propria capacità di supportare vegetazione.

    Nella desertificazione rientrano dunque moltissimi processi che portano alla perdita del suolo e che abbiamo molto spesso sotto i nostri occhi, anche nell’ubertosa Emilia Romagna (es. erosioni calanchive, eventi alluvionali, urbanizzazione, salinizzazione, ecc.). Si tratta di problemi quantomai concreti per chi li vive sulla propria pelle e che possono minare la produzione di cibo, per cui non andrebbero mai presi sottogamba.

    Venendo poi agli indici di rischio di desertificazione, nella loro formulazione debbono per forza entrare fattori quali la durata della stagione arida (tanto più ampia quanto più ci si avvicina la Mediterraneo), l’intensità delle precipitazioni, la copertura vegetale presente, la declività del suolo, il comportamento degli agricoltori, la frequenza di incendi, i caratteri degli animali al pascolo (es: gli ovini sono più problematici dei bovini), i caratteri delle acque di irrigazione, ecc.

    E’ poi ovvio che il processo di desertificazione abbia sempre una certa dose di reversibilità; tuttavia il ripristino della fertilità di un suolo “desertificato” è processo lento e pieno di incognite. Pensa ad esempio al fatto che la fertilità è concetto complicato, che coinvolge ad esempio il tenore di humus di un suolo che può essere incrementato in modo significativo solo a seguito di concimazioni abbondanti e protratte per molti anni. O pensa anche al fatto che un suolo salinizzato può essere liberato dal sale solo a condizione di disporre di un buon drenaggio che consenta all’acqua piovana di asportare i sali in eccesso, con operazioni costose e che possono richiedere anche molti anni.

    Questo è quanto sta – o dovrebbe stare – alla base delle carte di rischio di desertificazione che sono state prodotte a diverse scale anche per l’area europea.

    Poi c’è l’uso retorico del termine desertificazione (che spesso viene colpevolmente confuso con quello di desertizzazione) che francamente aborro perchè crea in continuo inutili sovrastrutture rispetto a un problema che reputo assai concreto.

    Ciao.

    Luigi

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