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Eventi estremi: Chi di mantra ferisce di mantra perisce

Alcuni giorni fa su Science Daily è uscito un articolo che preannunciava un intervento del climatologo Kevin Trenberth al meeting annuale della Geological Society of America tenutosi poi dal 9 all’11 ottobre. Il titolo della sessione era Extreme Climate and Weather events: Past, Present and Future. La presentazione di Trenberth nello specifico aveva questo invece questo titolo: The Russian Heat Wave and Other Climate Extremes of 2010.

Analizzando i dati relativi all’ondata di calore che ha colpito la Russia nel 2010, Trenberth arriva a concludere che l’evento ha avuto sostanzialmente una doppia radice, ovvero sia naturale che antropica. Per questo, come per altri (quasi tutti sembrerebbe) eventi estremi registrati nel 2010 e nella prima parte del 2011, periodo che non è stato affatto avaro al riguardo, Trenberth individua il contributo antropico nel fatto che abbiano avuto origine in zone del Pianeta caratterizzate da anomalie positive delle temperature di superficie del mare, avendo quindi a disposizione una maggiore quantità di vapore acqueo e di energia, scaricata poi nell’intensità degli eventi. Per la Russia in particolare, sarebbe stata la forza anomala del monsone indiano, appunto innescata dall’anomalia positiva della temperatura del mare, a generare le condizioni per la persistenza del blocco anticiclonico che ha poi favorito e alimentato le condizioni per l’intensa ondata di calore.

Trenberth punta a sfatare quello che egli stesso definisce un mito, ovvero che non sia possibile collegare con sufficiente accuratezza scientifica gli eventi estremi a scala locale e regionale, cioè il tempo atmosferico, alle dinamiche del clima. In pratica collega gli eventi estremi e la loro intensità e frequenza di occorrenza al global warming. Nell’articolo di SD, ripreso pari pari dal press release della GSA, Trenberth dice che questo è stato il mantra degli ultimi anni e dichiara apertamente di non essere d’accordo.

Nella realtà dei fatti, con tutto il rispetto della presentazione tenuta al meeting della GSA che tuttavia non è una pubblicazione scientifica (almeno non ancora) ma un poster, il mantra degli ultimi anni è stato esattamente l’opposto: il global warming è e sarà causa di aumento degli eventi estremi. Così ha stabilito il 4° rapporto dell’IPCC nel 2007, così ha ripetuto la propaganda catastrofista, così hanno recepito i media e gli opinionisti di ogni genere, sempre pronti, se a caccia di facili consensi, a portare questo o quell’esempio di disastro naturale come chiara dimostrazione dell’urgenza di agire.

Non è detto tuttavia che un mantra non sia supportato da adeguato livello di conoscenza scientifica. Però pare proprio che non sia questo il caso. Volendo potremmo partire dalla pubblicazione della NOAA riguardante proprio l’Heat Wave in Russia del 2010, un documento in cui si afferma chiaramente che l’evento, pur molto significativo, è del tutto ascrivibile alla normale variabilità naturale dei pattern atmosferici.

La comunità scientifica è poi concorde, e si tratta di pubblicazioni che resistono ancora alla prova della falsificazione, circa l’impossibilità di individuare alcun trend nell’intensità e nella frequenza di occorrenza degli eventi estremi per eccellenza, gli uragani (qui per qualche esempio). Questo accade sia per l’impossibilità di disporre di dati attendibili che vadano sufficientemente a ritroso nel tempo, sia perché, ad esempio, un indice pensato appositamente per misurarne la potenza l’ACE, non mostra alcun trend nelle ultime decadi, quelle in cui invece il riscaldamento globale avrebbe dovuto accrescerne il contenuto di energia.

Ma , il mondo, specialmente quello industrializzato, non è tutto alle latitudini tropicali, terra di caccia dei cicloni tropicali e delle piogge monsoniche, è anche e soprattutto fuori dai tropici, dove invece sono i cicloni extra-tropicali a fare i danni più seri.

E così accade che un team di ricercatori abbia appena pubblicato uno studio ponendosi l’obbiettivo di individuare – se presente – un trend nella forza e frequenza di occorrenza di questi eventi. Per definire in modo più o meno standard cosa è un ciclone extra-tropicale, i ricercatori hanno preso in esame quattro parametri atmosferici fondamentali, il geopotenziale alla media troposfera al centro della depressione e il suo gradiente orizzontale, la profondità della depressione e la vorticità relativa appena sopra lo strato di attrito. I risultati sono chiari, per nessuno di questi parametri è possibile distinguere alcun trend nel periodo 1957-2002 nell’area di riferimento, ovvero il settore del nord Atlantico. La maggior parte degli output individua un debole trend negativo per il numero di eventi e alcuni output individuano una tendenza degli eventi più intensi ad aumentare. La maggior parte e alcuni. Morale, boh.

Ma c’è di più, nel paper affermano anche che questi risultati sono consistenti con quelli cui sono giunti altri gruppi di ricerca che hanno lavorato sugli stessi argomenti.

Non manca, tuttavia, la consueta simulazione del trend prossimo venturo a mezzo modello climatico. E così, se dalla rianalisi dei dati che si presumono reali raccolti in un periodo di significativo riscaldamento non scaturisce alcuna tendenza, anzi semmai una tendenza negativa, simulando il futuro e applicando lo scenario di emissioni A1BS, salta fuori una ricca tendenza all’aumento dei cicloni tropicali e della loro potenza. A nessuno viene in mente, naturalmente, che quel modello e quello scenario non siano un gran che, dato che la realtà ha sin qui detto qualcosa di diverso.

Ma c’è un motivo. Il carburante di questi eventi, è noto, sono sì le temperature di superficie del mare, ma anche le discontinuità termiche nel flusso e il segno assunto dagli indici dei pattern atmosferici. Ora, che la temperatura media superficiale sia aumentata è un fatto (si può semmai arguire sul ‘quanto’ ma questa è un’altra storia). Così come è un fatto che siano aumentate le temperature di superficie del mare. Tuttavia è anche un fatto che questa tendenza si sia arrestata negli ultimi dieci anni o più. Nonostante ciò, l’intensità degli eventi NON è aumentata. E’ presumibile che Trenberth, impegnato a sfatare un mantra che non c’è per confermarne un altro che pure non sta in piedi, abbia trascurato il fatto che i dati di cui si dispone NON confermano l’ipotesi secondo la quale in un mondo più caldo il tempo e il clima debbano necessariamente oscillare tra estremi più intensi.

Dal punto di vista puramente speculativo, questa non è affatto una novità. Infatti, se come sappiamo la temperatura è cresciuta di più alle medie e soprattutto alte latitudini che a quelle basse, il gradiente termico lungo la longitudine si è ridotto. Quel gradiente è il motore delle discontinuità tra masse d’aria lungo le quali si sviluppano i cicloni extra-tropicali. Meno gradiente, semmai vuol dire meno cicloni o cicloni meno intensi, non il contrario, con buona pace di chi vuole a tutti i costi dimostrare il contrario ripetendo un mantra.

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Published inAttualitàNews

Un commento

  1. In fondo il problema e’ che anche i miserrimi dell’IPCC si riferivano sempre al 2050, e invece siamo qui a inseguire quello stonato di Trenberth che cerca il global warming nel 2011…

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