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Le nevi del Kilimangiaro

di Luigi Mariani

Le “nevi del Kilimangiaro” affascinano l’uomo moderno perlomeno da quando Ernest Hemingway scrisse l’omonima novella.

Un ritorno di fiamma dell’interesse verso questo remoto ghiacciaio tropicale si ebbe undici anni orsono grazie all’affermazione del geofisico Lonnie Thompson (2001) il quale disse che “è probabile che fra vent’anni il solo pezzo di ghiaccio del Kilimangiaro rimasto al mondo sarà nei nostri frigoriferi”  (qui trovate una biografia di Thompson).

Questo coup de theatre, peraltro citato da Gore nel suo Inconvenient truth, ha avuto un tale successo da fare dei ghiacci dei grandi vulcani africani o del Kilimangiario delle icone degli ecologisti e dei simboli del global warming.

Certo, diranno i lettori, la notizia è vecchiotta. Inoltre i più documentati ricorderanno la principale obiezione rispetto allo slogan di risiede nel fatto che regresso del ghiaccio sul Kilimangiaro ha una lunga storia, avendo avuto inizio nientemeno che intorno al 1880 e che da allora il calo della superficie è stato lento ed inesorabile, spinto probabilmente dai forti mutamenti di uso del suolo nelle zone circostanti il vulcano, distruzione delle aree forestali che garantivano l’apporto di umidità necessario per alimentare le precipitazioni. Tale tesi è espressa con dovizia di particolari in un articolo apparso sull’International Journal of Climatology del 2004 e firmato da Georg Kaser, glaciologo del gruppo di glaciologia tropicale dell’università di Innsbruch.

E’ oggi interessante riprendere l’argomento perchè su Earthobservatory della Nasa è uscito un commento corredato da splendide foto del ghiacciaio del Kilimangiaro (una ripresa da remoto e due da terra) che da sole giustificano la visita al sito NASA. Per inciso nel commento si fa’ riferimento a Cullen, N. (2012, October 1) The Cryosphere Discussion dell’European geophisical Union. Tale lavoro, che appare in slides essendo sottoposto a commento pubblico, conferma ampliandoli i dati di Georg Kaser. Devo infine segnalarvi un fatto curioso in cui mi sono imbattuto leggendo la bibliografia sull’argomento.

Nella bassa troposfera l’effetto serra è in larga misura saturato in virtù dell’abbondante presenza di vapore acqueo. Da ciò deriva che uno dei cardini della teoria AGW è quello per cui il feed-back positivo da vapore acqueo innescato dall’incremento antropico della CO2 dovrebbe manifestarsi nella troposfera media (e cioè a 5000-7000 m di quota) attraverso un aumento del tenore in vapore acqueo. Tuttavia le misure a nostra disposizione mostrano che il vapore acqueo nella troposfera media non sta aumentando ma viceversa sta diminuendo (si veda ad esempio cosa scrivono Paltridge e altri).

Vuoi vedere allora che la contrazione dei ghiacciai del Kilmangiaro (che si trovano nella media troposfera a circa 6000 m di quota) sia in realtà sintomo di un’eccezione alla teoria AGW e cioè del fatto che le perdite di ghiaccio si enfatizzano in quanto il ghiacciaio viene a trovarsi in uno strato atmosferico sempre più povero di vapore acqueo?

Preciso che quest’ultima mia domanda dev’essere considerata dal lettore come una boutade utile ad innescare il dibattito. Ciò perché non mi sono affatto scordato che fra una montagna, per grande che sia, ed il clima globale stanno una miriade di fenomeni a scala più piccola. Si pensi ad esempio al fatto che le temperature e le precipitazioni nell’area di indagine dipendono da un set di strutture circolatorie che operano a scale assai varie coem si può facilmente dedurre leggendo il Kenya climate outlook sviluppato da Gilioli e Mariani (2011). Per inciso questo outlook appare in un articolo dedicato alla malaria che è per molti versi innovativo e del quale, ad oltre un anno dalla pubblicazione su una accreditata rivista internazionale da parte del sottoscritto e dell’amico entomologo Gianni Gilioli, renderò conto fra non molto con una nota specifica su CM.

Bibliografia

  • Thompson L., 2001. Intervista radiofonica a “Living on Earth” [disponibile in rete al sito http://www.loe.org/shows/shows.htm?programID=01-P13-00008#top] -> incredibile… Dopo tanti anni è ancora presente.
  • Gilioli G., Mariani L., 2011. Sensitivity of Anopheles gambiae population dynamics to meteo-hydrological variability: a mechanistic approach, Additional file 1: Kenya climate outlook (http://www.malariajournal.com/content/10/1/294/additional).
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Published inAttualitàClimatologiaMeteorologia

6 Comments

  1. donato

    Guardando i diorami allegati all’articolo di N.J. Cullen citato da L. Mariani, è impressionante il regresso dei ghiacciai del Kilimangiaro. Circa la data di fusione totale di tali ghiacci, ho l’impressione che essa, effettivamente, potrebbe cadere nell’arco di qualche decennio (le estrapolazioni visibili nel grafico allegato all’articolo mi sembrano piuttosto realistiche). In altri termini il problema è, a mio giudizio, estremamente concreto. Circa le cause concordo con L. Mariani in merito al peso piuttosto rilevante che hanno avuto i forti cambiamenti ambientali delle aree circostanti il vulcano. Per quel che riguarda i cambiamenti climatici globali (ammesso e non concesso che siano quelli ipotizzati dall’IPCC et similia) ho l’impressione che il loro peso sia piuttosto limitato in quanto nelle zone tropicali essi dovrebbero avere un’influenza molto più ridotta. Ho sempre letto, infatti, che i maggiori cambiamenti (temperature e precipitazioni) dovrebbero riguardare le medie ed alte latitudini. L’ipotesi della riduzione della concentrazione di vapor acqueo nella media troposfera (area in cui si trova la cima del vulcano) è piuttosto intrigante in quanto spiegherebbe la minore piovosità (e, quindi, nevosità) che, nel lungo periodo, ha portato ad una riduzione degli accumuli nevosi. Ovviamente, come scrive L. Mariani, le precipitazioni che si verificano sulle pendici del vulcano dipendono anche da molte altre cause, però, se nell’aria non vi è vapore acqueo che possa condensare, mi sembra difficile che possa piovere o nevicare.
    Ciao, Donato.

    • Luigi Mariani

      Caro Donato,
      grazie per il commento che condivido in gran parte.

      Ho solo una puntualizzazione da fare, sottolineando il fatto che perché cada pioggia o neve occorre una sorgente di umidità che non può in alcun caso essere nella media troposfera, regione relativamente povera di vapore acqueo.
      In realtà sappiamo molto bene che il vapore acqueo che alimenta perturbazioni frontali o temporali viene dallo strato più prossimo al suolo (lo strato limite planetario o PBL) che è poi quello più ricco di vapore perché continuamente alimentato dalla traspirazione dei vegetali e dall’evaporazione dai corpi idrici.

      Per questo quando ho lanciato la mia “provocazione” circa il legame fra calo del vapore acqueo in media troposfera e contrazione del ghiaccio sul Kilimangiaro, non ho parlato di precipitazioni ma mi sono limitato a dire che le perdite di ghiaccio potrebbero enfatizzarsi in quanto il ghiacciaio viene a trovarsi in uno strato atmosferico sempre più povero di vapore acqueo (considerazione che poi mi sono poi subito rimangiato in quanto le montagne scambiano umidità con le aree pianeggianti circostanti tramite i circuiti di brezza, per cui mi pare evidente che i loro ghiacciai risentano soprattutto dell’aridificazione delle aree al contorno, legata ad esempio ai cambiamenti d’uso del suolo ed alla scomparsa del foresta).

  2. luigi mariani

    Ringrazio anzitutto per l’attenzione prestata al mio scritto.

    Circa poi il tema del’acqua sollevato da Agrimensore, concordo e rilancio, nel senso che esiste un enorme carenza a livello conoscitivo riferita al ciclo dell’acqua.

    Tale problema è rilevante non solo per il ruolo dell’acqua nell’effetto serra (di cui è responsabile all’80% circa) ma anche perché l’acqua attraverso i suoi cambiamenti di stato è responsabile dell’80% circa del riequilibrio energetico che avviene attraverso trasporto latitudinale dell’energia.
    Insomma: il regista del clima del nostro pianeta è senza alcun dubbio l’acqua in relazione ala quale oggi abbiamo ad esempio le seguenti difficoltà:
    – a misurare la precipitazione sui continenti e sugli oceani (i dataset di cui dispone che fa climatologia sono spesso di qualità scadente)
    – a stimare la cessione dalla superficie all’atmosfera legata alla traspirazione dei vegetali ed all’evaporazione dal terreno e dagli oceani (su questo sta per uscire un post cofirmato da Guido Guidi e da me).
    – a seguire l’acqua nel segmento atmosferico del suo ciclo.

    E’ ovvio che tutte queste debolezze ci rendono particolarmente deboli nello stimare il feed-back da vapore acqueo. Bè, questo sarà certamente pane per le future generazioni di ricercatori.

    • agrimensore g

      Bene, attendo l’articolo con grande curiosità!

  3. Gianluca Fusillo

    Prof. Mariani
    è sempre un piacere leggere le sue considerazioni. Grazie.

  4. agrimensore g

    Complimenti per l’articolo e grazie per il link al lavoro di Paltridge. Da tempo ho l’impressione che bisognerebbe verificare/indagare più approfonditamente sull’entità del feedback positivo dovuto al vapor acqueo.

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